In occasione dell’uscita del suo nuovo saggio (che potete acquistare qui e nelle librerie, fisiche e online), RS ha intervistato Marco Sambruna, una delle penne più felici quando si parla di filosofia, sociologia e psicologia, oltre che fine conoscitore della letteratura statunitense. Il suo best-seller Il declino del sacro, per un tempo limitato, è in offerta sempre sul nostro e-commerce.

RS: Oggi rimaniamo sommersi da una mole di stimoli, suggestioni, notizie, valori (e controvalori), idee politiche e prepolitiche; sembra difficile associare questa sovrabbondanza al “nulla” che il nichilismo evoca. Per Lei invece il nichilismo è un’ottima chiave per decifrare il mondo odierno. Perché?
MS: Il termine “nichilismo” è stato storicamente utilizzato per definire la condizione di chi non crede esista altra realtà oltre a quella sensibile. In sostanza, fino alle soglie della modernità ciò che è tangibile è stato considerato privo di essenza propria in quanto pura apparenza, mentre aveva statuto di essenza solo il modello ideale, come il “mondo delle idee” platonico o la metafisica tipica delle religioni. Tuttavia, dalla modernità in poi, alcuni pensatori hanno stravolto questa configurazione tradizionale definendo nichilista chi conferiva valore di realtà solo al soprasensibile, sottraendolo alle realtà visibili. Il vero nichilista, secondo questi filosofi, era chi credeva, illudendosi, all’esistenza di realtà ultraterrene anziché conferire valore alla sola realtà possibile, ossia quella direttamente percepibile con gli organi di senso. Ne “L’antivangelo” ho voluto restaurare il significato originale di “nichilismo”, perché il suo ripristino rappresenta la chiave interpretativa privilegiata per leggere l’atteggiamento prosaico, secolarista e laicista tipico della attualità. Attualità che, lo ripetiamo, tende a considerare priva d’essere e quindi chimerica la metafisica religiosa, in particolare quella cristiana, mentre assegna valore ontologico, cioè dotato d’essere, alla solo realtà visibile e alle sue dinamiche transitorie.
RS: Ne “L’antivangelo” emerge, in particolare, la condizione di minoranza in cui è gradualmente spinto il vero cristiano, lacerato fra l’irresistibile fedeltà a Cristo e la violenta forza centrifuga del secolo, che pretende in molti casi la sostanziale apostasia. Siamo dunque “perseguitati” anche noi cattolici del Primo Mondo?
MS: “L’antivangelo” descrive appunto il modo in cui la modernità post illuminista ha generato quattro tipi umani inediti, con alcune caratteristiche comuni, che sono diventati maggioranza. La generazione nefasta di questo inquietante “uomo nuovo” nella sua quadruplice forma ha provocato la marginalizzazione dei cristiani e la loro frammentazione in almeno tre posizioni apparentemente simili, ma in realtà profondamente diverse fra loro. Fatto questo, la persecuzione ha potuto agire quasi di soppiatto ricorrendo agli strumenti della derisione, isolazione e medicalizzazione del credente. L’obiettivo finale consiste nel disinnescare la carica eversiva della fede, depotenziarla, renderla innocua e quindi renderla collaterale a un certo tipo di potere.
RS: La chiesa postconciliare non esce molto bene dal quadro che Lei traccia, apparendo – nella migliore delle ipotesi – inetta ad affrontare la dissoluzione.
MS: La chiesa postconciliare è responsabile di un grave fraintendimento: quello di aver trasformato il cristianesimo da religione personale (ma non soggettiva!) a religione collettiva (ma non di massa, o meglio, popolare). Il rapporto uomo – Dio è sempre stato personale, basta leggere i Salmi, il libro della Sapienza o gli stessi Vangeli per rendersene conto: la chiamata di Cristo riguarda sempre singoli soggetti, con modalità diverse, conferendo o valorizzando carismi diversi. Ne “L’antivangelo” è descritta la nascita di una nuova visione del mondo e dell’uomo che secondo me ha influito notevolmente sul Concilio, tanto da farne scaturire una religione a dimensione collettiva in cui è centrale l’idea di “collettivizzare” la salvezza. Questo fraintendimento trae nutrimento dal superficiale ottimismo secondo cui la redenzione personale si può raggiungere solo tramite una certa idea di promozione sociale. Ne è scaturita la catastrofica convinzione che la Verità è tale solo se preserva l’unità del genere umano o meglio che l’unità debba essere conservata a costo di compromettere la Verità. Non più l’unità deve dimorare nella Verità, ma la Verità nell’unità. Da qui all’idea che ci si salva non più praticando personalmente le virtù evangeliche, ma partecipando all’azione collettiva che consiste, ad esempio, nell’eseguire una corretta raccolta differenziata, il passo è breve. Tutto questo in vista del valore supremo costituito dal raggiungimento di una forma di anestesia o di narcosi, tragicamente spacciata per pace. Il sintomo più evidente di questa dinamica oggi è l’oscuramento della trascendenza e dell’escatologia cristiana nelle omelie, cioè i moventi più spiccatamente personali che animano la fede. Aboliti questi aspetti il cristianesimo perde il suo tratto peculiare, la liturgia si trasforma in letargia, il cattolicesimo diventa una religione civile di una noia mortale, priva di capacità attrattiva.
RS: Brutalmente, Lei cosa pensa del pontificato di Francesco? E’ di continuità o di rottura?
MS: Di Bergoglio mi hanno sempre impressionato alcuni atteggiamenti che credo siano sfuggiti ai più, forse perché considerati insignificanti: innanzitutto la sua ostinata renitenza ad autodefinirsi “papa”. A questa prima, forte impressione nel corso del tempo se ne sono aggiunte altre. Ad esempio la sua fredda diffidenza rispetto ai contenuti di alcune apparizioni mariane come quella di Fatima, il cui messaggio è stato ridotto a un agente pacifista, o di Lourdes, recentemente “commissariata” in quanto “aziendalista”. Mi domando allora perché non intervenire con altrettanta determinazione contro l’aziendalismo affaristico di alcune ong, ad esempio. Poi la sua battaglia contro quello che lui definisce “trionfalismo” della chiesa cattolica: ma il catechismo ci insegna che oltre alla chiesa militante qui su questa terra e a quella purgante, esiste la chiesa trionfante dei salvati. Cristo stesso, quando tornerà nella gloria, sancirà definitivamente il suo trionfo peraltro già operativo grazie alla Redenzione. Oltre a tutto questo, naturalmente, considero gli aspetti più eclatanti che tutti conosciamo come l’estremismo ecumenico e una certa idea di dialogo che somiglia terribilmente a una resa incondizionata alla penetrazione secolarista. Temo, in sintesi, che sia agito da impulsi cripto-protestanti e dunque il suo pontificato abbia legami molto deboli col magistero della chiesa.
RS: Di fronte a questa situazione di oggettiva defezione da parte degli uomini di chiesa rispetto al magistero di sempre, quale atteggiamento dovrebbe assumere il credente?
MS: Mi viene in mente una massima di Ernst Junger, che cito a memoria: ”Quando una religione, anziché pregare per i perseguitati prega per i persecutori, significa che è giunta l’ora di assumersi della responsabilità personali”. Ora siamo anche oltre, perché la chiesa in alcuni casi non solo non prega per i perseguitati, ma addirittura li colpevolizza. Il credente deve fare due cose: approntare una “linea di difesa interna” per restare fedele agli insegnamenti tradizionali e organizzare una linea di azione rivolta verso l’esterno, per impedire le derive dottrinarie di una parte della gerarchia. Sinceramente non credo che le “filiali suppliche” e le “devote implorazioni” che alcuni gruppi di fedeli un po’ ingenuamente rivolgono alla gerarchia di tanto in tanto, perché corregga le sue posizioni, possano servire. Occorre una azione più determinata, ricordando che il papa, su questioni che esulano dai dogmi di fede e di morale, si può e si deve confutare e correggere quando occorre.
RS: Ne “L’antivangelo” anche la psicanalisi trova spazio: in chiave molto critica, però, date le aberranti posizioni di Sigmund Freud in merito alla religione cattolica. C’è quindi anche una psicanalisi, non freudiana, compatibile con il Cattolicesimo?
MS: Sì, esiste una psicologia compatibile e si consoliderà sempre più nel momento in cui rinuncerà a quello che è il “vizio di forma” più diffuso in psicologia: mi riferisco al ricorso continuo alla cosiddetta “modalità adattiva”, cioè l’idea che si è tanto più in buona salute psichica quanto più ci si omologa o conforma alla mentalità corrente. Il dissenso in seno ad alcune correnti della psicologia è sempre stato guardato con sospetto, quasi come un sintomo di disadattamento nevrotico. Discorso analogo riguarda la diffidenza con cui talune correnti della psicologia hanno guardato alle convinzioni troppo radicate in qualsiasi ambito, ma soprattutto in quello religioso, spesso etichettate come rigidità mineralizzate, anch’esse indicatrici di una incipiente nevrosi. Se la psicologia aiuta il soggetto a liberarsi dalle sovrastrutture e impalcature di cui è stato rivestito, e quindi a decondizionarsi da certo “rumore sociale”, specie mass-mediatico, può veramente essere utile nella ricerca dell’autenticità. In questo senso sono fiducioso, secondo me l’ortodossia freudiana di ascendenze atee è in declino: basta pensare a tanti psicologi e psicologhe impegnate nel settore pro-life.
Dicasi meglio, protestanti lo eravamo dal concilio, ora si passa al paganesimo panteista.