a cura di Giuliano Zoroddu

Ci siamo già occupati della caduta di Costantinopoli (29 maggio 1453). Lo abbiamo fatto indirettamente, raccontando le gesta dell’ultimo Imperatore Costantino XI e dei due Cardinali Bessarione di Nicea ed Isidoro di Kiev,  tutti a vario titolo coinvolti nella difesa della Città; e relazionando brevemente sulla attività dei Papi, da Niccolò V a Leone X, per riconquistarla (vedi qui). Oggi vogliamo parlare direttamente di questo nefasto avvenimento della storia cristiana e vogliamo farlo prendendo in prestito alcune riflessioni di teologia della storia dello storico francese l’abbé René François Rohrbacher (1779-1856) autore della monumentale e ricchissima Histoire universelle de Église catholique.

I Greci, somigliano maggiormente ai figliuoli d’Israele ed agli ebrei. Per ottocento anni Dio li minaccia, li percuote, li corregge colla spada dei medesimi maomettani per farli tornar dall’eresia e dallo scisma all’unità della fede e della Chiesa. Come i figliuoli d’Israele, essi tornano a quando a quando, ma in modo poco sincero e poco durevole. Le loro diverse riunioni col centro dell’unità, colla Chiesa Romana, compresavi la riunione di Firenze , profittano ad alcuni individui: ma il corpo della nazione va sempre più imperversando nel male, infino a che Dio se ne stanca, come si era stancato dei figliuoli d’Israele, e mena gli ultimi colpi, come or ora vedremo.  […] Maometto (II), il quale aveva giurata pace a Costantino, rizzò incontinente una fortezza a due leghe da Costantinopoli, come per cominciar sin d’allora l’assedio della nuova Roma. In tal condizione, ì’imperator Costantino Dragasete mandava a papa Niccolò V chiedendogli aiuto contro il pericolo estremo che minacciava l’impero greco. Il papa gl’inviava qual Legato il Cardinale Isidoro, metropolitano di Russia, con una lettera simile alle risposte che il profeta Geremia faceva alle consultazioni del re Sedecia, allorché Nabucco era sul punto di assediare o di prendere l’infedele Gerusalemme. Egli parlava primieramente della negligenza di Giovanni Paleologo in pubblicare e consumare l’unione conchiusa a Firenze, e diceva dovere il nuovo imperatore guardarsi dal cadere nella medesima colpa, non dovendo la pena esser minore.
«Si tratta di un articolo principale del simbolo, l’unità della Chiesa. Ora la Chiesa non è una se non ha un solo capo visibile, sostenente le veci del Pontefice eterno, ed a cui tutti i cristiani devono obbedire. L’impero non sarebbe uno se esso avesse due capi. Fuor di questa unità della chiesa non v’ha salute; chi non fu nell’arca di Noè perì nel diluvio, e gli scismi sono puniti più severamente degli altri peccati. Core, Datan ed Abiron , che hanno preso a tare uno scisma nel popolo di Dio, noi li vediam percossi in modo più terribile di quelli che si erano resi colpevoli d’idolatria. L’impero greco n’è esso medesimo una prova. Non fu mai che si trovasse in condizione così deplorabile, non fu mai che corresse sì grande e imminente pericolo di diventar preda dei turchi. Quale ne può essere la cagione? Pel peccato d’idolatria, il popolo d’Israele e di Giuda sostiene una cattività di settant’anni a Babilonia. Per aver messo a morte il Figliuol di Dio fatto uomo, noi vediamo gli ebrei condannati ad aver sino a questo dì l’universo per loro esilio. Ora, da che i Greci hanno abbracciato la fede cattolica, noi non crediamo ch’essi abbiano adorato idoli, né commesso il deicidio degli ebrei, per meritar di cadere nella cattività e servitù dei Turchi. Bisogna dunque che vi sia un’altra colpa, la quale non può essere che lo scisma: scisma cominciato da Fozio e che dura da ben cinque secoli. Cosa dolorosa a dire è questa, e noi vorremmo seppellirla in eterno silenzio; ma se voi v’aspettate qualche rimedio dal medico, è d’uopo che mostriate la piaga. Ecco oggimai cinque secoli che Satana, principe e autore di tutti i peccati, ma principalmente dello scisma e della discordia, ha separato la chiesa di Costantinopoli dall’obbedienza del Pontefice Romano, che è il successore di Pietro e il vicario di nostro signor Gesù Cristo. Sono intervenuti infiniti trattati, sono stati celebrati molti concili, moltissimi legati sono stati mandati per sanar questa piaga crudele nella Chiesa di Dio. Da ultimo finalmente, per la provvidenza divina, nel concilio di Ferrara e di Firenze, l’imperatore Giovanni Paleologo e il patriarca Giuseppe di Costantinopoli, accompagnati da numerosa schiera di prelati e di signori, essendosi radunati con papa Eugenio IV, coi Cardinali della Santa Chiesa Romana e con una gran quantità di prelati occidentali, hanno messo tutte le loro cure per estirpare questo scisma inveterato: e finalmente, la gran mercé di Dio, superate tutte le difficoltà, si pervenne a pubblicar di buon accordo il decreto di questa unione. Queste cose sono state fatte sotto gli occhi dell’universo, e il decreto di questa unione, compilato in lettere greche e latine, colla sottoscrizione manuale di tutti gli astanti, è stato mandato per tutta la terra. N’è testimonio la Spagna coi suoi quattro regni cristiani di Castiglia, Aragona, Portogallo e Navarra; testimonio la Gran Bretagna, soggetta allo scettro del re degl’Inglesi: testimoni l’Ibernia e la Scozia, poste all’estremità del mondo; testimonio la Germania, abitata da popoli senza numero e che si distende sopra un immenso territorio; testimonio la Danimarca, la Norvegia e la Svezia, all’estremità del settentrione; testimonio il regno illustre di Polonia; testimonio l’Ungheria e la Pannonia; testimonio tutta la Gallia, che si allunga dal mare occidentale sino al mediterraneo e che posta fra i Germani e gli Spagnuoli, si accorda in questo cogli Spagnuoli ed i Germani. Tutto questo universo ha esemplari del decreto in cui questo scisma inveterato è abolito, secondo la testimonianza dell’imperator Giovanni Paleologo, del patriarca Giuseppe e degli altri che dalla Grecia vennero a Firenze, e le cui sottoscrizioni si trovano dappertutto ripetute. Noi tralasciamo di ricordar l’Italia, che non la cede ad alcuna delle province , e le cui città tutte conservano esemplari del decreto. E nondimeno, da tanti anni, questo decreto di unione è passato sotto silenzio fra i Greci ; non si vede alcuna disposizione negli animi per abbracciar questa unione, si differisce dall’un giorno all’altro, si ripeton sempre le stesse scuse. I Greci non si diano a credere però che il Romano Pontefice e la Chiesa Occidentale siano ciechi da non vedere e comprendere a che mirano queste scuse e queste dilazioni. Essi comprendono, ma portano pazienza, raccogliendo i loro sguardi sopra il signore Gesù Cristo, il Pontefice eterno, il quale comandò di conservar sino al terzo anno il fico infruttuoso che il padron del campo voleva recidere a cagione della sua sterilità».
Queste parole di papa Niccolò V contenevano una predizione terribile. Pronunziate e scritte nel 1451, esse si videro avverate tre anni dopo, nel 1453, colla presa di Costantinopoli e la rovina dell’Impero Greco, svelto d’infra gl’imperi e le nazioni come uno sterile fico.
«La Serenità Vostra saprà dunque – continua il papa nella sua lettera – che anche noi dissimuleremo insino a che voi abbiate in qualsivoglia modo risposto a queste lettere. Se, pigliando il partito più savio, insieme coi vostri grandi e col popolo di Costantinopoli, abbracciate il decreto d’unione, voi ci troverete, in uno coi nostri fratelli i Cardinali e con tutta la Chiesa Occidentale, sempre intesi all’onor vostro e al vostro benessere. Se, al contrario, voi rifiutate insieme col popolo di ricevere il decreto d’unione, voi ci costringerete a provvedere a ciò che vuole la vostra salute e il nostro onore».
Finalmente il papa esigeva come preliminari che l’imperatore richiamasse il patriarca di Costantinopoli [Gregorio III, in esilio a Roma, ndr], che il nome del Papa fosse messo nei dittici e recitato in tutte le chiese greche; che se ve ne fossero che avessero bisogno di spiegazione, si mandassero a Roma, ove si adoprerebbe con premura a chiarire i loro dubbi e trattarli onorevolmente. La lettera è dell’11 ottobre 1451.
Quanto alle conseguenze di questo negoziato, ecco come ne parla il greco Michele Ducas: «L’imperatore aveva mandato a Roma per domandar soccorso, confermare l’unione fatta a Firenze, recitare il nome del papa nei dittici della chiesa maggiore e richiamare il patriarca Gregorio sulla sua sede. Egli pregava al tempo stesso di mandar legati per acquetar le inimicizie implacabili nate dallo scisma. Il papa inviò il Cardinale di Polonia, Isidoro, arcivescovo di Russia, greco di patria, uomo savio e prudente, bene istruito nei dogmi ortodossi e che aveva assistito al concilio di Firenze. L’imperatore lo accolse coi riguardi e l’onor convenienti. Quando si venne a parlare dell’unione, l’imperatore e alcuni particolari vi consentirono; ma la maggior parte degli ecclesiastici, de’monaci e delle religiose non vi consentirono punto […]  gli scismatici corsero al monastero del Pantocratore e, rivolgendosi a Gennadio, che si chiamava allora Giorgio Scolario, gli dissero: “Che faremo noi?”. Siccome egli era chiuso nella sua cella , pigliò un foglio di carta e scrisse il suo parere in questi termini: “Miserabili Romei, perché traviate voi e mettete la vostra speranza nei Franchi invece di riporla in Dio? Perdendo la fede, voi perderete la vostra città. Abbiate pietà di me, Signore! io giuro alla vostra presenza che sono innocente di questo delitto. Miserabili cittadini, considerate quello che fate. In quella che voi rinunziato alla religione dei vostri maggiori e abbracciale l’empietà, voi vi sottoponete al giogo della servitù. Guai a voi allorché giudicate!”. Scritto ch’egli ebbe queste ed altre cose, le appiccò all’uscio della sua cella e si chiuse dentro. Le religiose che parevano superar gli altri per la santità della vita e la purezza della fede, secondo il parere di Gennadio e dei loro direttori spirituali, del paro che dei preti e dei laici della loro fazione, condannarono il decreto dell’unione e pronunziarono anatema contro quelli che lo avevano approvato o che lo approvassero. La minutaglia del popolo, uscendo dal monastero, entrò nelle taverne , e là, tenendo nelle mani bicchieri pieni di vino, condannavano quelli che consenti vano all’unione, e bevendo in onore di una immagine della Madre di Dio, la supplicavano di pigliare in sua protezione la città e di difenderla contro Maometto, come in passato l’aveva difesa centra Cosroe e contro il Cagan. Noi non sappiam che fare, soggiungevano essi, del soccorso e dell’unione de’ latini. Lungi da noi il culto degli azimiti!” Ma i cristiani che si erano raccolti nella chiesa maggiore, dopo fatte le loro preghiere e udito un discorso del cardinale, consentirono all’unione, a questa condizione però che quando piacesse a Dio di render loro la pace e di liberarli dal pericolo che li minacciava , il decreto sarebbe esaminato da persone capaci e ammendato, se si trovasse a proposito. Dopo di che convennero che si celebrerebbe nella chiesa maggiore una messa comune agl’Italiani ed ai Greci, nella quale si farebbe menzione di papa Niccolò e del patriarca Gregorio, che era allora in esilio: e fu scelto per questa cerimonia il 12 dicembre dell’anno 6961 (1452 dell’era volgare ). Alcuni si astennero dal ricevere i doni consacrali, riguardandoli siccome un sacrifizio impuro, a motivo ch’era stato offerto nella solennità della riunione. Il Cardinale però, che esplorava tutti i cuori e tutti i disegni dei Greci, vedeva chiare le astuzie e gl’inganni loro; nondimeno, essendo della medesima nazione, faceva sforzi, ma assai deboli per procacciar soccorso alla città. Rispetto al Papa, ciò che è avvenuto lo giustifica abbastanza; il rimanente è stato attribuito alla volontà di Dio, che dispone ogni cosa pel maggior bene. Ma il popolo […] non faceva alcun caso di tutto quello che era stato fatto. Quei medesimi che avean consentito all’unione dicevano agli scismatici: “Aspettate che noi vediamo se Dio distruggerà questo gran dragone che vuole inghiottire la nostra città , e allora vedrete se noi siamo uniti cogli azimiti”».
«Cosi favellando – osserva Michele Ducas – questi miserabili non ricordavano i tanti giuramenti fatti per la pace e la concordia de’ cristiani e delle chiese, nel concilio di Lione sotto il primo dei Paleologhi e nel concilio di Firenze sotto l’ultimo di loro, e di fresco in mezzo alla santa liturgia; essi non pensano che giuramenti le tante volte ripetuti (e le tante volte violati), traendo seco scomuniche terribili in nome della Trinità Santa, la memoria loro e quella della loro città sarà in breve cancellata dalla terra. Miserabili che siete! perché meditate voi vani progetti nei vostri cuori? Ecco che i vostri preti, i vostri cherici, i vostri monaci, le vostre religiose che non hanno voluto ricevere il corpo e il sangue del Salvatore dalle mani dei preti greci celebranti secondo il rito della Chiesa Orientale, sotto il pretesto che i loro sacrifizi erano profanati e non più cristiani, al punto di chiamar le loro chiese altari pagani; eccoli che domani saranno dati nelle mani dei barbari, perché siano contaminali e profanati essi medesimi nel corpo e nell’anima loro […]».
Ecco come il greco Michele Ducas ci fa conoscere le disposizioni dei Greci di Costantinopoli intorno alla riunione colla Chiesa Romana, allorché Maometto II si apparecchiava a prendere la città loro ed a rovinare il loro impero. Per trovar qualche simile esempio, si vuol risalire all’ assedio di Gerusalemme fatto da Vespasiano ed a quello postovi da Nabucco. Nell’uno, gli ebrei ributtarono gli avvertimenti di Geremia; nell’altro gli avvertimenti del Cristo medesimo, per seguire i segni del loro proprio cuore e le visioni dei loro bugiardi profeti. A Costantinopoli si ributtano gli avvertimenti del vicario di Gesù Cristo, si ributta la sua pace per ascoltar dei visionari. Nei primi mesi del 1453, i Turchi s’ impadronirono di diverse piazze intorno a Costantinopoli; erano i preludi della sua finale desolazione. «In mezzo a questa specie di scaramucce – dice Michele Ducas – si vide insensibilmente giungere la primavera e la quaresima, ma non si vide punto il fine delle controversie della Chiesa […]».
Finalmente, ne’ primi giorni dell’aprile 1453, Maometto II apparve davanti Costantinopoli con un esercito di trecentomila uomini, seguito da una flotta di quattrocento navi. Costantino Dragasete non aveva che una guarnigione di otto a novemila combattenti, con duemila genovesi capitanati dal prode Giustiniani. La popolazione della città, invece di raccogliersi contro il nemico di fuori, si divideva da sé medesima, come dal centro dell’unità cattolica.
[…] Gennadio insegnava e scriveva continuamente contro l’unione e faceva sillogismi contro il dottissimo e santo Tommaso d’Aquino e contro Demetrio di Cidone, cui egli accusava di essere nell’errore. Egli aveva a compagno e approvatore il primo del senato, il gran duca [Luca Notaras. ndr], il quale trascorse nell’impudenza a tal punto contro i Latini o piuttosto contro la città di dire, allorché apparve il numeroso e formidabile esercito dei turchi: “Vorrei piuttosto veder regnare in mezzo alla città il turbante dei Turchi che la tiara dei latini”.
[…] Dopo vari combattimenti, in cui i Turchi non sempre riuscirono vincitori, Maometto annunziò un generale assalto pel 27 maggio, accendendo fuochi per tutto il suo campo. L’imperatore Costantino Dragasete, dopo aver arringate le sue poche genti, entra per l’ultima volta in Santa Sofia, vi riceve l’ultima comunione, indi entra per l’ultima volta nel suo palazzo, saluta per l’ultima volta la sua famiglia, chiede perdono a tutti, e poscia corre sulle mura a sostenere il suo ultimo combattimento. L’assalto cominciò la notte e durò senza posa sino a giorno chiaro: allora Maometto combatté alquanto fiaccamente sino alle nove ore. Al cader del sole l’assalto ricomincia con nuovo accanimento. Gli assediati fanno valorosa difesa: i turchi in vari luoghi vengon respinti, ma tornano sempre più numerosi. Finalmente il genovese Giustiniani, principale speranza dei Greci, tocca una grave ferita e si ritrae. L’imperatore continua il combattere; ma i turchi penetrano per una porta vicina e lo pigliano a tergo. Il gran duca Nolaras abbandona il suo posto e si ritrae nella propria casa. Assalito così da tutte parti, Costantino Dragasele esclama: “Non vi sarà cristiano alcuno che voglia spiccarmi il capo?” Pronunziate appena queste parole, un turco gli mena un colpo sul volto e un altro turco, con altro fendente lo getta morto a terra, non sapendo che fosse l’imperatore. I turchi entraron cosi in Costantinopoli un’ora dopo mezzanotte del 29 maggio 1453.
[…] «Miserabili greci – soggiunge il greco Michele Ducas – […] se in mezzo alle tante sciagure che v’attorniano, discendesse dal cielo un angelo e vi dicesse: “Consentite all’unione della Chiesa, ed io reco a sterminio i vostri nemici!”, voi ributtereste le sue offerte o non le accettereste di buona fede. Quelli che dicevano, or fa pochi giorni, che era meglio cadere nelle mani dei Turchi che in quelle dei Latini sanno bene che quello che io dico è vero». E le circostanze riferite da Michele Ducas e le riflessioni con cui le accompagna sono infinitamente notevoli.
[…] Ecco in qual modo si adempirono le predizioni di papa Niccolò V sui greci ostinati nello scisma. Ma, come ne li rimproverava sin d’allora il loro patriarca Gregorio o Gennadio, essi non vi posero neppur mente. E oggidì, dopo quattro secoli di umiliazioni e di pene, i Greci non vi fanno maggior attenzione. Questo popolo, come l’ebreo, ha occhi per non vedere, orecchi per non sentire, ha una memoria perché non ricordi loro nulla ed una intelligenza per non comprendere la lezione formidabile che Dio gli infligge da ben quattro secoli per la sua ostinazione nello scisma, nella ribellione contro il vicario del Cristo e nell’antipatia contro i Cristiani d’Occidente. Dopo punitili per quattro secoli sotto la dura signoria deo settari di Maometto, la provvidenza suscita fra i greci un regno libero, e ciò per la generosa commiserazione degli Occidentali. Era ragionevole il credere che, non foss’altro, per riconoscenza e per accorgimento politico, cesserebbe l’antica antipatia contro i Cristiani d’Occidente; ma non ne fu nulla. Correndo il 1844 i deputati della Grecia libera stendono una costituzione politica del regno. Ed una delle loro prime cure è quella di decretare che il regno greco appartiene alla religione ed alla chiesa ortodossa orientale, e che non è permesso di tentare un greco ad abbracciar la religione e la chiesa ortodossa occidentale; o più chiaramente, che i greci appartengono allo scisma moscovita, e che non è consentito di ricondurli all’unità cattolica della chiesa romana. Egli è sempre come alla presa di Costantinopoli; piuttosto la scimitarra di Maometto oppure il knout dello czar che il bastone pastorale di s. Pietro!


(Storia universale della chiesa cattolica dal principio del mondo sino ai di’ nostri dell’abate Rohrbacher , Vol. XI, Torino, 1861, pp. 583-605)