
di Alfio Sciacca, fonte Corriere.it
«Ciò che continua a darmi il tormento è pensare mia sorella da sola, a migliaia di chilometri di distanza, senza nessuno di noi accanto a tentare fino all’ultimo di fermarla». Sono passati più di tre mesi dal suicidio assistito, a soli 46 anni, di Alessandra Giordano morta nella clinica «Dignitas» a Zurigo. Non era malata terminale ma solo depressa. E il fratello Massimiliano indugia proprio su quell’aggettivo: «assistito». «Ma che suicidio assistito… mia sorella non era nelle condizioni di decidere per sé, senza la presenza di un familiare. Nessuno ci ha informati, tutto ciò è semplicemente disumano. Per questo non smetteremo di chiedere che vengano perseguiti quanti l’hanno istigata al suicidio, in Italia e in Svizzera». Un primo passo nell’inchiesta aperta dalla Procura di Catania è arrivato con l’iscrizione nel registro degli indagati del fondatore dell’associazione torinese «Exit» Emilio Coveri che avrebbe aiutato «con telefonate e mail la donna a portare a termine la decisone di togliersi la vita». «È solo un punto di partenza. Aspettiamo il resto» commenta il fratello. Dopo mesi di battaglie e amarezze Massimiliano non vuole comunque cedere alle polemiche. Dunque nessuna replica a Coveri che ha detto di «essere onorato dell’avviso di garanzia». «Non ci interessano le sue esternazioni».
L’insegnante catanese
Nella vicenda dell’insegnante di Paternò (Catania), colpisce anche il modo in cui si è consumata tutta la storia e l’atteggiamento della clinica svizzera. I familiari vengono a sapere per caso che si era imbarcata per andare in Svizzera. «Ce lo disse un’amica che la incontrò in aeroporto. A quel punto iniziammo a chiamarla, ma lei non rispondeva. Quando, tra varie peripezie, scoprimmo che era a Zurigo, diffidammo la Dignitas in quanto Alessandra era gravemente depressa, come attestava il certificato allegato alla mail». Furono quindi presi contatti con l’Ambasciata italiana e poi i familiari partirono per Zurigo. «Nulla da fare, il suicidio venne praticato un’ora dopo il nostro arrivo».
Le accuse
Un mese dopo la clinica si preoccupò solo di recapitare le ceneri della donna «senza alcuna spiegazione per la loro condotta». Solo in seguito la famiglia viene a sapere dei rapporti con «Exit». «Fino ad allora neppure conoscevamo questa associazione». Sapevano invece dei propositi di Alessandra di ottenere il suicidio assistito. «Ci aveva anche chiesto di accompagnarla in Svizzera, e ovviamente ci eravamo opposti attivando il servizio di psichiatria dell’ospedale che aveva deciso di ricoverarla fino al primo marzo 2019». Per Massimiliano «senza un aiuto esterno mia sorella non sarebbe stata in grado di praticare il suicidio assistito, considerato che voleva essere accompagnata anche per andare dal medico». Nonostante gli sviluppi nell’inchiesta resta cauto «e non per mancanza di fiducia nella magistratura, ma perché c’è di mezzo un Paese straniero. Con le nostre forze potremo fare ben poco, occorre che si mobiliti anche la politica». Quelli appena trascorsi per i familiari di Alessandra sono stati mesi difficili. «Ci ha ferito l’assoluto disprezzo per la vita e i tanti commenti di gente che si permette di giudicare senza conoscere i fatti». Infine resta il grande vuoto. «Mia sorella era bella, forte, solare e noi credevamo nella possibilità di un suo recupero. Non aveva una malattia terminale e non doveva morire in quel modo. Vogliamo giustizia anche per evitare che ci possano essere altri casi come il suo».
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Il tutto mentre Vincent Lambert, invece di ricevere cure e assistenza come ogni disabile grave dovrebbe ricevere, viene ucciso per disidratazione col plauso e le fini argomentazioni bioetiche di personaggi che della morte ai più deboli han fatto un mestiere: “ma a voi che vi frega?”

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