di Guido Ferro Canale

“Papa eretico”. Una bestemmia per alcuni, un ossimoro per altri, un incubo per quasi tutti; di sicuro, un tema di discussione che, ogni volta che esce dalle pieghe dei manuali, scatena terremoti. Dice molto sul pontificato bergogliano il fatto che lo abbia reso quasi un refrain. Abbiamo visto un moltiplicarsi di appelli, lettere aperte, Dubia, correzioni filiali, adesso correzioni fraterne; e intanto lo spettro aleggiava sullo sfondo, evocato ma non nominato espressamente, perché tutti, in definitiva, si chiedevano (ci chiedevamo) “Che fare?”.

Io non so se qualcuno si sia finalmente dato una risposta. Certo altri lo hanno fatto in passato: il numero degli antipapi, davvero, non so se nella storia sia mai stato così alto! E non si può dire che abbiano risolto granché. Però, visto che il tema è tornato sulla cresta dell’onda, tanto vale sviscerarlo per bene. Se poi qualcuno si muoverà, sapremo almeno cosa pensare delle vie scelte.

Di cosa parliamo, quando parliamo di “Papa eretico”?

Domanda non banale, attenzione: come l’ente, il Papa eretico si dice in molti modi.

Eretico materiale vs. formale, anzitutto: c’è chi concede che possa darsi il primo caso, ma assolutamente non il secondo.

Caduto in eresia prima oppure dopo l’elezione, con notevoli differenze soprattutto rispetto all’assioma Prima Sedes a nemine iudicatur.

Eretico pubblico oppure occulto, come Maestro dei fedeli o come dottore privato.

Sul piano degli effetti, Depositus o Deponendus. E non dimentichiamoci il problema della sorte degli atti da lui compiuti.

Insomma, tanta carne al fuoco e, diamone atto, poche certezze.

Di solito, quando si dice “Papa eretico” senz’altra specificazione, si intende quello caduto in eresia dopo essere assurto (legittimamente) al Soglio. Ma vorrei partire dal caso più semplice, che per combinazione è quello opposto: l’eretico che viene eletto Papa. Malgrado l’eresia… o almeno si spera.

Dico che è il più semplice perché Paolo IV, con la “Cum ex Apostolatus officio”,[1] ha provveduto a dichiarare espressamente che un’elezione del genere è nulla, non attribuisce nessun diritto all’eletto, che è e resta un intruso nel Pontificato anche se tutti dovessero prestargli obbedienza, non importa quanto a lungo conservi di fatto il possesso della carica.

Si tratta di una bolla di carattere disciplinare e non magisteriale, nel senso che non definisce come dogma – e neppure enuncia come dato di dottrina – l’inabilità dell’eretico a divenire veramente Papa; ma stabilisce un punto importante, cioè che il fatto che tutti ti considerino Papa non significa che tu lo sia… e non ti mette automaticamente al riparo da contestazioni.

Da Suárez in poi, una nutrita schiera di teologi, che non cita mai questa bolla, ma sembra proprio mossa dall’intento non dichiarato di sterilizzarla, ha voluto sostenere che la universalis adhaesio, il fatto che Tizio sia riconosciuto come Papa da tutti quanti i fedeli, sarebbe segno infallibile della legittimità dell’elezione, perché la Chiesa, come non può sbagliarsi nel credere, così neppure nel riconoscere il vero Pastore; tanto che, si conclude, andrebbe addirittura creduto per fede che Tizio sia vero e legittimo Papa.[2]

Ma la “Cum ex Apostolatus officio”, al §6, parla proprio di una simile adesione universale.[3] Vero che sembra piuttosto escludere che essa abbia un effetto sanante; tuttavia, se fosse davvero la prova incontrovertibile che l’elezione è legittima – e quindi anche che Tizio non era eretico prima del Pontificato: il Billot fa l’esempio di Alessandro VI – non si potrebbe comunque dire che l’eletto non ha diritti… anzi! Perciò, la tesi di Suárez mi sembra sconfessata non solo dalla bolla, ma dall’indefettibilità della Chiesa, che le leggi ecclesiastiche universali chiamano in causa: qui viene ordinato a tutti i fedeli di non riconoscere mai come legittimo un Pontefice che, secondo questi autori, lo sarebbe con certezza assoluta.

Io non sono un teologo, quindi può darsi che mi sfugga qualche dato molto importante in senso contrario; di sicuro non mi spiego come questa tesi abbia potuto convincere quasi tutti i teologi posteriori.

Tra gli autori da me visti, soltanto Camarda – che, pur seguendo la tesi suareziana, scrive come canonista in una monografia sull’elezione del Papa e, quindi, non può ignorare la “Cum ex Apostolatus officio”, che anzi riporta integralmente – tenta un distinguo, dicendo che la bolla, parlando di obbedienza prestata “da tutti”, si riferisce solo ai Cardinali o al popolo romano presente. Questo può essere vero per lo specifico riferimento alla obedientia ei praestita, che dopotutto figura nel testo come sinonimo della adoratio che veniva compiuta dai Cardinali; ma la bolla stabilisce chiaramente che il problema potrà porsi in ogni momento, dunque anche dopo un’ipotetica accettazione universale.[4]

Ci si può chiedere, a questo punto, se Paolo IV intendesse includervi anche l’eretico occulto. Penso di no: intanto, egli aveva in mente il caso del Card. Morone, rispetto a cui era in corso il processo per eresia, ma che temeva venisse eletto comunque; ora, la distinzione pubblico / occulto si fonda appunto sulla possibilità o meno di provare il fatto in giudizio; e Paolo IV non nutriva dubbi sulla disponibilità di prove adeguate, ma sulla propria sopravvivenza in vita fino al momento di pronunciare la sentenza. Quel che più conta, poi, il testo della bolla, sorvegliatissimo e attento a prevedere mille ipotesi, non specifica “etiam occultus” (mentre per la simonia esisteva una precisazione del genere); perciò, quell’apparuerit deve essere inteso nel senso dell’eretico che sia pubblico in un luogo, ma non in un altro, perché della sua eresia poco o nulla sapevano gli elettori.

Vorrei comunque spendere ancora qualche parola sulla tesi di Suárez.

Egli arriva a sostenerla – dando peraltro atto che ai suoi tempi era pochissimo comune, per l’ovvio motivo che “Tizio è vero Papa”, di per sé, non si trova nella Rivelazione – in quanto mosso da una preoccupazione nobile e anche molto sensata, cioè che non avremmo mai un giudice veramente sicuro delle controversie dottrinali se, ad ogni definizione dogmatica, fosse possibile eccepire l’illegittimità dell’elezione.

Il ragionamento è corretto e più ancora lo era all’epoca, dove lo spettro che aleggiava su ogni elezione di Papa non era tanto l’eresia quanto la simonia: Giulio II, con la costituzione “Cum tam divino”, aveva stabilito una causa di nullità molto ampia, tra l’altro usando espressioni poi riprese dalla “Cum ex Apostolatus officio”, che chiaramente si muove su quella falsariga; e addirittura la simonia occulta comportava la nullità insanabile nonostante ogni e qualsiasi adesione universale. Almeno un Papa, Clemente XIV, pare sia stato pesantemente ricattato per indurlo a mantenere la promessa implicita di sopprimere la compagna di Gesù (Raimondo Gatto ha scritto un bell’articolo su quest’episodio, mi pare una ventina d’anni fa).

Insomma, la nullità dell’elezione del Papa non era, per questi autori, una questione solo teorica: il concetto di simonia è molto ampio, copre anche le promesse implicite e i comportamenti concludenti… e parliamo del Cinquecento, del Seicento, delle potenze cattoliche che hanno ciascuna un proprio Cardinale della Corona, si arrogano il diritto di esclusiva. Basterebbe molto meno per concludere che ogni Conclave è a rischio di nullità! Tra l’altro, solo con la Aeterni Patris di Gregorio XV si obbligano i Cardinali a riunirsi tutti nello stesso luogo, prima si rischiava ogni volta lo scisma di Papi perché si cercava di procedere per fatti concludenti se non proprio compiuti: il gruppo dei sostenitori di Tizio lo intronizza, lo proclama Papa e, se nessuno si oppone… Il Cardinal Baronio, se ben ricordo, si è opposto addirittura fisicamente a un tentativo del genere, sbarrando proprio il passo all’aspirante. Per questo, poi, nella Aeterni Patris, anche l’elezione per quasi inspirationem richiedeva l’unanimità.

In altre parole, Suárez aveva perfettamente ragione a preoccuparsi, ma – almeno secondo me – ha cercato il rimedio nel punto sbagliato. Intanto, ex post facto, quindi per i dogmi del passato, una volta che sono stati definiti e che il discrimine tra cattolici ed eretici si è stabilito di fatto secondo la loro accettazione, dovremmo dire che la legittimità del definiente è divenuta un fatto dogmatico; ma a ben vedere questo dovrebbe essere vero già all’atto e per il fatto della definizione. Come osserva il Bellarmino, proprio riguardo all’esercizio dell’infallibilità papale, chi dà il fine dà anche i mezzi; e la definizione di un nuovo dogma è una grazia, una delle maggiori che Dio possa donare alla Chiesa. Può darsi che un antipapa tenti una definizione dogmatica apparente, io non lo escludo; ma dovrà allora trattarsi di qualcuno la cui illegittimità sia già emersa, come è avvenuto per il conciliabolo di Basilea, che si è pronunziato in favore dell’Immacolata Concezione, però soltanto dopo che Eugenio IV aveva trasferito il Concilio legittimo a Ferrara; e infatti il decreto basileese non ha fatto testo in alcun modo. Mi sento, però, di escludere che Dio possa ispirare o anche solo consentire a un Papa apparente, la cui legittimità è stata incontroversa fino a quel momento, di definire un dogma senza averne l’autorità: Egli non può permettere ciò che senz’altro avverrebbe, cioè che la Chiesa intera scambi per dogma ciò che dogma non è, almeno per difetto di autorità, se non anche di verità. E allora, viceversa, se la definizione avviene, qui sì acquistiamo una certezza infallibile sulla legittimità del Papa; ma ex ante, prima che proceda a definire, non è necessaria, basta a tutti la certezza morale data dall’assenza di contestazioni.

Non regge, temo, neanche l’argomento di fatto, cioè che non si è mai verificata la universalis adhaesio ad un falso Papa:[5] Formoso, per quanto è dato sapere vista la scarsità di fonti, ha regnato senza contrasti, ma dopo la morte è stato dichiarato illegittimo nel celebre “Sinodo del cadavere”, quindi riabilitato, poi nuovamente condannato; e sebbene oggi figuri nell’Annuario Pontificio e sia generalmente considerato vero Pontefice, al tempo tutti si sono acquietati dopo l’ultima sentenza, nonostante le pesantissime conseguenze (invalidità delle ordinazioni, con effetti “a cascata”). Ora, io non so se potesse sostenersi che il diritto canonico del tempo lo rendesse, in quanto già Vescovo, ineleggibile al Pontificato sotto pena di nullità (probabilmente no); ma delle due l’una, o ha errato tutta la Chiesa nell’accettarlo come vero Papa, o ha errato in seguito nel respingerlo, così come deve aver sbagliato almeno uno dei Papi che si sono pronunziati sul punto. Tutto ciò dovrebbe essere impossibile, secondo la tesi di Suárez, e mi sembra che basti a dimostrare che, rispetto a un Papa che non abbia definito dogmi, non si può andare – e non occorre andare – oltre la certezza morale. 

Chiedo scusa se mi sono dilungato su quest’aspetto, ma mi è sembrato necessario per confutare fino in fondo l’obiezione comune e, se vogliamo, anche di senso comune per cui, se tutti pensano che tu sia il Papa, allora lo sei. E invece no: potresti comunque non esserlo.

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Ora torniamo alla nostra bolla.

E’ importante notare che, sebbene sia nata dal già citato timore di Paolo IV che fosse eletto il Card. Morone e benché l’intento espresso sia proprio evitare che un eretico giunga al Papato (§1), di fatto la “Cum ex Apostolatus officio” detta una normativa generalissima, per cui gli eretici perdono automaticamente tutti gli uffici, i benefici e anche il potere temporale (negli Stati Cattolici, chiaramente; ma non ci si era ancora rassegnati alla rottura dell’unità politica della Christianitas), divenendo altresì inabili a conseguirne una qualunque altra, almeno fino alla pubblica abiura; nel quadro di questa disciplina generale si collocano le norme specifiche per il caso del Papa.

Lo noto perché ho sentito affermare che la bolla sarebbe stata abrogata dal Codice del 1917. Più che abrogata, direi rifusa: la troviamo tra le fonti di ben quindici canoni o paragrafi, tra cui il 218, dedicato alla plenitudo potestatis, e, il 1556, testualmente “Prima Sedes a nemine iudicatur”; in entrambi i casi, si noti, è richiamato il §1, quello che ritiene giudicabile il Papa eretico. Ancora, la bolla è fonte del can. 2294 §1 – inabilità a conseguire uffici per i colpiti da infamia iuris, quali appunto gli eretici – del 2198, sull’ausilio del braccio secolare, e del 188, che riprende la perdita automatica dell’ufficio, costruendola come rinuncia presunta (ne riparleremo meglio più avanti).[6]

Ora, si dà il caso che il Codice del 1917, al can. 6, affermi di avere per lo più mantenuto la disciplina anteriore e che, nella misura in cui la riprendono, i suoi canoni vanno interpretati in conformità con essa (meglio: con i probati auctores che l’hanno commentata). Quindi è difficile sopravvalutare l’importanza di quest’inserimento tra le fonti: certo, la collezione di Gasparri e le note al Codice non sono munite di autorità legale, quindi non stabiliscono una volta per tutte quali siano le fonti da consultare per l’interpretazione di un canone, però rappresentano comunque un punto fermo e godono dell’autorevolezza che ci si può legittimamente aspettare per la testimonianza principe di intenti e attività della Commissione codificatrice. Anche se forse sarebbe più corretto parlare di “consolidazione” che di codificazione.

Insomma, se interpretato secondo le indicazioni dei suoi compilatori, il CIC 17 non solo prevede l’ipotesi del Papa eretico, non solo consente di giudicarlo, ma continua a comminare la nullità alla sua elezione, esattamente come prima. Quindi, se oggi qualcuno volesse sostenere che Tizio, attualmente in possesso dell’ufficio papale, è stato eletto invalidamente perché eretico già prima dell’elezione, potrebbe sicuramente farlo: vige in proposito, sicuramente, una norma generale che il precedente legislativo e la tradizione interpretativa dichiarano applicabile anche al Papa.

E dico “vige” perché, siccome il Codice del 1983 non ha introdotto modifiche di rilievo ai canoni in questione, l’interpretazione “continuista” è addirittura doverosa per l’interprete, perché – anche sotto il nuovo Codice – nel dubbio la nuova legge non abroga la precedente, ma deve essere armonizzata con essa.

Una piccola modifica c’è, per la verità: il §6 della bolla stabilisce che la nullità non richiede alcun provvedimento dichiarativo; ora, però, qualunque dei due Codici si usi, esso è sempre necessario almeno se l’intruso conservi di fatto il possesso dell’ufficio. Quindi, la nullità opera di diritto, ma, per comprensibili esigenze di certezza giuridica, va dichiarata prima che si possa provvedere all’ufficio

Avevo promesso un caso semplice e forse ho finito per parlare troppo; ma tenevo a inquadrare alcuni punti preliminari.

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Adesso veniamo all’altra ipotesi: il Papa che cade in eresia dopo l’elezione.

Diciamo subito, quanto al fatto, che la possibilità è pacifica almeno per l’eresia materiale, in quanto storicamente verificatasi almeno nel caso di Giovanni XXII; per la verità ho sentito obiettare che il problema della visione beatifica, all’epoca, era ancora una questione teologica aperta, ma, a parte il fatto che la reazione veemente della Cristianità depone in senso contrario, questo varrebbe semmai ad escludere l’eresia formale, non certo la contraddizione tra la sua tesi e quella che era comunque una verità già rivelata, anche se, in ipotesi, non ancora proposta come “de Fide credenda”.

Che questa eresia sia stata pubblica, non vi è dubbio, visto il quarantotto che ne è seguito. Ma Giovanni XXII l’ha insegnata come Papa oppure come dottore privato?

A questo proposito, secondo me, i teologi del passato tendevano – e tuttora, per effetto di trascinamento, si tende – a confondere due concetti molto diversi: il Papa non nell’esercizio delle Sue funzioni, come Ratzinger quando scriveva libri, giusto per fare un esempio immediato; e l’incapacità radicale di quell’atto a impegnare l’autorità magisteriale. Molte volte leggo “dottore privato” e capisco, dal contesto, che non intendono dire che quel giorno il Papa avesse, passami l’espressione, smontato dal lavoro e si stesse facendo quattro chiacchiere al bar (oltretutto, oggi le chiacchiere assurgono a superdogma, altro che Concilio…). No, intendono dire che, nella misura in cui quell’atto è eretico, non può essere giuridicamente riferibile all’ufficio, alla persona pubblica, e allora – evidentemente – impegna solo la persona privata. Anche perché, quando pensano al Papa Maestro e dottore, hanno subito in mente l’infallibilità: il concetto di “Magistero pontificio ordinario” è uno sviluppo ottocentesco, dopotutto.

Giovanni XXII non ha agito come dottore privato nel primo senso: voleva sicuramente esercitare il “munus docendi”. Certo, tre omelie non fanno un’Enciclica, termine che oltretutto all’epoca neanche si usava; ma, dato che sbatteva in galera gli oppositori e ha impegnato tutto il Concistoro perché voleva procedere ad una definizione dogmatica della dottrina che sosteneva, direi che non considerava le proprie parole come l’intervento di un “dottore privato” in una questione aperta, bensì come quell’intervento che poteva chiuderla perché legittimato a invocare ben altra autorità.

Se sia stato eretico formale è più difficile a dirsi. Di sicuro ha impiegato un bel po’ a lasciarsi convincere; ma parliamo pur sempre di un ultranovantenne la cui ostinazione potrebbe essere dovuta più all’età che alla malizia. E poi, diciamocelo: se in materia di Fede qualcuno ha il diritto di ostinarsi, questo qualcuno è il Papa!

Il dato non è, comunque, dei più rilevanti ai nostri fini. Tralascio anche gli altri esempi storici – Liberio, Onorio… – perché mi basta aver stabilito come dato certo la possibilità dell’eresia materiale pubblica; del resto, secondo me Liberio ha solo avuto paura e Onorio si è espresso male… ma mi preme osservare che la Chiesa non ha un problema solo quando il Papa è eretico per davvero, ce l’ha pure quando esiste “soltanto” un dubbio probabile che lo sia! E direi che, da mezzo secolo a questa parte, ne sappiamo qualcosa.

Acclarato, dunque, che può darsi almeno questo caso, l’eresia materiale pubblica, c’è da interrogarsi sulle conseguenze.

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Devo dire, sono molto sorpreso che don Curzio Nitoglia – che stimo come una delle intelligenze più brillanti del cattolicesimo italiano – abbia potuto scrivere, nel suo recente editoriale sull’argomento, non solo che la pretesa di deporre il Papa eretico sarebbe in sé stessa conciliarista, ma addirittura che il solo rimedio possibile sarebbero preghiera e sopportazione.

In tutta onestà, non posso fare a meno di considerarla un’opinione azzardata: al di là delle differenze di impostazione, che la Chiesa disponga di un rimedio propriamente giuridico per affrontare questo caso è ammesso da un consenso generale di teologi e canonisti che dura – come minimo – dagli albori del diritto canonico ai giorni nostri. Già il più noto testo del Decretum Gratiani in proposito (dist. XL, c. 6, Si Papa) raccomanda la preghiera quale unico rimedio alle malefatte del Papa, ma eccettua proprio quest’unico caso: “nisi forte deprehendatur a fide devius”.

Riguardo al valore giuridico del canone e del Decretum, poi, credo che sia necessaria qualche precisazione.

Oggi noi pensiamo al diritto canonico primariamente come ad un insieme di leggi emanate dal Papa, in secondo luogo ai Concili e ai Vescovi; ma, almeno fino alla riforma gregoriana (se non anche oltre), le cose sono state molto diverse. Intanto, i Papi intervenivano nella vita delle singole Chiese soprattutto scrivendo lettere in risposta a dubbi su casi concreti, lettere che poi, però, venivano copiate, circolavano e tendevano ad essere applicate anche in altri luoghi o per analogia; e lo stesso succedeva anche per tutta la produzione normativa – e non solo normativa – delle autorità locali. Il passaggio di un’omelia che avesse detto, poniamo, che era indecoroso per un chierico portare la barba poteva diffondersi in tutta la Chiesa, se il suo autore era un Padre di grande reputazione, e creava diritto; a maggior ragione, i canoni dei Concili provinciali venivano copiati e circolavano ben al di là dell’ambito territoriale dove vigevano ratione auctoritatis. Si trattava di un mondo giuridico in cui tutte le suggestioni di un materiale anche profondamente eterogeneo dovevano poi misurarsi, non solo sul terreno della rationabilitas e quindi della persuasione – il motivo storico per cui il diritto canonico insiste tanto sulla rationabilitas come requisito essenziale della legge – ma soprattutto con le consuetudini locali, a volte microlocalistiche, il vero ostacolo alla riforma gregoriana. Naturalmente, la circolazione di testi che provenivano da contesti storici, autori e intenti anche profondamente diversi tra loro comportava un buon numero di perplessità su quale regola andasse seguita di fatto; e perciò quel che Graziano da Chiusi ha tentato di fare – incontrando un successo più duraturo di altri che lo avevano preceduto nell’impresa – è stato rendere ragione di queste antinomie, ricomporle; non per nulla Decretum è un soprannome, per così dire, il titolo esatto dell’opera è Concordia discordantium canonum, articolata essenzialmente in Distinctiones. Se la apriamo ci troviamo di tutto: i concetti di lex e ius, mos e consuetudo sono spiegati ricorrendo all’enciclopedia più diffusa del Medioevo, le Etymologiae di S. Isidoro di Siviglia (Dist. I); lo stesso Graziano, con un suo dictum, introduce la descrizione delle diverse fonti del diritto romano (Dist. II); e già a proposito di concetti molto generali come la possibilità di sindacare la legge o la necessità di una sua recezione da parte del popolo troviamo, intercalate da dicta conciliatori, un testo di S. Agostino, una lettera a tutti i Vescovi attribuita a papa Telesforo, un sermone di S. Ambrogio sul digiuno quinquagesimale… (cfr. Dist. IV).

Graziano, il Maestro Graziano, riesce ad armonizzare tutto questo materiale e lo si può ben considerare il padre di quel principio che troviamo tuttora consacrato nei Codici di Diritto Canonico: nel dubbio, l’abrogazione non si presume e l’interprete deve, appunto, armonizzare la legge nuova e l’antica. Egli conosce benissimo il criterio della successione delle leggi nel tempo e lo impiega, ma spiega altre differenze con la diversità dei luoghi considerati (ratione loci) o nell’ottica del bonum animarum (ratione dispensationis) oppure, moltissime volte, distinguendo i significati dei termini (ratione significationis). Tutta l’opera è come una lunghissima esposizione dottrinale di questi materiali giuridici, un gigantesco trattato che ingloba i materiali legislativi e che, a volte, sembra procedere più per associazioni di idee che secondo un ordine sistematico; ma il risultato è un diritto organizzato. Un diritto scritto, oltretutto, e molto utile per la causa della riforma gregoriana.

L’opera di Graziano non ha mai avuto altra autorità che quella del suo autore, non le è mai stata attribuita forza di legge; ma il successo strepitoso che le ha arriso, paradossalmente, ha portato a dimenticare, o almeno a far perdere rilevanza pratica a molte distinzioni ratione loci: i testi inseriti nel Decretum sono stati percepiti in automatico come dotati di auctoritas; a volte hanno indotto una vera e propria consuetudine universale, che ha forza di legge; altre volte sono stati reputati diritto vigente dalla generalità dei canonisti… e in diritto canonico la dottrina è fonte suppletiva, se manca una legge scritta (o una consuetudine) si ricorre appunto alla communis et constans doctorum sententia.  

Quest’ultimo è sicuramente il caso del can. Si Papa. Leggo – non ho approfondito di mio la questione storica – che esso non sarebbe di S. Bonifacio martire, l’autore cui è attribuito; e senza dubbio i testi spuri accolti nel Decretum sono numerosi. Ma questo non basta per contestare l’autorità legale che esso ha acquisito: concesso che non possa aver dato luogo ad una consuetudine, che avrebbe richiesto una costante applicazione di cui l’Onnipotente ci ha, per fortuna, risparmiato il bisogno, è stato trattato come diritto vigente dalla generalità dei canonisti… e, per questa via, in buona sostanza lo è diventato.

Del resto, l’idea che il principio Prima Sedes a nemine iudicatur patisse eccezione proprio e solo nel caso di un delitto contro la Fede era già antica all’epoca di Graziano: a parte i decreti del sinodo romano sotto papa Simmaco, che non so se siano egualmente sospetti di falsità, ne troviamo un esempio molto chiaro nella vicenda di Giovanni XII, al secolo Ottaviano dei conti di Tuscolo, unanimemente considerato il Papa peggiore di tutti. La sua deposizione da parte di un Sinodo per iniziativa dell’imperatore Ottone I, nel 963, deve, con buona probabilità, considerarsi invalida e non gli ha comunque impedito di morire nel possesso della carica; ma mi interessa di più far notare il dato storico, cioè che anche un Sinodo guidato da ragioni politiche e dove le accuse più circostanziate riguardavano i costumi – dal vizio di andare a caccia allo spergiuro nei confronti dell’imperatore, senza contare una nutrita serie di delitti contra Sextum – non si è azzardato a deporlo per nulla del genere, ma, verosimilmente “gonfiando” le piazzate di un giovinastro intemperante che, a quanto pare, ubriacandosi con gli amici proponeva brindisi agli dèi pagani, lo ha trasformato nientemeno che in un apostata. Segno evidente che sapevano benissimo di non avere l’autorità di deporlo come delinquente comune, ma ritenevano di averla qualora avesse peccato contro la Fede, e solo in quel caso, perfino di fronte ad un personaggio che doveva apparire davvero indifendibile, se non ci è arrivata neppure l’eco di una voce in suo favore.

Un ultimo dettaglio sul Decretum, prima di procedere oltre. Il canone Si Papa è spurio, ci dicono; ma l’edizione romana di Gregorio XIII, la sola che possa e debba impiegarsi nei Tribunali ecclesiastici, non solo lo ha mantenuto, ha conservato anche la relativa Glossa ordinaria, che addirittura sostiene che qualunque crimine pubblico potrebbe consentire l’accusa contro il Papa, se si dimostrasse incorreggibile, perché l’incorreggibilità stessa è eresia; tesi respinta dalla generalità di teologi e canonisti della Controriforma, eppure i Correctores Romani – molto attenti ai passi che potevano favorire l’eresia e/o la polemica protestante – l’hanno mantenuta.

Comunque, a prescindere dal Decretum, che il Papa eretico sia passibile di giudizio e perda o debba perdere il proprio ufficio non è soltanto dottrina comune, non si fonda solamente sul consenso di canonisti e teologi (sebbene quest’ultimo possa anche indicare che ci troviamo dinanzi ad un insegnamento del Magistero ordinario e universale, attenzione). La si trova enunciata anche dalla già citata bolla “Cum ex Apostolatus officio”, §1, in termini che confermano palesemente il testo del Decretum.

In questo, infatti, si legge: “Huius [Romani Pontificis] culpas istic redarguere praesumat mortalium nullus, quia cunctos ipse iudicaturus, a nemine est iudicandus, nisi deprehendatur a fide devius”.

Lo si confronti con la bolla: “Nos considerantes rem huiusmodi adeo gravem, et periculosam esse, ut Romanus Pontifex, qui Dei, et Domini Nostri Iesu Christi vices gerit in terris, et super gentes, et regna plenitudinem obtinet potestatis, omnesque iudicat, a nemine in hoc saeculo iudicandus, possit, si deprehendatur a fide devius, redargui, et quod ubi maius intenditur periculum, ibi est plenius, et diligentius consulendum…”.

Per Paolo IV – dicesi Paolo IV! – non si tratta, evidentemente, di condannare come pericolosa l’opinione che vorrebbe giudicabile il Papa eretico, ma al contrario, di assumerla come vera per prevenire un pericolo che sta nei fatti.

Si noti che – come ho già detto prima – proprio questo paragrafo è richiamato tra i fontes del can. 1556 CIC 1917; come dire che i codificatori non hanno né mutato né inteso mutare il principio Prima Sedes a nemine iudicatur, espungendo l’unica, ben nota eccezione. In forza del can. 6, il silenzio del Codice non basterebbe comunque a far pensare ad un’innovazione di disciplina; ma se anche l’autorità di Gasparri ci attesta che detto principio è stato recepito e inteso con la restrizione di cui alla “Cum ex Apostolatus officio”, §1, mi pare che ogni dubbio venga meno. Anzi, si spiega pure la mancata citazione del canone Si Papa: a un testo di dubbia autenticità se ne è preferito uno dal valore certo. 

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Infine, ma non certo da ultimo, che il Papa eretico possa essere giudicato è anche dottrina proposta dal Magistero autentico: almeno un Pontefice l’ha insegnata espressamente. E parliamo nientemeno che di Innocenzo III, sotto il cui regno l’autorità papale ha raggiunto l’apogeo. Eppure, nelle sue omelie II e IV de consecratione Pontificis, egli non ha esitato ad insegnare che “Potest [Pontifex] ab hominibus iudicari vel potius iudicatus ostendi, si videlicet evanescit in haeresim, quoniam qui non credit iam iudicatum est”.[7] Ora, non mi risulta che l’obbligo di prestare il religiosum obsequium venga meno per il decorso del tempo.

Fin qui abbiamo semplicemente detto che il Papa può cadere in eresia anche dopo l’elezione – punto tuttora ammesso da tutti almeno come ipotesi teorica; ed è evidente che se fosse di fede il contrario non sarebbe neppure concepibile l’ipotesi; io poi non escluderei che sia proprio questa stessa possibilità a far parte del dogma, visto il noto monito di S. Paolo ai Galati… ma non è importante discuterne ora – e abbiamo ribadito che esiste un rimedio giuridico, non semplicemente il rimedio soprannaturale della preghiera. Adesso si tratta di vedere quale sia e a quali condizioni esso operi.

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Occorre considerare, in primo luogo, che l’ostinazione è elemento costitutivo dell’eresia in quanto tale; ma l’ostinato non è necessariamente, in automatico, un eretico formale. Suárez – che pur premette che, quanto alla possibilità che il Papa divenga eretico, “Quod licet multi affirment, mihi tamen breviter et magis pium et probabilius videtur, posse quidem Papam, ut privatam personam, errare ex ignorantia, non autem ex contumacia[8] – è chiarissimo nell’affermare che, per l’ipotesi che ne occupa, basta l’eresia materiale, purché pubblica e ostinata: “Sextum dubium erat, quid in praesenti quaestione dicendum si Papa exterius tantum esset haereticus. Respondendum breviter: [escluso il caso di coercizione] si voluntarie deliberasset, et tanquam ex propria sententia exterius professus fuisset haereticam doctrinam, quidquid sit de interiori ejus fide, eadem ratione et modo contra eum procedi posset, qua contra quemlibet alium haereticum; tum quia Ecclesia de interioribus seu occultis minime judicat; tum quia non minus noceret Ecclesiae talis Pontifex, quam si esset verus haereticus.”.[9] La distinzione non è presente, per quanto ho potuto vedere, negli altri autori, ma non viene neppure smentita; tutti comunque insistono sulla pubblicità dell’eresia e l’ostinazione. Dirò più avanti perché mi senta di condividere appieno, qui, la linea di Suárez.

Sono note a tutti, credo, le cinque opinioni riferite da S. Roberto Bellarmino riguardo all’eresia del Papa e alle sue conseguenze giuridiche:[10] che il caso non si possa dare mai, come sostiene Alberto Pighi e a lui sembra probabile, ma “tamen non est certa, et communis opinio est in contrarium”; che l’eresia, anche solo interna, comporti la perdita immediata dell’ufficio ad opera di Dio, secondo il Card. Torquemada; che al contrario non sia deposto né si possa deporre neppure il Papa manifestamente eretico, tesi “sane valde improbabilis […] Adde, quod esset miserrima conditio Ecclesiae, si lupum manifeste grassantem, pro pastore agnoscere cogeretur”. Quindi la quarta opinione, propugnata dal Gaetano, secondo cui l’eretico manifesto non è ancora deposto, ma deponendus; e la quinta, da lui stesso preferita, secondo cui il Papa eretico manifesto cessa, per ciò solo, di essere a un tempo membro della Chiesa e anche suo Capo, sicché contro di lui si può procedere come contro gli altri eretici.

La prima opinione trova oggi valorosi sostenitori in Cantoni e Cavalcoli; la seconda mi sembra definitivamente abbandonata, anche perché l’eresia solo interna, per definizione, resta ignota alla Chiesa che dovrebbe conoscerla; della terza, che io sappia, tra i canonisti più recenti ne è stato fautore il solo Bouix, ma scopro ora, non senza sorpresa, che la abbraccia anche don Curzio [e Mons. Schneider, ndr]. Oltretutto senza dare atto di quanto essa, in realtà, sia isolata.

Restano la quarta e la quinta. Come dire che vi è unanimità morale sul fatto che almeno l’eresia manifesta[11] debba comportare la perdita dell’ufficio, non in un reame astratto o all’invisibile cospetto di Dio, ma qui sulla terra; si controverte sulla natura dell’intervento che compete alle autorità umane, non sulla possibilità o liceità di un intervento purchessia.

Questo è conciliarismo?

Il Ballerini ne era così preoccupato che, acceso di furor antifebroniano, è arrivato a sostenere che la contestazione dell’eresia potrebbe essere fatta anche da un semplice Sinodo romano,[12] mentre il Card. Gaetano ritiene che, per il principio dell’actus contrarius, la competenza sulla deposizione spetti al Collegio dei Cardinali… ma, effettivamente, la quasi totalità degli autori evoca e invoca, a questo proposito, il Concilio “imperfetto”. Compresi i difensori più strenui delle prerogative del Papato contro le pretese conciliariste: tutti, infatti, si appellano all’autorità dell’Apostolo (Tt 3,10) per sostenere che il dovere di evitare l’eretico è incompatibile con la soggezione a lui e che il Papa, cadendo in eresia, si pone da sé stesso fuori della Chiesa. Ancora in pieno Settecento, S. Alfonso, scrivendo proprio contro l’opera conciliarista – questa sì… – di Natale Alessandro, presenta come assolutamente certa la tesi per cui il Concilio ha potestà sui casi di Papa dubbio e di Papa eretico;[13] anzi, potrei citare in tal senso anche il de Maistre.[14]

Ma, per tagliare la testa al toro, credo che possa bastare la testimonianza del Billot. Dopotutto, egli scrive dopo il Vaticano I, quando il conciliarismo è solo più un’ombra del passato; è un ultramontano di ferro; si dice certissimo che il caso del Papa eretico non si verificherà mai. Eppure, con tutto questo, anche per lui è certo, non solo che il Papa divenuto, in ipotesi, notoriamente eretico perderebbe ipso facto il Pontificato, ma anche che la Chiesa potrebbe, in tal caso, pronunziare una sentenza dichiarativa; perfino per lui, i possibili problemi lato sensu conciliaristi riguardano la diversa ipotesi di una sentenza costitutiva, come dire di una deposizione vera e propria da parte di un’autorità umana.[15] Egli nulla dice sulla competenza a dichiarare l’evento; ma poco prima, a proposito del Papa dubbio e di circostanze tali da rendere impossibile l’osservanza delle norme che regolano l’elezione, non ha avuto difficoltà a riconoscere che il compito di eleggere un nuovo Pontefice passerebbe ad un Concilio in forza del diritto naturale e del principio di conservazione insito in ogni societas.[16] Il suo silenzio si deve, forse, a ritegno nell’ipotizzare una qualunque forma di superiorità del Concilio sul Papa; ma avendo egli ammesso almeno l’ipotesi astratta che il Pontefice cada in eresia, affermando altresì che allora perderebbe l’ufficio, ma un’autorità umana dovrebbe dichiarare l’evento, è evidente che non considera l’asserto “conciliarista” in sé.

Ci si può chiedere, peraltro, se questa competenza del Concilio imperfetto sia di diritto divino. Suárez pensa di no e ritiene che potrebbe essere attribuita ai Cardinali, ma che, nel silentium legis, spetti alla generalità dei Vescovi, non senza aggiungere che essi potrebbero anche procedere riunendosi Provincia per Provincia, anziché in un vero e proprio Concilio generale.[17] Teniamo presente che, sullo sfondo delle discussioni, c’è sempre la preoccupazione di difendere la legittimità di quegli atti del Concilio di Costanza che hanno posto fine allo scisma, in particolare la condanna di “Benedetto XIII” e la sua privazione dall’ufficio – casomai fosse stato veramente Papa – perché la sua resistenza a qualunque compromesso lo ha fatto giudicare fautore dello scisma e scismatico egli stesso, nonché eretico, per negazione implicita dell’articolo che vuole la Chiesa Una. Ma lì si versava pur sempre nell’ipotesi del Papa dubbio, nel senso di dubie electus.

La mia opinione personale, per quanto può valere, è che oggi coesistono due competenze distinte: del Concilio imperfetto se si segue la via giudiziaria, il vero e proprio processo al Papa, per scoprire se sia un eretico formale; con l’avvertenza che la decisione dichiarerà il fatto e la colpa, ma sarà Dio, una volta intervenuta l’autorità umana, a privarlo della potestà, in chiara simmetria con quanto avviene all’elezione. Tuttavia, se viene eletto un eretico e anche se il Papa cade in eresia, l’ufficio è vacante, quindi esiste una via amministrativa: il Sacro Collegio – anzi, oggi i soli Cardinali elettori, che sono l’autorità competente – può, anzi deve, emettere il decreto che dichiara questa vacanza e procedere a nuova elezione. Quanto al caso della bolla “Cum ex Apostolatus officio”, il §6, quello specificamente dedicato all’elezione papale, figura quale fonte dei cann. 1435 §1, sui benefici riservati alla Sede Apostolica per nullità dell’elezione, quindi si può desumere che la competenza del Concilio imperfetto a provvedere a designare il nuovo Papa sia stata esclusa; comunque, la “Universi Dominici Gregis” e le Costituzioni precedenti, almeno a partire da Pio XII, vanno seguite, per disposizione espressa, in tutti i casi di vacanza della Sede Apostolica. Resta però, secondo me, il cap. “Si vero”, quella parte del decreto Frequens in cui il Concilio di Costanza ha dettato regole e procedure per comporre uno scisma di Papi; quindi una volta che di fatto si trovino contrapposti due o più soggetti che agiscano come Romani Pontefici, ciascuno di loro è tenuto a indire, entro un mese, un Concilio, che dovrà tenersi entro un anno; altrimenti gli si rifila la “vitamina B13”, è considerato scismatico e privato di ogni eventuale diritto sul Pontificato. Qualcuno dovrebbe, almeno, ammonire in tal senso sia Bergoglio sia i diversi antipapi in circolazione…

***

A questo punto, veniamo alle obiezioni.

Non credo di dovermi preoccupare dell’infallibilismo in senso tecnico, cioè della tesi del Pighi: se non abbiamo, come di fatto non abbiamo almeno per insufficiente proposizione da parte della Chiesa, la certezza infallibile che il Papa non possa mai cadere in eresia (e che non vi sia caduto prima perché tutti lo hanno accettato come Papa), si può dare un dubbio probabile che la catastrofe sia avvenuta; se un dubbio del genere dilaga, come nel caso di Onorio, bisogna che un’autorità visibile provveda. E S. Leone II ha ratificato la condanna di Onorio, sebbene in forma più mitigata. Il che, soprattutto per un infallibilista, dovrebbe tagliare la testa al toro.

L’obiezione successiva – suscitata dalle molte leggi umane fin qui richiamate – è che il Papa è soggetto soltanto al diritto divino.

Ma appunto il diritto divino stabilisce chi sia o non sia membro della Chiesa in senso giuridico: teologicamente, sono incorporati a Cristo tutti i battezzati, ma appartengono a “questa Chiesa qui”, visibile continuazione in terra dell’opera redentiva di Nostro Signore, soltanto quei battezzati che Le sono uniti nei tria vincula del Bellarmino. Questo, attenzione, resta vero anche per il Codice del 1983 (can. 205), che, sebbene accenni al concetto di “piena comunione”, di fatto disciplina la communio ecclesiastica alla vecchia maniera (cfr. can. 96). Ora, sempre secondo il Bellarmino, per l’appartenenza alla Chiesa visibile, che è in qualche modo il minimum rispetto a tutta la vita di grazia, non si richiede neppure la fede teologale, ma basta che qualcuno, fosse pure mosso da speranze o timori terreni, professi esteriormente la Fede Cattolica;[18] inversamente, la negazione pubblica e ostinata anche di un solo dogma, se pure per avventura non si accompagni alla perdita della fede interiore, esclude comunque dalla communio ecclesiastica.[19] Si resta però soggetti al potere coercitivo della Chiesa e si può incorrere nella scomunica, che non è la stessa cosa della perdita della comunione. Spiegando la differenza, il Card. Velasio de Paolis, che commenta il CIC 83, nota che per la pena canonica occorrono gli estremi del delitto, quindi l’eresia formale, ma per la perdita della comunione basta il dato esteriore, la perdita della fede. «[Oltre agli acattolici] non sono scomunicati neppure i cattolici che abbiano commesso il peccato di eresia o apostasia dalla fede (cf. can. 751), senza che peraltro abbiano commesso il delitto di apostasia, eresia, o scisma (can. 1364; coll. can. 1330). Il cattolico infatti che non ha più la pienezza della fede non è più in comunione piena con la Chiesa», avendo perso uno dei tre requisiti del can. 205, i tria vincula del Bellarmino; «ma non necessariamente ha commesso un delitto e quindi ha contratto la scomunica; non è necessariamente scomunicato.»[20]

Che poi la perdita dell’appartenenza alla Chiesa sia incompatibile con la detenzione di un ufficio ecclesiastico è addirittura intuitivo: dopotutto, per dirigere una qualunque organizzazione, fosse pure una bocciofila, si richiede di condividerne i fini e accettarne i mezzi; la Chiesa poi, dal Concilio di Costanza in avanti, via via ha esteso i casi in cui considera comunque validi gli atti compiuti da eretici e/o scomunicati che continuano a detenere l’ufficio, ma è stato necessario introdurre queste norme per legge ecclesiastica, perché l’uso precedente voleva la nullità radicale.

A parer mio, la legge umana può anche specificare a quale, o quali, autorità si debba riconoscere competenza a intervenire sulle diverse ipotesi di Papa eretico. Dopotutto, nulla è stato disposto da Nostro Signore riguardo alla designazione del Pontefice. Non è affatto certo che il Concilio “imperfetto” sia di diritto divino; però, oltre al consenso dei canonisti come fonte sussidiaria di diritto umano, vale almeno il dubbio probabile, che supplisce la giurisdizione per regola generale.

Si noti, peraltro, che se il Papa può anche dirsi legibus solutus, chiunque proceda contro di lui, vuoi in via amministrativa vuoi giudiziaria, deve osservare scrupolosamente tutte le leggi ecclesiastiche pertinenti, perché la sua autorità si limita a ciò che è necessario per la decisione del caso singolo; il Concilio “imperfetto” potrebbe emanare altri decreti, ma questi avrebbero bisogno dell’approvazione di un Papa certo per entrare in vigore, mentre i Cardinali più di chiunque altro debbono attenersi al principio Sede vacante, nihil innovetur.

Quindi, l’esame e lo studio dei canoni è necessario sia per comprendere quale sia il modo giusto di procedere, sia anche per guadagnare certezze nell’ordine pratico, indispensabili quando non possono dirsi risolutive quelle di Fede, perché si tratta di questioni dottrinali su cui il giudizio della Chiesa ancora non si è espresso. A Costanza avevano lo stesso problema, in più non potevano non agire; lo scisma è stato risolto in maniera sicuramente valida – se non altro perché il successore di ”Benedetto XIII” ha rinunciato e i suoi pseudocardinali hanno eletto Martino V – ma il conciliarismo, che già esisteva da tempo, è diventato “il” problema del Papato per un secolo buono, finché la crisi protestante non si è dimostrata un male maggiore. Un’ipotetica azione contro il Papa eretico non potremmo certo dirsi immune da rischi analoghi; ma le definizioni di Firenze, le bolle del Lateranense V e i dogmi del Vaticano I non sono passati invano, oggi il novero delle nostre certezze di Fede è più ricco; certo, il neo-conciliarismo del nostro tempo minaccia di reinventare la religione stessa a colpi di assemblee… ma quest’eresia è già conclamata e inescusabile. Anche l’esperienza di Costanza e Basilea – pagina drammatica come poche nella storia della Chiesa – potrà pur insegnare qualcosa su errori da non ripetere: a Costanza, “Concilio pastorale” ante litteram, si sono emessi decreti in materia di dottrina senza procedere a definizioni dogmatiche; a Basilea si sarebbe voluto definire un dogma senza l’approvazione del Papa e, anzi, direttamente contro il Primato.

Servirà di sicuro, prima o poi, che un’autorità riconosciuta come legittima definisca ciò che bisogna credere o condannare in merito al complesso problema del Papa eretico; e Costanza ci ha lasciato anche una lezione positiva, che non dovrebbe andare sprecata, sull’opportunità di disciplinare nel dettaglio le procedure per simili casi di emergenza. Tuttavia, come credo di aver mostrato, bastano la dottrina comune e le norme pacificamente in vigore per affrontare la questione nell’ordine pratico.  


[1]    V. in P. Gasparri (cur.), Codicis Iuris Canonici Fontes, vol. I, Roma 1947, num. 94, pagg. 163-6.
[2]    F. Suárez, De fide, spe et caritate, Tract. I – De fide theologica, Disp. X – De Summo Pontifice, Sect. V – An certa fide constare possit, humc hominem esse verum Pontificem et Ecclesiae caput (ed. Parigi 1858, pagg. 312-5); tra i posteriori, cfr. almeno L. Billot, Tractatus de Ecclesia Christi, vol. I, Prato 1909, pagg. 620-1.
[3]    Dichiara che l’elezione dell’eretico “nec per susceptionem muneris, consecrationis, aut subsecutam regiminis, et administrationis possessionem, seu quasi, vel ipsius Romani Pontificis inthronizationem, aut adorationem, seu ei praestitam ab omnibus obedientiam, et cuiusvis temporis in praemissis cursum, convaluisse dici, aut convalescere possit, nec pro legitima in aliqua sua parte habeatur
[4]    A.S. Camarda, Constitutionum Apostolicarum, una cum Caeremoniali Gregoriano de pertinentibus ad electionem Papae, synopsis accurata et plana necnon elucidatio omnium fere difficultatum, quae evenire possunt circa pertinentia ad electionem Romanorum Pontificum, Reate 1737, Diss. XL, pagg. 264- : “[I]lla particula Omnibus non respicit totam Ecclesiam, sed totum Collegium Cardinalium, aut Romanos praesentes;si enim Summus Pontifex Paulus IV per talem particulam denotasset totam Ecclesiam, id clarius expressisset, sicuti vere exprimendum fuisset, quia non est verisimile, quod Pontifex voluerit reddere dubium hunc articulum, scilicet infallibilitatem Ecclesiae in recipiendo Papam”. Io penso, molto semplicemente, che Paolo IV non credesse affatto in questa applicazione dell’indefettibilità della Chiesa, che d’altronde non era affatto sentenza comune al suo tempo. Né posso condividere l’altro asserto del Camarda, secondo cui l’interpretazione ampia di Omnibusnon est Ecclesiae favorabilis, sed cedere potest in perniciem Fidei, & fidelium”: questo pericolo, semmai, è insito in qualunque contestazione del genere; se poi fosse vero, come egli scrive, che si dovrebbe ritenere che, in virtù dell’assistenza divina, essa verrebbe mossa subito e non si darebbe mai la universalis adhaesio, non si spiegherebbe perché la bolla dice “Si ullo umquam tempore apparuerit”, clausola che egli tenta di restringere al tempo in cui è ancora possibile solevare il problema perché non si è formata l’adesione universale; a parte la contraddizione e la petizione di principio, si tratta di una chiara interpretatio abrogans, perché umquam non tollera limitazioni.
[5]    F. Suárez, Op. et loc. cit., n. 8.
[6]    Cfr. I. Serédi (cur.), Codicis Iuris Canonici Fontes, vol. IX, Roma 1939, pag. 141 (documento n. 94; il riferimento al can. 2207 non trova corrispondenzanelle note al Codice, ma sembra corretto dal punto di vista contenutistico).
[7]    Innocenzo III, Sermo IV de consecratione Pontificis, PL 217 670B. Molto più lungo e articolato il testo del Sermo II. Entrambi, come del resto l’intera raccolta dei Sermones, sono successivi all’elezione al Pontificato… e lo si capisce già dal tenore letterale.
[8]    F. Suárez, Op. cit., Sect. VI – An verus semel Papa necessario dum vivit existat Papa, vel possit aliqua ratione a dignitate cadere, n. 11. Caratteristica di un vero eccesso di fiducia nella Divina Provvidenza, che purtroppo ha fatto scuola, la sua affermazione ibid.: “Si talis quispiam Pontifex inciperet Ecclesiam administrare, vel illum Deus confestim de medio tolleret, vel certe provideret qua ratione tantum malum brevi extingueretur, ut in casibus minus urgentibus videmus hactenus semper fecisse.
[9]    F. Suárez, Op. et loc. ult. cit., n. 13.
[10]  S. Roberto Bellarmino, De controversiis Christianae fidei adversus huius temporis haereticos, III Controversia generalis – De Summo Pontifice, Lib. II, Cap. XXX (Napoli 1872, pagg. 418-20).
[11]  Chiarisco, in quanto possa occorrere, che manifestum, detto del peccato o del delitto, vale “pubblico con scandalo”.
[12]  Cfr. P. Ballerini, De potestate ecclesiastica Summorum Pontificum et Conciliorum Generalium liber una cum vindiciis auctoritatis Pontificiae contra opus Justini Febronii, Verona 1768, cap. IX §2 (pagg. 127 sgg.).
[13]  S. Alfonso M. De’ Liguori, Verità della Fede contro i Materialisti che negano l’esistenza di Dio, i Deisti che negano la religione rivelata, ed i Settari che negano la Chiesa cattolica essere l’unica vera, Napoli 1767, Parte Terza, Cap. IX, nn. 1-2 (pagg. 720-1): “Per maggior intelligenza di quello che qui si dirà, giova premettere tre cose per certe. La prima, che ogni concilio ecumenico, o sia generale, per esser legittimo dee esser convocato dal papa. […] La seconda cosa certa si è che quando in tempo di scisma si dubita chi sia il vero papa, in tal caso il concilio può essere convocato da’ cardinali e da’ vescovi; ed allora ciascuno degli eletti è tenuto di stare alla definizione del concilio, perché allora si tiene come vacante la sede apostolica. E lo stesso sarebbe nel caso che il papa cadesse notoriamente e pertinacemente in qualche eresia. Benché allora, come meglio dicono altri, non sarebbe il papa privato del pontificato dal concilio come suo superiore, ma ne sarebbe spogliato immediatamente da Cristo, divenendo allora soggetto affatto inabile e caduto dal suo officio.”.
[14]  Cfr. J. de Maistre, Du Pape, vol. I, Lyon 1819, pagg. 28 e 126.
[15]  “Hac igitur suppositione semel facta, concedunt omnes auferendum fore vinculum communionis et subiectionis, propter auctoritates divinas quae expresse iubent separationem ab haereticis, Tit. III-10, 2 Ioan. 10, etc. Sed aliqui cum Caietano volunt ut papa factus haereticus subsit potestati ministeriali Ecclesiae in ordine ad depositionem, dicuntque hanc esse unicam exceptionem in generali doctrina paulo supra asserta et declarata. Alii vero statuunt quod talis ipso suo facto a pontificatu excideret, ita ut ex parte Ecclesiae non esset  locus depositioni, sed solum sententiae declaratoriae de vacatione sedis. […] Porro ex duobus dicendi modis hic posterior videtur unicam premere viam in qua certissima ecclesiasticae constitutionis principia adhuc illaesa servantur.”. L. Billot, Op. cit., pagg. 615-6. E conclusivamente a pag. 617: “Facta ergo hypothesi papae qui fieret notorie haereticus, incunctanter  [!] concedendum est quod ipso facto amitteret pontificalem potestatem, dum propria voluntate transferretur extra corpus Ecclesiae, factus infidelis, sicut bene dicunt auctores quos immerito, ut videtur, confutat Caietanus.”.
[16]  “[S]upposita semel talium occurrentia circumstantiarum, sine difficultate admittendum quod potestas electionis devolveretur ad concilium generale. Ex ipso enim iure naturali est, quod in eiusmodi casibus attributio potestatis superioris deveniat per devolutionis viam ad potestatem proxime sequentem, quantum praecise requiritur ut possit societas conservari et extremae necessitatis angustias evadere.” L. Billot, Op. cit., pagg. 610-1.
[17]  Cfr. F. Suárez, Op. et loc. cit., nn. 7-8.
[18]  S. Roberto Bellarmino, De Ecclesia militante, cap. II – De definitione Ecclesiae.
[19]  S. Roberto Bellarmino, De Ecclesia militante, cap. IV – De haereticis et apostatis.
[20]  V. de Paolis, Le sanzioni nella Chiesa, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (cur.), Il diritto nel mistero della Chiesa, Vol. III, PUL, Roma 20043, pag. 496. Anche il can. 96, d’altronde, distingue: «…quatenus in ecclesiastica sunt communione et nisi obstet lata legitime sanctio».