a cura di Giuliano Zoroddu

Sono glorie dei Papi e del loro Principato i barbari respinti od inciviliti; il dispotismo combattuto e frenato; le lettere, le arti, le scienze promosse; le libertà dei Comuni; le imprese contro i Musulmani, quando erano essi i più temuti nemici non solo della religione, ma della civiltà cristiana e della tranquillità dell’Europa“. Con queste parole di Leone XIII introduciamo la narrazione di uno dei più strepitosi tronfi della Chiesa Romana e della Cristianità: la vittoria riportata a Vienna sul Turco il 12 settembre 1683. Vittoria che ha l’autore principale nel beato Innocenzo XI, uomo di santità apostolica, che dall’ascesa al trono di san Pietro il 21 settembre 1676 fino al suo prezioso transito il 12 agosto 1689, null’altro si propose come scopo di vita se non la riforma dei costumi, la libertà della Santa Chiesa e la distruzione dei nemici del nome cristiano. Cose che gli meritarono al beatificazione da parte di Pio XII il 7 ottobre 1956.

Lo  stesso giorno, in cui si effettuava la Lega lungamente desiderata fra l’imperatore e la Polonia, l’esercito turco ai poneva in movimento da Adrianopoli contro Belgrado, alla testa i giannizzeri, quindi il sultano Maometto IV col gran Visir Kara Mustafà, il vero autore della spedizione di conquista. Musica inebriante accompagnava le truppe. La loro strada era indicata  da piccoli monticelli di terra. Ogni sera veniva fatta la preghiera in comune e terminata con un augurio per il bene del sultano e con grida di “Allah!” e di “Hu!”. Al principio di maggio si giunse a Belgrado, ove fu fatta sosta, per attendere i rinforzi  di truppe dall’Asia, dalla Moldavia e dalla Valacchia. Il sultano, che era accompagnato da tutto il suo Harem, rimase a Belgrado, ove consegnò a Kara Mustafà lo stendardo verde del profeta quale simbolo della nomina di lui a generalissimo. Venne quindi fatta un’altra sosta ad Esseg, e si dichiarò all’inviato imperiale, il conte Caprara, che il suo signore aveva violato la pace, erigendo fortezze sul territorio del sultano, del più potente fra i re della terra, la cui sciabola per volontà di Dio gettava la sua ombra sull’universo. Il Caprara venne dapprima condotto a Buda, mentre il residente imperiale Kunitz dovette rimanere in stato di semiprigionia presso l’esercito; egli tuttavia trovò modo di far pervenire agli imperiali notizie preziose. Il Caprara calcolava la forza totale dei Turchi a 160.000 uomini, senza il treno enorme.

Kara Mustafà

L’imperatore Leopoldo aveva da principio da opporre a questa forza imponente solo 30.000 uomini, comandati da suo cognato, il duca Carlo di Lorena. Data la preponderanza turca, si dovette rinunciare all’offensiva disegnata in principio; ma anche la difensiva divenne presto impossibile. L’aperto passaggio al nemico del Thokoly, il cui falso gioco fino all’ultimo momento non venne compreso da parte imperiale, distrusse la speranza di trovare una copertura nelle fortezze ungheresi. Allorché le schiere turche, avanzando oltre Sthulweissenburg, apparvero al principio di luglio innanzi a Kaab, l’esercito tedesco si trovò in pericolo di esser tagliato fuori. Carlo di Lorena, pertanto, deliberò la ritirata: egli inviò la fanteria pesante e l’artiglieria sulla riva sinistra del Danubio, mentre egli colla cavalleria mosse verso Vienna, per coprire la capitala da un colpo di mano. Ma i Turchi, non trattenendosi ad assediare Raab, lo seguirono alle calcagna.  Il 7 luglio la sua retroguardia venne attaccata a Petronell, non lontano dalle rovine dell’antica Carnuntum, dalle schiere di Tatari accompagnanti l’esercito principale. La fama ingrandì la disavventura di questo scontro, cosicché in Vienna, al posto della confidenza precedente, scoppiò un panico spaventoso. Chi poté, fuggi. Anche l’imperatore, che non poteva esporsi al pericolo di esser fatto prigioniero, lasciò, insieme agli inviati e la corte, la capitale.
Kara Mustafà l’8 luglio passò la Raab, espugno Altenburg e Hainburg, ove le guarnigioni furono massacrate e le provviste di grano in gran parte bruciate. Colonne di fumo s’innalzarono in lutto l’orizzonte, incendio, strage e stupro infuriarono per ogni dove. Poiché Kara Mustafà doveva attendere innanzi tutto l’arrivo dei cannoni d’assedio e delle munizioni, ai difensori di Vienna rimasero aurora sei giorni preziosi che vennero utilizzati ottimamente dall’energico ed avveduto comandante supremo conte Ernesto Rudiger von Starhemberg. Solo il 12 luglio comparve l’avanguardia turca, mettendo a fuoco e fiamme i dintorni di Vienna, per il che lo Starhemberg si decise a sacrificare i sobborghi: un mare di fiamme, che mise in pericolo la stessa città propriamente detta, li ridusse in cenere il 13. Il giorno seguente i Turchi completarono il blocco dell’antica città imperiale; la cinta di assedio, cominciando dalla riva del Danubio a St. Marx, si estendeva  per Gumpendorf. Ottakring, Hernals, Wahring, Dobling fino di nuovo al Danubio, a Nussdorf. Una foresta di 25.000 tende indicava il posto dell’accampamento, da cui adesso ogni giorno, al cader del sole, risonò terribile il grido di “Allah” e di “Hu!” dei Musulmani. Dopodiché il 16 luglio la cavalleria imperiale abbandonò la posizione insostenibile nella Leopoldstadt, dette questa alle fiamme e si ritirò sulla sinistra del Danubio, il blocco di Vienna si estese anche da questa parte. Incominciò cosi uno degli assedi più memorabili di tutti i tempi.

Leopoldo I, imperatore dal 1658 al 1705

Fu una gran fortuna, che l’imperatore avesse collocato in Vienna uomini adatti per i propri posti. L’energico Starhemberg era completato ottimamente dal vecchio, ma giovanilmente fresco, conte Gaspare Zdenko von Kaplirs, generale d’artiglieria, esperto di amministrazione, e dall’eccellente borgomastro Giovanni Andrea von Liebenberg. Stava loro a fianco il vescovo di Wiener-Neustadt, conte Leopoldo Kollonitsch, che un tempo aveva combattuto a Candia contro i Turchi, quale Cavaliere ili Malta. Il Kollonitsch si trovò volontariamente a Vienna e si acquisto fama non meno duratura dei già nominati, colla sua attività caritativa per i feriti e gli orfani, che accrebbe anche il coraggio dei difensori.
I diecimila uomini, che il duca di Lorena aveva gettato nella città, erano insufficienti alla difesa; lo Stahremberg chiamò pertanto i cittadini a combattere per la salvezza della vita e della libertà. Borghesi, artigiani, studenti, perfino i domestici di corte, presero parte alla difesa, assumendo il servizio di guardia e i lavori di trincea. Tutti erano animati sa un solo pensiero, quello di tenere ad ogni conto la città fino a che si approssimasse la liberazione.

In guerra l’errore più pernicioso è quello di svalutare l’avversario. In esso cadde Kara Mustafà. Egli pertanto condusse da principio mollemente l’assedio e solo il 20 luglio principiò a collocare mine, operazione in cui i Turchi erano abilissimi. A questo il Gran Visir aggiunse un altro errore non meno fatale: tratto in errore da un ingegnere, ch’egli apprezzava molto, e che nel novembre 1682 aveva fatto per incarico del Thòkoly la pianta delle fortificazioni di Vienna, il cappuccino apostata Ahmed Bey, egli diresse l’attacco principale contro il bastione del Castello e quello del Lowel e il rivellino ch’era nel mezzo, cioè il punto più fortificato. I primi assalti pertanto fallirono completamente. Ciononostante Kara Mustafà si ostinò con accecamento inesplicabile in questo errore strategico. Dopo lotte sanguinose, in cui i Turchi gettarono sugli assediati una pioggia di palle, di proiettili e di frecce avvelenate, riuscì finalmente ad essi il 3 agosto di penetrare innanzi al rivellino del Castello nella controscarpa e di stabilirsi il 12 agosto nel fossato della città innanzi al rivellino. La condizione della guarnigione divenne anche più critica per l’intervento di un altro nemico: a causa del calore estivo scoppiò la dissenteria. Ma lo Starhemberg, ferito già il 15 luglio, non si perdette di coraggio. Per mezzo di uno scaltro uomo di Raiz di nome Koltschitzky, che scivolò travestito attraverso le linee turche, egli fece annunciare al duca di Lorena il 18 agosto: «Fin adesso abbiamo disputato il terreno al nemico palmo a palmo, ed egli non ha guadagnato neppure un pollice di terra, in cui non abbia dovuto lasciar la sua pelle, e quante volte hanno assalito, tante sono stati respinti dai nostri con tali perdite, che noti hanno osato più levar la testa dalle loro tane. I miei non hanno nessuna paura dei Turchi, trenta o quaranta ne attaccano sempre cento». In seguito, tuttavia, la situazione cambiò a danno dei difensori. Il 27 agosto lo Starhemberg dovette annunciare, per mezzo di un altro ardito messaggero, al duca di Lorena: «È tempo di venirci in aiuto, perdiamo assai uomini ed ufficiali, più ancora per la dissenteria che per il fuoco del nemico: muoiono sessanta persone al giorno. Non abbiamo più granate, che erano il nostro mezzo di difesa migliore; i nostri cannoni in parte sono stati resi inservibili dal nemico, in parte hanno l’anima logora». In un poscritto lo Starhemberg aggiunge ancora: «In questo momento i miei minatori annunciano di sentire il nemico lavorare sotto di sé, vale a dire sotto il bastione del Castello. Perciò, vostra Signoria vede che non vi è più tempo da perdere». Lo stesso annunciava contemporaneamente il Kaplirs colla sua conclusione: «Il pericolo è più grande di quel che possa esser confidato allo scritto». Ora venivano lanciati ogni notte dal campanile di S. Stefano razzi in segno ili pericolo estremo. Nella notte dal 2 al 3 settembre si dovette alfine abbandonare il rivellino del Castello inzuppato di sangue, «la rupe munita di tutte le arti magiche dei Cristiani», come lo chiamava Kara Mustafà; il 4 settembre una mina enorme sul fianco del bastione del Castello fece una breccia larga dieci metri. Si riuscì ancora, qui e al bastione del Lowel, a respingere gli assalti furiosi dei Turchi. Ma alla lunga era impossibile tenere ancora la città. La metà della guarnigione ed un terzo dei cittadini armati erano caduti nella lotta accanita o avevano soggiaciuto alla dissenteria; munizioni e viveri si approssimavano all’esaurimento. Fu, finalmente, nella notte dal 10 all’11 settembre che cinque razzi si elevarono dalla cima del Kahlenberg ad annunciare, che l’esercito di soccorso era vicinissimo.

Carlo V, Duca di Lorena

Il duca Carlo di Lorena, battute il 29 luglio ed il 7 agosto le truppe del Thokoly, aveva risalito il Danubio per congiungersi alle truppe di soccorso attese dall’impero e dalla Polonia. Queste però, non procedevano che lentamente. Giunsero da principio a metà agosto, a Krems, 11.000 Bavaresi sotto il comando supremo del barone von Degenfeld, mentre le truppe del gruppo francone e renano-superiore condotte dal principe di Waldeck, i Sassoni sotto Giovanni Giorgio III e anche i Polacchi si facevano ancora attendere. Il duca era deciso, anche se questo aiuto non dovesse arrivare, a far da solo un tentativo per la liberazione di Vienna, «o perire». Tanto egli che l’imperatore cercarono con ogni mezzo di affrettare l’avanzata dei Polacchi. Questi, in forza non di 40.000 uomini, come era l’impegno del trattato, ma di soli 28.000, avevano passato solo il 22 agosto il confine della Slesia.
Il Sobieski precorse le sue truppe e si incontrò il 31 agosto ad Oberhollabrunn con Carlo di Lorena. L’ incontro dei due, che si erano già disputata la corona di Polonia, fu penoso; ma riuscì al duca d’imporre al suo rivale di un tempo rispetto, anzi simpatia e d’indurlo ad approvare il suo piano di attacco dei Turchi al disopra del Wiener Wald. Più difficile fu regolare un’altra questione: l’ambizioso Sobieski, cioè, reclamò il comando supremo di tutto l’esercito cristiano. Di ciò si poteva parlare, solo se l’imperatore non compariva all’esercito. Originariamente Leopoldo I aveva intenzione di assistere alla battaglia decisiva; ma abbandonò quest’idea, in parte sotto l’influenza del cappuccino Marco d’Aviano, inviatogli da Innocenzo X I . La difficoltà ulteriore di subordinare tutte le truppe ausiliarie tedesche al re polacco, secondoché era desiderato, particolarmente, dalla vanità della consorte di Sobieski, Maria Casimira, fu risolta dall’accortezza di Carlo di Lorena, dividendo tutto l’esercito in una serie di comandi indipendenti l’uno dall’altro.
Cosi l’esercito di soccorso, forte di 70.000 uomini, poté il 9 settembre cominciare l’avanzata su Vienna sotto il supremo comando nominale del Sobieski. Essa incontrò qualche ostacolo nelle difficoltà del terreno e nel cattivo tempo. Soltanto la sera dell’11 settembre furono occupate dall’esercito cristiano le alture del Kahlemberg, che l’accecato e male informato Kara Mustafà non aveva messo al sicuro. Colpi di cannone annunciarono alla città imperiale cosi gravemente oppressa la liberazione che si avvicinava. Dal monte in cospetto di Vienna, Marco d’Aviano scrisse per consolazione a Leopoldo I, che tutti i generali e i principi erano in un ottimo accordo, che verosimilmente sarebbe stato turbato dall’arrivo dell’imperatore senza aver regolato in precedenza il cerimoniale. «Il duca di Lorena non mangia, non dorme, ispeziona personalmente i Posti di guardia e compie ottimamente le parti di un buon generale. L ’esercito è eccellente. Domani, come Dio vuole, si attaccherà».

Marco d’Aviano celebra la messa servita da Giovanni Sobieski

Il 12 settembre, domenica, Marco d’Aviano disse prima del sorger del sole, nel chiostro camaldolese sullo Iosephsberg, una messa, che fu servita da Sobieski. Quindi il famoso predicatore sì reco in un punto visibile fin da lungi a implorare, nel cospetto di tutti, con il Crocifisso in mano, la vittoria sulla Mezzaluna.
Nei giorni precedenti il tempo m stato piovoso; oro spuntò un assolato, limpido giorno d’autunno, che favori l’attacco dell’esercito cristiano.
Un vantaggio ancor più grande fu dato dal fatto che Kara Mustafà lasciò innanzi a Vienna la maggior parte delle sue truppe scelte, i Giannizzeri. Il comando supremo, però, fu preso da lui personalmente. La sua ala destra fu collocata sul Nussberg, la sinistra spinta avanti tino a Dornbach. Gl’imperiali sotto il duca di Lorena e i Sassoni, che formavano l’ala sinistra dell’esercito di soccorso, furono i primi a incontrarsi col nemico, il quale oppose resistenza ostinata, cosicché il Nusberg poté essere espugnato solo verso mezzogiorno. Circa questo tempo il centro dell’esercito di soccorso, composto delle truppe dell’impero e dei Bavaresi, era pure proceduto vittoriosamente.
Ma poiché l’ala destra, formata dai Polacchi, che doveva percorrere la via maggiore e più difficile, non era ancora giunta, la battaglia sostò. Circa le due, i Polacchi attaccarono a Dornbach; ma non poterono rompere le masse compatte dei Turchi e dovettero esser sostenuti dalle truppe tedesche. La decisione fu provocata da Carlo di Lorena, rigettando l’ala destra dei Turchi sul centro. Dopoché un grande attacco di cavalleria di Kara Mustafà a Breitensee e Hernals ebbe fatto fallimento contro la resistenza valorosa dei Polacchi, il nemico circa le quattro inizio la ritirata, che presto degenerò in una generale fuga sfrenata verso il confine ungherese. Anche Kara Mustafà e i Giannizzeri delle trincee si unirono ai fuggenti. Diecimila Turchi caddero sul campo di battaglia, le perdite dell’esercito cristiano ammontarono a circa 2.000 uomini.
Il bottino dei vincitori, che i Polacchi in gran parte si appropriarono, fu enorme: 117 cannoni, 15.000 tende, fra cui quella splendida del Gran Visir, 10.000 buoi, bufali e cammelli, altrettante pecore, 600 tacchetti pieni di piastre, numerosi stendardi e un materiale da guerra straordinariamente ricco. «Io non ho visto ancora tutto il bottino, scrisse Sobieski alla moglie, ma non v’è paragone con quello che vedemmo a Chocim. È impossibile descrivere il lusso che regnava nelle tende del Gran Visir: bagni, giardini, fontane, conigliera e perfino un pappagallo. I pezzi migliori del mio bottino sono una cintura di diamanti, due orologi tempestati di diamanti, cinque faretre con zaffiri, rubini e perle, tappeti e i più splendidi zibellini del mondo». Il più bel bottino furono 500 bambini di cristiani rimasti nel campo turco (i prigionieri atti alle armi erano stati fatti trucidare da Kara Mustafà prima della battaglia), e a cui provvide il vescovo Kollonitsch meritandosi il nome di onore di «grande tutore degli orfani». Il vescovo si occupò anche dei vecchi e delle donne abbandonate. La liberazione, del resto, era giunta all’ultim’ora. «La città, scrisse Sobieski, non avrebbe potuto resistere ancora cinque giorni; il castello imperiale è perforato dalle palle; i bastioni, scavati sotto e rovinati, hanno un aspetto spaventoso, non sono più che grandi ammassi di pietre. Tutte le truppe hanno fatto con zelo il loro dovere. Tutti ascrivono la vittoria a Dio ed a me».
Sobieski ardeva infatti del desiderio di cogliere lui tutti gli allori della vittoria, e per questo era entrato solennemente in Vienna già il 13 settembre, prima ancoro dell’imperatore. Il nobile Leopoldo I aveva sopportato con silenzio. Ma per quanto alto si possano valutare i meriti di Sobieski. non fu lui solo a salvare dalla barbarie orientale Vienna, il baluardo e il pilastro angolare d’Oriente della cultura cristiana d’Europa. La gloria della splendida vittoria sulla Mezzaluna non spetta solo ai Polacchi, ma anche agli Austriaci, Sassoni, Bavaresi e Svevi e ai loro capi. E quest’avvenimento d’importanza storica mondiale fu reso possibile solo dall’appoggio magnanimo del pontefice.

Beato Innocenzo XI, papa dal 1676 al 1689.

Innocenzo XI , mentre faceva tutto quello ch’era possibile all’uomo, non manco di raccomandare il grande negozio al Reggitore di tutti i destini. Come egli stesso, preoccupatissimo, implorava Dio giorno e notte, cosi ordinò anche preghiere pubbliche e fece pregare in tutti i conventi. Dal luglio dominò in Roma la più grande eccitazione, accresciuta ancora dal fatto, che le notizie sui progressi turchi erano contraddittorie. «Vienna, scrisse la regina Cristina, non può esser salvala più che da un miracolo simile a quello del Mar Rosso. Una volta perduta essa, chi potrà resistere al vincitore?». L’11 agosto 1683 il papa fece indire un giubileo generale perché Dio benedicesse le armi congiunte dell’imperatore e del re di Polonia e degli altri principi cristiani ed i suoi sforzi propri, e concedesse ai valorosi difensori di Vienna coraggio e forza, ai sovrani cristiani unione. In un concistoro del 16 agosto venne annunciata l’alleanza tra Leopoldo I e Sobieski e giurata dal cardinale Pio in nome dell’imperatore, dal cardinale Barberini in nome del re di Polonia. Con forte concorso di cardinali e di romani ebbe luogo il 18 agosto una grande processione giubilare dalla Minerva alla chiesa nazionale tedesca dell’Anima, ove il cardinale Ludovisi, in vece del papa malato di podagra, compì le solite funzioni ecclesiastiche di simili occasioni, coll’esposizione del Sacramento. Allorché le nuove dell’assedio di Vienna divennero sempre più minacciose, il papa ordinò il 3 settembre, che in S. Pietro, in S. Maria Maggiore, in Laterano, all’Anima e nella chiesa del Collegio Germanico venisse esposto per tre giorni il Santissimo affinché i fedeli implorassero la liberazione della città imperiale. Queste supplici devozioni furono assai frequentate. Il cardinale Pio scriveva in data 11 settembre all’imperatore Leopoldo, che non v’era a Roma nulla di nuovo da annunciare perché tutta l’attenzione vi si concentrava sull’assedio di Vienna. In questo tempo di tensione ansiosissima il pontefice affermò, indicando con salda fiducia la Croce: «Questo Signore ci proteggerà». L’11 settembre egli scriveva al Sobieski come pregasse giorno e notte per la vittoria delle anni cristiane. Una notizia prematura della interazione di Vienna giunse, proveniente da Ragusa, già il 17 settembre da Venezia e suscitò un vero tumulto di gioia. Piena certezza, però, si ebbe solo dopo una settimana la sera del 22, allorché giunsero un corriere del nunzio di Vienna e un altro del cardinal legato di Ferrara, che annunciarono ambedue concordemente la liberazione di Vienna e la fuga dell’esercito turco assediante. Notizie ulteriori portarono il 23 la conferma, e allora il giubilo non conobbe più limiti: a ricordo d’uomo non si erano viste mai tali esplosioni di gioia.Il papa era stato talmente in pena, che le ultime notti quasi non aveva dormito. Arrivato il corriere, si gettò in ginocchio a ringraziar Dio, ed eccito coloro che gli erano intorno a fare altrettanto. Il 24 settembre un editto del Vicario generale prescrisse per le due sere seguenti dopo l’Ave Maria, che le campane sonassero a festa per un’ora e venissero celebrate in tutte le chiese della città funzioni di ringraziamento a Dio. Al cominciar della notte tutta Roma fu illuminata; il popolo gridava entusiasticamente: Viva il papa, l’imperatore ed il re ili Polonia!, e si divertiva con pupazzi vestiti da Gran Visir. Il papa fece illuminare la facciata e la cupola di S. Pietro e sparare salve di gioia da Castel S. Angelo. Il 25 egli cantò in S. Maria Maggiore, con l’intervento di tutto il sacro Collegio, un Te Deum solenne, il 26 fece dir messe di requiem per i caduti in tutte le chiese di Roma, il 27 parlò dell’avvenimento storico mondiale in un concistoro secreto, in cui ascrisse il merito al Signor Iddio soltanto e annunciò una decima per sei anni sul clero italiano. Il 29 Innocenzo XI ricevette alla messa in Quirinale, in presenza di tutti gli inviati, dalle mani del rappresentante di Sobieski, il sacerdote Donhoff, giunto il 25, la grande bandiera turca, che poi fu portata a S. Pietro e appesa in segno di trionfo sopra la porta principale.

Distribuzione di ricche elemosine ai poveri ed amnistia pei minori reati civili, nuovo scampanio a festa e sparo di cannoni, finalmente ancora funzioni religiose speciali il 1° ottobre al Quirinale, il 10 all’Anima, il 17 a S. Stanislao dei Polacchi chiusero i festeggiamenti per la vittoria, che si rifletterono nella maggior parte delle città d’Italia. Il riconoscimento generale della parte grande, decisiva, avuta da Innocenzo XI alla interazione di Vienna, riusciva penosa alla profonda umiltà di lui. Quando si parlava dei suoi meriti, egli portava il discorso su quelli di altri ed ascriveva al Signore Iddio ogni onore. «I.a tua destra, o Signore, ha colpito il nemico», dice l’iscrizione delle medaglie commemorative, ch’egli allora fece coniare a perpetuo ricordo.

E in ringraziamento per l’aiuto della Madre di Dio nella liberazione di Vienna egli prescrisse più tardi la festa del Nome di Maria alla domenica dopo la sua Natività per tutta la Chiesa. Come Pio V, egli considerò la potente Avvocata della cristianità come l’autrice della grande vittoria.


(Ludwig von Pastor, Storia dei Papi, Vol. XIV, parte II, Roma, 1932, 123-135)