da si si no no, 15 aprile 1995, Anno XXI – n.7
Al tempo della prima guerra mondiale, molti paesi appartenenti all’Impero austro-ungarico, ma di nazionalità italiana, dovettero affrontare molte difficoltà e recriminazioni di vario genere, com’è intuibile.
Nel paese di Torcegno in Valsugana, ad esempio, gli Austriaci allontanarono all’improvviso il Parroco intimando l’abbandono del paese anche gli abitanti. Essi allora pensarono al bene più prezioso posseduto, ossia il Santissimo Sacramento custodito nel tabernacolo.
Riunitisi in fretta stabilirono come miglior soluzione consumare le Sante Specie nella Comunione. Ma come fare? Con l’allontanamento del Parroco Torcegno era rimasto senza sacerdote. La maestra della scuola elementare allora si risolse ad un suo bravo e buono scolaro di sette anni, istruendolo a un di presso così: “Domani andrai all’altare, aprirai il tabernacolo, distribuirai la Comunione a quelli che si riuniranno in chiesa prima di lasciare il paese. Le tue mani sono innocenti. Il Signore lo permetterà”.
All’alba del giorno seguente la chiesa era piena ed il chierichetto espletò l’augusto servizio. Poche ore dopo dopo, anche lui partiva per l’Italia insieme con la famiglia e la popolazione tutta.
Ma non sapeva dove tenere la mano che aveva toccato il Signore. “Che ne farò di questa mano?” domandò alla Maestra. Ed ella rispose: “Che non faccia mai male a nessuno”.
Quasi corollario di questo fragrante episodio aggiungiamo che il ragazzino, definito Tarcisio delle Alpi da giornali e antologie scolastiche del tempo, si chiamava Almiro Faccenda, nato il 21 ottobre 1908. Consapevole di aver toccato il Signore, desiderò servirLo più da vicino e conosciuti a Trecate (dove si era rifugiata la famiglia) gli Oblati di San Giuseppe fondati dal Beato Giuseppe Marello, chiese di farne parte. Accolto, fu ordinato sacerdote in Asti nel settembre 1932 e da allora poté consacrare pane e vino nel Corpo e Sangue del Redentore e distribuirlo ai fedeli devotamente inginocchiati alle balaustre, simbolo verace della mensa eucaristica.
Notatone il non comune ingegno, i Superiori vollero che don Almiro proseguisse gli studi e si laureasse all’Angelicum di Roma in filosofia e teologia, dove discusse la tesi di laurea dal titolo: “Regalità di Cristo”, ritenuta splendida e data alle stampe.
Dopo aver insegnato per un decennio, don Almiro ottenne un apostolato diretto con la nomina a parroco di Canosa in Puglia (per nove anni), poi alla Madonna dei Poveri in Milano, a Margherita di Savoia in Puglia.
Nel 1959 tornò all’insegnamento di teologia dommatica e pastorale nello studentato giuseppino di Roma e contestualmente nominato parroco della nuova parrocchia di San Giuseppe all’Aurelio (ancora da costruire) fino alla more precoce [il 1° gennaio 1968, ndr].
Una vita donata alla Chiesa e alla Congregazione Giuseppina, quella di don Almiro, anima veramente apostolica ed esemplare, illuminata sempre dall’incantevole episodio accaduto nell’anno 1915.
Quale rimprovero rappresenta per noi, tale episodio! quale vergogna nel constatare il mancato rispetto per il Santissimo Sacramento dell’altare, il culto liturgico languente, la fede affievolita, al diabolica riluttanza a ricordare la reale presenza divina nel Santissimo Sacramento ed il conseguente dovere di adorarlo nelle nostre chiese, sempre più ridotte a sale multiuso, spogliate dei sacri arredi ed inquinate di sciatterie, da protestantesimo, da schiamazzi, da volgarità! Senza contare poi l’abominevole sacrilegi della Santa Comunione presa con le mani.
Voglia la Santissima Trinità, dimenticando i nostri peccati, liberarci dalle conseguenze di questi misfatti ed illuminare le menti di chi ha voluto o permesso che fossero ministri e pastori del popolo riacquistato col Sangue del Divino Redentore.
Testo raccolto da Giuliano Zoroddu