La notte tra il 18 e il 19 luglio dell’anno 64 un incendio scoppiò nell’Urbe e, partendo dal Circo Massimo, si propagò quasi in tutta la città uccidendo e devastando, Se non ne fu il mandante, certamente Nerone ebbe modo di speculare sulla ricostruzione e, istigato dalla Sinagoga (l’imperatrice Poppea Sabina era una proselite giudea), scatenò la prima persecuzione romana contro i Cristiani nella quale morì san Pietro quella “ingens moltitudo” (Tac., Ann., XV, 44.4.) di cui ci parla Tacito e che è la gran moltitudine dei Protomartiri della Chiesa Romana. San Clemente Romano ci dice che patirono “a causa dell’invidia” (Ep. ad Cor. VI, 1-2): allo stesso modo il Cristo fu crocefisso “per l’invidia” dei Giudei (Matth. XXVIII, 18). Esattamente 1879 anni dopo, il 19 luglio 1943, Roma assisteva ad un altro disastro, che sarebbe meglio definire atto di terrorismo: 4.000 bombe caddero su vari quartieri, provocando 3.000 morti e 11.000 feriti. San Lorenzo fu sventrato, ugualmente la basilica del Martire. Questa volta gli autori del delitto li conosciamo: i liberatori, i democratici anglo-americani. Anche in questa seconda “clades” protagonista è Pietro nella persona del suo successore: Pio XII accorre dai suoi figli e concittadini, mostrando nell’umiltà del Samaritano la sublimità della potestà spirituale e temporale del Romano Pontefice, vero Re di Roma, il Pater patriae. Oggi, nel mondo liberato e in continua liberazione dal giogo di Dio, devastato peggio della basilica del Verano, i Neroni (chierici e laici) non si contano. E anche in questa occasione abbiamo l’esempio da seguire: i Protomartiri Romani che “per la fede vinsero i regni” (Hebr. XI, 33). A noi, cattolici romani conceda il Signore di essere Martiri: “ut de tanti agone certaminis firma virtute solidemur, et pia victoria gaudeamum”. Tra le macerie della desolazione morale o della catastrofe bellica una sola colonna sta in piedi: il Romano Pontificato. Angariato dalla Sinagoga e dai Cesari; attaccato da eretici e potenti d’ogni sorta, colore ed epoca, esso sta ancora lì (nella sublimità o nella bassezza di chi pro tempore ne è investito) a camminare, conculcandoli, sui mostri del mondo perfido. E questo perché “il Papa ha le promesse divine; pur nella sua umana debolezza, è invincibile e incrollabile; annunziatore della verità e della giustizia, principio della unità della Chiesa, la sua voce denunzia gli errori, le idolatrie, le superstizioni, condanna le iniquità, fa amare la carità e le virtù” (Pio XII, 20 febbraio 1949).
da Avvenire del 19 luglio 2018.

Vide i bombardieri arrivare dalle sue finestre in Vaticano. E avvertì immediatamente il pericolo. Per Roma, per la gente di cui era vescovo, per una città che nei primi tre anni di guerra era stata preservata dagli attacchi aerei. La sua decisione fu conseguente. Senza pensare ai rischi che correva, alla sua incolumità, al fatto di essere il Papa. Chiese e ottenne di andare là. E, a differenza di quanto talvolta si racconta, arrivò a San Lorenzo mentre ancora il bombardamento non era concluso. «In quel giorno Pio XII si meritò davvero il titolo di Defensor Civitatis che gli sarebbe stato conferito in seguito». Ad affermarlo è lo storico Giulio Alfano, docente di Istituzioni di filosofia politica alla Pontificia Università Lateranense, che ha ricostruito anche grazie alla testimonianza diretta di due persone presenti, le tragiche ore di quel 19 luglio 1943 (di cui oggi ricorre il 75° anniversario), quando su San Lorenzo e sullo scalo ferroviario del Tiburtino caddero 4.000 bombe (circa 1.060 tonnellate di esplosivo) che provocarono 3.000 morti e 11.000 feriti.

Il primo testimone, racconta Alfano ad Avvenire era l’allora don Fiorenzo Angelini (futuro cardinale), che all’inizio del bombardamento si trovava nella parrocchia della Natività a Via Gallia, dove era viceparroco, e che gli raccontò di essere accorso immediatamente, vedendo il Papa arrivare intorno alle 14, quindi ben prima della fine dell’attacco che durò dalle 11 alle 14.30 con ondate successive. Il secondo è la stessa madre dello storico, la signora Maria Rigi, che quel giorno si trovava al Verano e che fu una delle poche sopravvissute del bombardamento. La scena che si presentò agli occhi della giovane donna è probabilmente la stessa che vide il Papa: «Cadaveri per terra, crateri di bombe, morte sangue e devastazione ovunque. Fuori e dentro il cimitero. Le bombe non risparmiarono neanche la tomba della famiglia Pacelli, che si trova tuttora poco distante dall’ingresso, vicino alla statua del Cristo. Mia madre – racconta lo studioso – era archeologa e si trovava lì in quell’afoso giorno d’estate per prendere alcuni schizzi delle tombe più antiche. Mi raccontò che poco prima dell’incursione aveva indicato a una signora che teneva per mano un bel bambino biondo la tomba del famoso Ettore Petrolini. Lei riuscì, grazie a un custode, a trovare rifugio nella parte sotterranea del Verano. Ma quella signora non fu così fortunata. Mamma la ritrovò per terra, insieme al povero bambino al quale una scheggia aveva mozzato di netto la testa. Poi fuori sul piazzale, vide un tram fermo con i passeggeri seduti al loro posto. Sembravano attenderne la partenza. In realtà erano crivellati di proiettili, perché gli aerei alleati mitragliarono anche, oltre a bombardare».

Orrori di sempre della guerra. Danni collaterali, si direbbe oggi con il brutto linguaggio dei burocrati bellici. La signora Maria, pur sconvolta, riuscì a guadagnare l’uscita dopo le 14.30 e si ritrovò nella folla che nel frattempo si era stretta intorno al Pontefice. «Lo vide a una cinquantina di metri – racconta il figlio – con la sua veste bianca che si sarebbe sporcata di sangue, pregare e benedire i vivi e i morti, accompagnato solo da due persone: il conte Enrico Pietro Galeazzi e l’allora monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI». Con loro due, infatti, Pio XII arrivò direttamente dal Vaticano a bordo di una utilitaria guidata dal conte Galeazzi, che fu uno dei più stretti collaboratori laici del Papa. «Un percorso di 8-9 chilometri non facile – prosegue Alfano – anche perché le ondate dei bombardieri si susseguivano e, come già sottolineato, il bombardamento non era affatto concluso. La piccola auto in cui si spostava il Papa avrebbe dunque potuto essere colpita. Tra l’altro accadde a un altro personaggio famoso, accorso sul luogo dell’incursione in quelle stesse ore. L’auto del comandante dei carabinieri, generale Azolino Hazon, venne centrata da una bomba nella zona dell’attuale viale Regina Elena e l’alto ufficiale morì sul colpo».

«Pio XII sfidò tutto questo, uscendo senza scorta, una cosa impensabile per quei tempi (e anche un po’ per oggi) pur di essere vicino ai romani in quella tragedia – dice lo storico –. E l’immagine pubblicata in copertina dalla rivista francese Semaine Hebdomadaire illustré del 29 luglio 1943, lo documenta ampiamente. Quella foto mostra papa Pacelli attorniato dalla folla mentre sullo sfondo si intuisce la cancellata della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura parzialmente divelta per effetto delle bombe. Il suo fu veramente un atto liturgico, di preghiera, di invocazione della misericordia di Dio, affinché la guerra cessasse al più presto». Purtroppo, come sappiamo, per la fine delle ostilità ci sarebbe voluti ancora quasi due anni. E Pio XII si trovò, a distanza di meno di un mese, a rivivere le stesse tragiche scene durante il bombardamento del 13 agosto, questa volta nella zona di San Giovanni, del Casilino e del Tuscolano. «Quel giorno – ricorda Alfano – il Papa doveva celebrare una Messa in suffragio delle vittime del 19 luglio nella chiesa dei Santi Fabiano e Venanzio a piazza di Villa Fiorelli. Al termine avrebbe dovuto esserci anche una processione fino a San Giovanni. Ecco perché di questa seconda occasione abbiamo anche le immagini cinematografiche. Perché in questo caso la presenza del Papa era prevista e la coincidenza con il bombardamento fu casuale. Non bisogna confondere quelle immagini filmate con le pochissime foto del 19 luglio, che provano invece come nel primo caso l’arrivo del Pontefice fu davvero a sorpresa e a bombardamento ancora non del tutto cessato».

In entrambe le occasioni, e anche nei mesi che seguirono, la presenza paterna di Pio XII fu considerata dai romani un vero e proprio scudo protettivo. «Il Santo Padre – ricorda Alfano – rifiutò di abbandonare Roma anche quando un folle piano ordito dallo stesso Hitler (la cosiddetta “operazione Rabat”) lo espose direttamente al pericolo di essere rapito e portato a Monaco per costringerlo a firmare una enciclica filonazista. Papa Pacelli rifiutò decisamente la via di fuga offertagli da Galeazzi e che prevedeva il trasferimento nottetempo in abiti civili fino a San Felice Circeo dove il conte aveva una villa, per poi imbarcarsi alla volta della Corsica. «Il mio posto è a Roma – rispose sostanzialmente il Pontefice –. Come sempre». Come sotto le bombe. Come in quell’afoso tragico giorno di 75 anni fa.