Ripercorriamo a tappe la storia del glorioso martirio dei cittadini di Otranto sui quali nel 1480 si abbatté la furia maomettana fra l’11 e il 14 agosto 1480.

Pochi conquistatori contrassegnarono la loro vita con una serie di tanti trionfi, quanti ne riportò Maometto II. Avute in mano le redini del governo dopo la morte del padre Amurat II nel 1451, regnava appena da tre anni, quando alla testa di trecentomila soldati di ogni nazione mosse il campo contro Costantinopoli, ed in capo di 55 giorni la prese d’assalto. Quindi vennero sotto il suo dominio l’una dopo l’altra Sparta, Atene, Corinto, Trebisonda, Lesbo, i Principati di Bosnia e di Caramania, Negroponte, l’Anatolia; tolse ai Genovesi Caffa; rendé tributaria la Crimea, la Georgia e la Cireassia; occupò l’Albania, le isole dell’Adriatico, il Friuli, e la Dalmazia. Solo contro il famoso Scanderberg ebbe mi nor ventura all’assedio di Belgrado, perché fu costretto a levarsene dopo di aver sofferte considerevoli perdite.
Ben il Sommo Pontefice Sisto IV, appena eletto Papa il 23 di agosto 1471, animato dello stesso spirito dei suoi predecessori, che furono sempre e sovente essi soli il più valido propugnacolo contro i Turchi, si adoperò di formare una lega di principi cristiani contro un sì potente nemico; né perché questi non risposero al suo magnanimo appello, egli si ristette. Imperocché riunite alla sua le due flotte veneta e napoletana, le sole che potette avere, sotto il comando del Cardinale Oliviero Caraffa, incusse tanto timore alla flotta dei Turchi, che questa non uscì del Bosforo, per non essere costretta ad un combattimento. E quell’armata fece più: soggiogò Atlalia nella Panfilia, invano difesa valorosamente dai Turchi e s’impadronì eziandio di Smirne, dopo avere sconfitto l’esercito mandato in suo aiuto.
Ma ciò a che valse? Tornata a svernare in Italia, Maometto non sentì gran danno di queste rotte, né fu da esse impedito di allargar sempre più il suo Impero. Che non si doveva temer da quest’uomo? Egli aveva fatto l’empio voto di distruggere tutti i Cristiani, né eravi luogo a sperare che alcun dolce sentimento temperasse la sua ambizione freddamente atroce. Chi non sapeva che egli aveva strangolato il proprio primogenito Mustafà per gelosia del suo ingegno e delle sue gesta militari? Ed allora la sua indole era più inasprita, perché avendo tentato la presa di Rodi con una flotta che portava centomila uomini da sbarco, era stato valorosamente respinto dai Cavalieri di S. Giovanni o di Malta, a cui non recò poco aiuto un forte drappello di valorosi loro spedito dal Re Ferdinando di Napoli.
Or correva l’anno 1480. L’Italia scompigliata dai partiti e dalle gare municipali, e molto più dalle ambizioni dei suoi Principi, scontava ancora col proprio sangue i dolori che aveva imposti per sì lungo tempo a tanti po poli, quando venia salutata regina delle nazioni, con la sua Roma capitale del mondo. Le milizie del Re di Napoli Ferdinando I. d’Aragona, capitanate dal duca Alfonso suo figlio, guerreggiavano in Toscana. Di che nell’animo di Maometto, nacque il disegno di aggiungere alle sue conquiste quella eziandio del Regno di Napoli, se non della intiera Italia; e ciò anche per far le sue vendette contro quel Re, chiaritosi due volte suo peculiar nemico.

[…]

Il certo è che il Sul tano fatto appello ai suoi corsari ed ai Berlabei e Spai di fornire i cavalli e i fanti che reputò necessarii, ebbe pronta sul principio dell’estate di quest’anno l’armata per il suo divisamento. Essa si riunì nel porto di Valona o Aulena nel Pascialico di Romelia sull’Adriatico, e si componeva, secondo gli storici di quel tempo, di 18mila uomini tra fanti e cavalli, scelti fra i più reputati guerrieri dei suoi dominii, imbarcati su novanta galere, quaranta fra galeotte ed altri legni da corsa, e quindici maone, corredati di una formidabile provvisione di artiglierie e di macchine belliche. Fra i comandanti si distinguevano l’Agà dei Giannizzeri, il Baglivo di Negroponte, il Berlabei di Tracia, e l’ammiraglio Ahmed Pascià, soprannominato Gedich, che vuol dire sdentato, perché appunto aveva un dente rotto, uomo di grande animo guerriero e confidente del Gran Signore.

[…]

Cotesti apparecchi non potevano non destare Re Ferdinando, tolto fuori d’ogni dubbio determinatamente di mira. Ma qual resistenza poteva mai opporgli privo, com’era, del nerbo del suo esercito? Fortificò, come seppe meglio, le città marittime da quel lato, ma soprattutto quella di Otranto, la più vicina all’opposto lido, donde l’armata ottomana avrebbe salpato; nella quale collocò mille soldati presidiarii e quattrocento lance sotto la condotta di due capitani, Francesco Zurlo napoletano e Marco Antonio delli Falconi fiorentino, a cui vennero da poi aggiunti altri cento fanti provinciali.
Era cominciato il mese di luglio, quando sciolse di Valona la flotta, e dalla prima mossa si comprese che intendeva imboccare il porto di Brindisi. Non sarebbe stato malagevole prender quella città che allora i tremuoti e le i pestilenze avevano resa poco meno che deserta, e con quel porto così capace e sicuro, e da tal punto quale impresa non si poteva tentare? Ma Iddio non lo permise. Un vento fresco di tramontana la sospinse verso la città di Otranto, a cui con tanto maggior animo si diressero, perché dal capitano di un legno che da Otranto faceva vela per Durazzo, avevano saputo che tutta la forza della città non era più che di cinquanta lance e alcuni po chi fanti. L’ammiraglio mise a terra una parte dei cavalli e fanti presso un castello marittimo, chiamato Rocca, nelle vicinanze di Otranto, i quali tosto si dettero a correre la campagna, facendo alcune prede di uomini e di bestiame. Ciò non restò celato ai cittadini; e quei capitani messisi sulla loro pesta, li assalirono animosamente, e ritolto loro il bottino, li volsero in fuga, Rimontarono dunque a bordo, ma il dì 28 luglio, giorno di venerdì, sul primo uscir del sole l’armata apparve innanzi ad Otranto, e dato fondo nel porto e nella rada, perché la città non aveva artiglierie da impedirlo, discesero a terra e si attendarono presso le mura. Di tutto questo fu subitamente data per un mese saggio notizia a Ferdinando.

[…]

Ahmed pertanto non mise tempo in mezzo, e spedì incontamente un turcimanno alla città, il quale senza gergo intimò ai cittadini di aprir le porte all’ammiraglio che veniva a prender possesso di Otranto a nome del suo Signore. Essi sarebbero liberi di andarne dove avessero talento con le mogli ed i figli, ma se preferissero di rimanere, sarebbero tenuti in luogo di amici, e la loro sorte ragguagliata a quella degli altri felicissimi sudditi dell’ottomana Porta, quale resistenza avrebbero potuto opporre? Accettassero le sue graziose offerte, e non si esponessero vanamente alla certa rovina di loro stessi e della patria. Alla insolente tracotanza di siffatta proposta ben fu magnanima e forte la risposta dei cittadini. Essi non volevano altro re, che quello dato loro da Dio: per la cristiana fede e per lui stesso erano pronti piuttosto a morire, che vivere con la macchia di tanta viltà: deponesse Ahmed dunque il pensiero di aver da loro nelle mani la città di Otranto. Ahmed, come poteva prevedersi, ebbe ad onta queste giuste e generose parole, e giurò che saprebbe da sé allontanare cotanta ingiuria, secondo lo stile dei prepotenti di ogni tempo.

[…]

Nondimeno il Pascià indi a poco spedì di nuovo il suo araldo alla città, sperando che avessero fatto miglior senno. Ma l’araldo questa volta più non ritornò da lui, perché a colpi di frecce dalle mura fu ucciso dagli Idruntini. Dopo questo fatto Ahmed si affrettò di mandare ad effetto la sua minaccia, perché si diè subito a piantar batterie contro le mura da più parti […] Qual animo potevano fare a queste terribili intimazioni i mercenarii del presidio? Aspettarono la notte, e col favore delle tenebre tutti mille si calarono celatamente giù con le funi dalle mura per darsela a gambe. Tuttavia quando il mattino seguente cotesta sì turpe codardia fu nota, anziché mettere sgomento, come altri potrebbe sospettare, nei cittadini e nei due capitani delle quattrocento lance, non servì che a destar in essi maggior coraggio, siccome al crescer del pericolo avviene nei prodi; e fu bella gara tra i cittadini e quei duci di animarsi a vicenda a correre sino alla morte tutti i casi di una suprema difesa, quantunque nessuno si dissimulasse che sarebbe inutile. Si giunse a tal punto, che ciascuna parte volendo rassicurare l’altra della fermezza di quella risoluzione presa irrevocabilmente, venne proposto di gittare in mare da un’alta torre le chiavi delle porte della città, e così di comune accordo fu fatto. Cotesti esempii comandano bene l’ammirazione e rendono per sempre immortale un popolo!

Sembrava a quei forti di non fare più che il dovere, perché resistere a tali nemici colla certezza di soccombere valeva altrettanto che combattere per la Cristiana Religione. E questa gloria è ben singolare di Otranto, se si ha riguardo all’unanime consenso di tutti, da quel punto votati per sì nobile causa alla morte. Essi rappresentavano veramente con nuovo spettacolo una straordinaria moltitudine di candidati al martirio. A me non sovviene che di un solo esempio somigliante nei tempi di persecuzione del Cristianesimo, presso Eusebio, ma su di una scala molto più piccola; di un paesetto della Frigia, che d’ordine del Preside della provincia, occupato dai soldati, venne messo in fiamme con tutti gli abitanti, uomini, donne e fanciulli, perché tutti aveano confessato di esser Cristiani. Metteva certamente lo sgomento il mirar sorgere quelle batterie senza potersi in modo veruno opporre ai Musulmani. Ma il pericolo fu ben altro, quando tante bocche da fuoco cominciarono a vomitar la morte sulla malcolta città[…] Le percosse di tanti proiettili, lo sfasciarsi delle case, le grida e i gemiti dei morenti, il polverio che da quelle rovine s’innalzava a soffocare chi accorresse all’aiuto dei sepolti, i pianti delle donne e dei fanciulli, la voce tonante degli instancabili comandanti che imponevano le diverse fazioni, tutte queste cose insieme ne facevano l’immagine di una nave sbattuta in mezzo al mare dalla più furiosa procella, avendo miseramente a fronte un inevitabile naufragio. Non meno di quindici dì, senza posa né di giorno, né di notte, durò questa tremenda agitazione.

[…]

Dopo quindici giorni di tale assedio, spuntò il sole che doveva esser testimone delle ultime prove dell’in credibile ma inutile coraggio di quegli uomini di ferro e rischiarare l’eccidio della infelice città. Questo fu l’11 del mese di agosto di quell’anno 1480, che cadde in venerdì. Le mura dappertutto crivellate e scosse, battute più furiosamente dalle artiglierie rovinarono da austro presso una piccola porta della città, e come se fosse caduta la diga di un fiume, i nemici a guisa di un impetuoso torrente, avendo reso il fosso, si precipitarono per quella breccia. Fece loro testa il capitano Francesco Zurlo con la sua compagnia di uomini d’armi e un numero maggiore di cittadini. Quel prode aveva mantenuto sino all’ultimo la parola data, e in quella mattina doveva suggellarla col sangue. Aveva al fianco il proprio figlio, giovine di alti spiriti e che formava il suo orgoglio, a cui non aveva potuto impedire che lo seguisse in quell’estremo cimento. Se non altro, la reciproca difesa avrebbe loro raddoppiate le forze, e dovendo morire, avrebbero corsa insieme quella sorte per la più nobile delle cause, raccomandando il loro nome alla immortalità. Egli dunque e quanti lo seguivano, non sembravano uomini, ma più veramente leoni. Nessun fendente delle loro spade cadeva invano, nessun colpo senza stendere al suolo un nemico. Ma la calca si addensava, e per un nemico che cadesse, ne sopraggiungevano dieci. Guazzavano in una gora di sangue, essi stessi coperti di ferite in tutto il corpo. Il numero sempre crescente li respingeva; ma non ce devano che a palmo a palmo il terreno. Alla fine, stremi di forze, l’ onda dei nemici li soverchiò, e passando su i loro cadaveri si effuse nel cuore della città. Ma qui neppure l’ebbero vinta, chè l’altro capitano Marcantonio delli Falconi, che era sulla piccola piazza della città con un maggior numero di armati e di cittadini, per accorrere dove maggiore fosse il bisogno, andò loro incontro e li urtò così fieramente, che per un momento ne arrestò l’impeto. Senonché i Turchi, oltre della loro rabbia naturale, erano spinti di dietro a colpi di ba stoni e di scimitarre non meno dai capitani che dallo stesso Ahmed; sicché rovesciandosi addosso a quei valorosi, sebbene con molta loro perdita, li ebbero sopraffatti, o volti in fuga. Allora in ogni strada fu un parziale combattimento, ogni abitazione divenne un baluardo gagliardamente difeso, finché i nemici si trovarono al fine padroni senza contrasto del campo. Ma da questo punto cominciò un nuovo e più vasto macello. Aizzati dalla resistenza ed ebbri di sangue, si dettero a riandare per tutti i versi la città, uccidendo senza distinzione né di età né di sesso quanti avessero incontro; così per il timore medesimo molti correvano all’impazzata per le strade. Ogni porta fu infranta, ogni casa messa a sacco e a ruba, in ogni luogo lasciate sanguinose orme del loro passaggio, sia che gli abitanti colle lacrime implorassero mercé, sia che a mano armata facessero un’ultima disperata prova di respingerli.

Ma il numero maggiore dei Sacerdoti secolari e dei religiosi, delle donne, dei fanciulli e dei vecchi erasi rifugiato nelle chiese, e più di tutto nella Cattedrale, e quivi dovevano cumularsi tutti gli orrori di quella giornata. […] Nel Duomo dunque, cioè tanto nella chiesa maggiore di sopra, che nella inferiore, la più parte di quelle deboli creature raccolte a piè degli altari, imploravano da Dio più col pianto e i gemiti che con le parole il suo aiuto, qualunque dovesse tra poco essere la loro sorte. Né mancò al popolo in tanto uopo il ministero dei Sacerdoti, a cui volle il cielo affidata la nobile missione di confortare in suo nome gli afflitti. Quando l’uomo si avvede che l’altro uomo ha sete del suo sangue; quando ha ragione di temerlo più del le fiere del bosco; quando sente che la terra medesima gli manca sotto i piedi, qual altro scampo gli rimane che la Religione? E il Sacerdote appunto è quegli che allora lo guida nelle sue braccia, gli amministra i suoi aiuti, e quando il desolato sia costretto a soccombere alla forza, gli addita il cielo, a lui ne schiude le porte e, lo invita a tramutarsi da questa valle di dolore in quel beato soggiorno, donde è sbandita per sempre ogni affannosa cura, e la felicità medesima di Dio forma la felicità degli eletti. In quei quindici di di assedio, di cui non era dubbio per nessun modo il fine , non ebbero posa i sacri Ministri. Imperocché gli uomini alternativamente, come potevano avere scampo dalla difesa della città, e più agevolmente le donne, non mancarono di partecipare ai divini Misteri. Ma quella mattina che la città fu presa, per la certezza del prossimo pericolo oltre quasi tutto il Clero secolare e i Religiosi Basiliani, Francescani e Domenicani della città che pareva si avessero dato quivi il convegno, lo stesso Arcivescovo, Stefano Pandinelli, vecchio venerabile non meno per la sua età di ottanta anni, che per le sue virtù, aveva voluto trovarsi in mezzo al suo gregge. Quell’ottimo padre, che sul principio avrebbe potuto salvarsi altrove, ma fedele al suo dovere non aveva avuto cuore di abbandonare i suoi figli, quella mattina gli aveva esortati dall’altare a tenersi saldi nella fede. Non è a dire la commozione eccitata dalle sue calde parole, perché il pericolo contro cui li armava, era il suo medesimo come di tutti. Né di ciò si era tenuto contento; ma sapendo che la divina Eucaristia è il pane dei forti, e che non altrimenti i primitivi fedeli vinsero la sanguinosa guerra di tre se coli, loro intentata da tutto il mondo pagano, aveva celebrato, assistito dai suoi Canonici, il santo sacrificio, e distribuita di sua mano la sacra Ostia al popolo. Intanto era giunta fin lassù la novella che i Turchi ormai erano padroni di Otranto, e senza ciò i clamori dei soldati, lo squillo delle trombe nemiche, il battere continuo dei timballi, i colpi delle arme da fuoco ab bastanza lo annunziavano. Che rimaneva a quei miseri? Come stormo di colombe, minacciate dal nibbio, si serrano istintivamente insieme, avresti vedute le madri stringersi disperatamente al seno le figlie, i teneri figli aggrupparsi intorno ai vecchi genitori, gli amici agli ami ci, e raddoppiare i pianti, e dall’intimo del cuore pro rompere in preghiere a Dio con quel fervore che sa de stare solo l’ ora suprema. In questo un zelante sacerdote dell’Ordine di s. Domenico, di nome Fruttuoso, per impedire che quegli istanti, i quali potevano essere gli ultimi, fossero spesi altrimenti che a Confessori della Fede si addicesse, monta sul sacro pergamo, e dominando colla chiara e tonante voce il sottoposto tumulto, li esorta a non lasciarsi indebolire dai teneri affetti di parentela, onde la natura congiunse insieme le famiglie. Essere uopo guardar la morte da valorosi soldati di Gesù Cristo, a cui si domandi questa testimonianza della loro fedeltà: al di là di essa si sarebbero novellamente trovati insieme riuniti; ma nella patria celeste, agitando le palme della riportata vittoria. – Non s’ingannavano ! Un’orda di Musulmani scorrazzando giunse al Duomo. Ne vede chiusa la porta, e col locato innanzi ad essa un drappello di cittadini con le armi in pugno per difenderla. Ciò infiamma la loro avidità di bottino e ne accresce il furore. I Cristiani resistono, ma sono oppressi dal numero. Cade a colpi di scuri la porta, si rovesciano nel sacro tempio, e il primo in cui si abbattano, è l’Arcivescovo medesimo, che compiuto il sacrificio, si ritraeva, vestito degli abiti pontificali, in sagrestia. In men che si dica, gli son sopra, e un moro a nome Malel con un colpo di scimitarra se lo stende morto ai piedi: gli altri si avventano ai Canonici che l’accompagnano e a tutti i Sacerdoti sparsi pel sacro tempio. Chi dirà a metà gli eccessi inauditi che vi compirono? Quel sacro oratore domenicano cadde sotto i loro fendenti, versando col sangue le ultime parole che attestavano l’ardente sua carità: “Santa Fede, santa Fede, santa Fede“. Abbattono e spogliano gli altari; sono uccisi presso a cento Sacerdoti, di cui alcuni che erano tuttavia agli altari celebrando i sacri misteri: felici, che potettero mescolare il loro sangue con quello del divino Agnello! Una parte, dal fremito dei pianti della Confessione, che risonavano sotto quelle volte come l’onda lontana di un mare in tempesta che batte sul lido, si rovesciano in quella chiesa inferiore. Laggiù come nella chiesa superiore le scene sono le stesse. Piombano sui gruppi e non paghi di strappare ogni ornamento d’oro o d’argento dalle mani, dagli orecchi, dalle trecce delle donne, ruotano a tondo le scimitarre. In breve tutto il sacro edificio in ogni parte non è che un vasto macello. Ma assetati di sangue, non lo son meno di libi dine. Orribili episodii! Qui è ammazzata una madre, che stramazzando nel proprio sangue, trascina seco la figlia che la morte stessa non divelle ancora dal suo seno: la figlia è risparmiata; ma non sarebbe meglio che fosse morta con la madre? Una fanciulla è di sputata da due: nel conflitto, colui che è per perder la, le avventa un colpo che le tronca un braccio: sviene l’innocente, e forse di quella mutilazione morrà; ma ciò non la salva dalla brutale passione del suo conquistatore. Qui ai piedi medesimi dell’altare, e nel sangue di cui è inondato il pavimento, un’ altra è rovesciata con un urto da una belva che vide in essa una delle Uris [vergini] descritte dal suo Profeta. La sua tenera sorella si precipita su di essa, e sì tenacemente si ab bracciano insieme, come se un corpo solo formassero. A furia di calci sono rotolate sul suolo insanguinato, ma non per questo fa che restino separate. Tanta pertinacia è bene un trionfo, ed esse l’ottengono. Quel mostro gettando un urlo di rabbia, con un sol colpo le uccide entrambe. Ma tiriamo un velo su tanti orrori. Questo è dovuto elogio di Otranto; che in quella fu nesta occasione molte delle sue figlie dimostrarono al mondo che la cristiana religione dà tanta forza al naturale pudore della donna, che men salda sia la forza di morte. Così molte di esse non dubitarono di incontrare la morte medesima, per serbare intatti i loro gigli.


Continua


De’ Beati martiri d’Otranto per GiovCanScherillo, Napoli, 1865, pp. 3-21