di Luca Fumagalli
Siegfried Sassoon (1886-1967) è il più importante dei cosiddetti “War Poets”. Forse i suoi versi non sono all’altezza di quelli di Wilfred Owen – solitamente considerato il migliore tra quegli inglesi che scrissero poesie sulla dura condizione dei soldati nelle trincee della Prima Guerra Mondiale – ma è innegabile che se non ci fosse stato lui, la produzione di Owen, di cui tra l’altro fu maestro, non avrebbero mai raggiunto il grande pubblico.
Owen, infatti, venne ucciso nel 1918 sul Fronte Occidentale, una delle ultime vittime di quel terribile conflitto che aveva cambiato irrimediabilmente il volto dell’Europa. Sassoon, al contrario, visse a lungo, avvicinandosi progressivamente a Cristo e al cattolicesimo. La sua vita, al pari della sua poesia, fu dunque un pellegrinaggio verso la Verità.
Nato da padre ebreo in una piccola cittadina del Kent, Sassoon era un ardente patriota e si arruolò volontario nell’esercito. In guerra perse un fratello, ucciso a Gallipoli, ma non si demoralizzò e, anzi, dimostrò in più di un’occasione il proprio valore, tanto che nel giugno del 1916 venne decorato con la Military Cross per aver condotto in salvo, sotto l’incessante fuoco tedesco, un ufficiale che era stato ferito in prossimità delle trincee nemiche. Questi e altri atti d’eroismo gli valsero il nomignolo di “Mad Jack” (“Jack il pazzo”). Robert Graves, suo compagno d’armi nei Royal Welch Fusiliers e futuro scrittore di una certa notorietà, lo ricorda mentre sfogliava tranquillamente il giornale poco prima di partire all’assalto nell’offensiva di Fricourt. Un’altra volta, nel 1917, dopo aver occupato una posizione nemica, Sassoon si mise a leggere una volume di poesie, incurante del pericolo. Fu così che venne raccomandato per la Victoria Cross, la più alta onorificenza militare dell’esercito britannico.
Più tardi, a seguito di una ferita, fu costretto al ricovero in ospedale. Durante la convalescenza Sassoon iniziò a riflettere sui massacri di cui era stato testimone: da quel momento l’eroe divenne la canaglia, il soldato perfetto si tramutò nel ribelle pacifista.
Nel luglio del 1917 la sua “Soldier’s Declaration”, indirizzata agli ufficiali in comando ma ripresa da varie testate, gli garantì una discreta fama. Si trattava di una dura critica ai potenti che, secondo Sassoon, speculavano sulle sofferenze dei soldati per fini meschini e malvagi. Ce n’era pure per chi, comodamente seduto sul divano di casa propria, inneggiava alla guerra senza conoscere nulla della terribile realtà della trincea. Gli stessi temi, compresa la critica all’ottuso sciovinismo della politica e della stampa, tornano pure in alcuni componimenti del periodo, su tutti “Base Details”, “The General”, “Fight to Finish” e “Glory of Women”.
In un ultimo gesto di protesta, Sassoon gettò la sua Military Cross nel fiume Mersey, raggiungendo il picco della notorietà quando la sua “Declaration” venne letta nella Camera dei Comuni. In molti, a questo punto, si sarebbero aspettati un deferimento alla corte marziale, ma, probabilmente per evitare uno scandalo, le autorità preferirono dichiarare Sassoon mentalmente instabile e, di conseguenza, non responsabile delle proprie azioni. Venne quindi mandato all’ospedale militare di Edimburgo per le cure ed è proprio qui che conobbe Wilfred Owen.
Già in questi anni nelle poesie di Sassoon si può notare una forte presenza d’immagini religiose che si vanno a insinuare tra le piaghe di un’umanità martoriata, sporca di fango e sangue. “Absolution”, “Golgotha”, “The Redeemer” e “Stand-To: Good Friday Morning” raccontano tutte dell’amore di Cristo per gli uomini, anche quando questi gli voltano le spalle. In “Reconciliation”, una breve lirica scritta nel novembre del 1918, a conflitto ormai concluso, si invita invece a ricordare i soldati tedeschi morti in guerra: «In quel Golgota forse troverai / Le madri degli uomini che uccisero tuo figlio».
Nel desolante panorama inglese del dopoguerra, Sassoon trovò nell’arte una piccola tregua dagli affanni che ne tormentavano la coscienza. Oltre a scrivere nuovi versi, amava leggere le poesie di Edith Sitwell – anche lei destinata a diventare cattolica – e fu un grande estimatore di Stravinsky e della sua musica (difesa a spada tratta in uno dei suoi migliori componimenti, “Concert-Interpretation”).
In “Sheldonian Soliloquy”, forse la più famosa poesia di Sassoon del periodo post-bellico, scritta nel 1922, torna quel cristianesimo embrionale che aveva caratterizzato molte delle sue liriche della guerra e che avrà bisogno di altri trentacinque anni per germogliare definitivamente.
Nel frattempo divenne noto anche per la sua produzione in prosa, alternando romanzi semi-autobiografici – in particolare la trilogia The Complete Memoirs of George Sherston (1937) – a veri e propri libri di memorie, come The Old Century (1938), The Weald of Youth (1942) e Siegfried’s Journey 1916-1920 (1945).
La fine del secondo conflitto mondiale segnò una nuova tappa della crescita poetica e umana di Sassoon. La bomba atomica sganciata su Hiroshima gli ispirò “Litany of the Lost” in cui, ancora una volta, l’immaginario religioso fa da contraltare alla disperazione morale di un mondo che si avviava grandi passi verso la Guerra fredda.
A 71 anni compiuti, nel settembre del 1957, Sassoon fece l’ultimo passo verso la Chiesa di Roma. Oltre alla personale esperienza, un certa influenza la dovettero esercitare pure amici cattolici quali mons. Ronald Knox e Hilaire Belloc (che purtroppo non vissero abbastanza per assistere al lieto evento). Dopo una vita di ricerca, il buon Siegfried era finalmente giunto a casa.
Durante la sua prima Pasqua da cattolico, scrisse “Lent Illuminations”, un candido resoconto della propria conversione, molto simile ad “Ash Wednesday” di T. S. Eliot. Fino agli ultimi giorni di vita, in poesie come “A Prayer at Pentecost”, “Arbor Vitae” e “A Prayer in Old Age”, il neo-convertito continuò a meditare sulla Fede con cuore grato e commosso.
Nel 1960 Sassoon selezionò trenta delle sue migliori poesie per una raccolta intitolata The Path to Peace, essenzialmente un’autobiografia in versi. Qui, più che altrove, è sintetizzata la parabola spirituale di un grande scrittore, un lunghissimo pellegrinaggio dall’orrore della guerra alla redenzione.
Fonti: J. PEARCE, Catholic Literary Giants, Ignatius Press, San Francisco, 2014; J. PEARCE, Literary Converts, Harper Collins, Londra, 2000.