Braz de Aviz il giorno dell’imposizione della berretta cardinalizia da parte dell’allora Papa Benedetto XVI il 18 febbraio 2011

La Nuova Bussola Quotidiana (vedi qui) ha pubblicato alcune recenti “rivoluzionarie” affermazioni del Cardinale João Braz de Aviz dal 2011 Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.
«Molte cose della tradizione, molte che appartengono alla cultura di un tempo, non funzionano più […] Abbiamo forme di vita che sono legate ai nostri fondatori che non sono essenziali […] Un certo modo di pregare, un modo di vestire, dare più importanza a certe cose che non sono tanto importanti e ad altre che sono importanti darne poca. Questa visione più globale dell’insieme, questa non l’avevamo, adesso l’abbiamo […] possono crollare tutte le cose secondarie, ma non può crollare il carisma speciale dei fondatori».

Effettivamente queste sono parole rivoluzionarie, tipiche di quello stravolgimento ed abbattimento delle strutture e delle istituzioni, anche le più sacre, che tanto piace ai modernisti. In queste parole del porporato brasiliano, già noto fra le altre cose per la persecuzione dei Francescani dell’Immacolata, tuttavia non ci pare di ravvisare nulla di particolarmente nuovo od originale, bensì la stessa mania di aggiornamento e lo stesso spirito di abbandono della plurisecolare Tradizione della Chiesa, percepita come inadatta al mondo moderno ed intralcio al dialogo con esso (e non potrebbe essere altrimenti, visto che viene da quel Dio che il mondo non ha conosciuto!) che animò Paolo VI nella sua devastante riforma.

Parlando al Patriziato Romano il 14 gennaio 1964, Montini così annunziava le riforme venture, che si sarebbero anzitutto abbattute sul Papato per renderlo più adatto al mondo moderno: «Il dovere, che incombe alla Santa Sede, di attendere al governo della Chiesa universale e di venire a colloquio apostolico col mondo moderno, oggi agitato da rapide e profonde trasformazioni, la obbliga ad una visione realistica delle cose, che le impone, anche dolorosamente talvolta, di sceverare e di preferire nel suo retaggio di istituzioni e di consuetudini ciò che è essenziale e vitale, non già per dimenticare, ma per rinvigorire i suoi veri impegni tradizionali».
Ugualmente e con maggior convinzione (e formulando anche una lucida profezia sulla nocività del nuovo rito) la volontà di aggiornare la liturgia di renderla adatta ai tempi moderni. Nel discorso tenuto nell’udienza generale di mercoledì 26 novembre 1969 il Nostro affermava: « Non più il latino sarà il linguaggio principale della Messa, ma la lingua parlata. Per chi sa la bellezza, la potenza, la sacralità espressiva del latino, certamente la sostituzione della lingua volgare è un grande sacrificio: perdiamo la loquela dei secoli cristiani, diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario dell’espressione sacra, e così perderemo grande parte di quello stupendo e incomparabile fatto artistico e spirituale, ch’è il canto gregoriano. Abbiamo, sì, ragione di rammaricarci, e quasi di smarrirci: che cosa sostituiremo a questa lingua angelica? È un sacrificio d’inestimabile prezzo. E per quale ragione ? Che cosa vale di più di questi altissimi valori della nostra Chiesa? La risposta pare banale e prosaica; ma è valida; perché umana, perché apostolica. Vale di più l’intelligenza della preghiera, che non le vesti seriche e vetuste di cui essa s’è regalmente vestita; vale di più la partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara, intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana. Se il divo latino tenesse da noi segregata l’infanzia, la gioventù, il mondo del lavoro e degli affari, se fosse un diaframma opaco, invece che un cristallo trasparente, noi, pescatori di anime, faremmo buon calcolo a conservargli l’esclusivo dominio della conversazione orante e religiosa? ». Come ben sappiamo l’italiano, le chitarre, il tavolino in faccia al popolo e le casule in terital non hanno attirato nessuno, ma l’aggiornamento val bene la perdita dei fedeli!
Ancora più esplicito (altro che Papa Francesco!) nel giugno dello stesso annus orribilis: «A noi preme moltissimo che questo “spirito di rinnovamento” (è così che si esprime il Concilio: Optatam totius, in fine) sia da tutti compreso e tenuto vivo. Esso risponde all’aspetto saliente del nostro tempo, ch’è tutto in rapida ed enorme trasformazione, cioè in via di produrre novità in ogni settore della vita moderna. Sorge infatti spontaneo nella mente il confronto: tutto il mondo si cambia e la religione no? non si produce fra la realtà della vita e il cristianesimo, quello cattolico specialmente, una difformità, un distacco, un’incomprensione reciproca, una mutua ostilità, l’una corre, l’altro sta fermo: come possono andare d’accordo? come può pretendere il cristianesimo d’influire oggi sulla vita? Ed ecco la ragione delle riforme intraprese dalla Chiesa, specialmente dopo il Concilio».

Ecco: il Concilio, il modernismo che lo ha infestato e che vi ha trionfato! Ecco la vera Rivoluzione nella Chiesa – lo disse uno dei suoi più “prestigiosi” protagonisti: il Cardinale belga Suenens – con le sue riforme dalla liturgia alla vita religiosa. A questa fonte, lo si voglia o meno riconoscere, attinge Braz de Aviz, seguendo le vestigia di altri gerarchicamente superiori a lui.