di Luca Fumagalli

Dopo il successo delle due trilogie cinematografica de Il Signore degli Anelli e de Lo Hobbit, firmate dal talentuoso cineasta Peter Jackson, si avvertiva la necessità di un biopic dedicato a J. R. R. Tolkien, che svelasse a un vasto pubblico di spettatori gli aspetti più significativi della parabola biografica del celebre professore di Oxford, diventato col tempo uno degli autori di culto della letteratura del Novecento.

Tolkien (2019), in uscita nelle sale cinematografiche italiane il 12 settembre, è proprio il tentativo di rispondere a una tale esigenza.

Il regista finlandese Dome Karukoski, complice forse un budget relativamente ridotto, stimato intorno ai 20 milioni di dollari, fa la scelta di concentrarsi sugli anni della giovinezza e della formazione universitaria di Tolkien, grosso modo fino alla conclusione della Prima guerra mondiale (più una piccola coda a mo’ di epilogo). I fatti sono riportati abbastanza fedelmente, salvo qualche piccola licenza che comunque non reca alcun danno né fastidio.  

Pensata come un lungo flashback di Tolkien, impegnato in guerra sul fronte della Somme, la pellicola si apre sugli squallidi sobborghi di Birmingham, con la morte della madre e l’affidamento al sacerdote oratoriano Francis Morgan. Lui e il fratello vengono sistemati in un pensionato, ed è qui che Tolkien incontra la bella orfana Edith Bratt, di cui si innamora perdutamente.

Da questo momento la trama prende tre strade diverse che, nel corso del film, si intrecciano tra loro in continuazione: oltre al presente della guerra, vi è la storia d’amore con Edith e la descrizione della lunga amicizia di Tolkien con Christopher Wiseman, Robert Gilson e Geoffrey Smith (il loro sodalizio prende il nome di TCBS, “Tea Club and Barrovian Society”).

Complici le ottime interpretazioni degli attori protagonisti – in particolare si segnalano per la loro bravura Nicholas Hoult, nei panni di Tolkien, e Lily Collins nel ruolo di Edith – Tolkien risulta nel complesso un buon film, con molti pregi ma, purtroppo, anche con qualche sbavatura. Se la pellicola riesce bene, ad esempio, a raccontare l’origine e il montare della passione del giovane Tolkien per le lingue, la mitologia e la filologia, il rapporto con gli amici è spesso trattato superficialmente, ridotto a un accumularsi di aneddoti che, tuttavia, faticano a restituire la profondità umana e culturale di un gruppo che aveva l’ambizioso progetto di utilizzare l’arte per cancellare dal mondo ogni bruttura.

Per fortuna, a differenza di quello che qualche critico aveva paventato, l’amicizia tra i quattro ragazzi è narrata senza alcuna ambiguità: il loro è un rapporto sincero e virile – come veramente fu – privo di quegli ammiccamenti che tanto piacerebbero all’attuale carrozzone del “politically correct” di marca LGBT.

A maggior ragione, dunque, Tolkien aveva tutto il potenziale per poter essere un nuovo e migliore L’attimo fuggente, ancora più profondo e toccante nel descrivere il rapporto tra vita e letteratura; soprattutto sarebbe stato libero da quelle sinistre tentazioni nichiliste che invece attraversano il capolavoro di Peter Weir.  

Ottime, al contrario, le parti che ritraggono Tolkien in viaggio tra le trincee alla ricerca dell’amico Smith, di cui da qualche tempo non ha più notizie. Ammalato e stanco, si trascina tra pioggia, sangue e cadaveri accompagnato dal fido commilitone Sam Hodges (il cui nome, come si intuisce in una bellissima scena, è tutt’altro che casuale). Altrettanto azzeccate sono le sovrapposizioni tra i paesaggi desolati della guerra e le parti più oscure del legendarium tolkieniano, quasi a voler suggerire una connessione tra la disumanità della Somme e la terribile follia di Mordor. Il fuoco di un drago che diventa quello dei lanciafiamme tedeschi, i cavalieri oscuri che abbattono soldati inermi e gli spettri che si aggirano sul campo di battaglia avidi di morte sono solo alcune delle chicche più riuscite.

Al netto di tutto, il maggior limite del film rimane quello di sorvolare completamente sulla Fede cattolica di Tolkien, in realtà un elemento essenziale sia della sua vita che della sua opera. È forse questo il più grande tradimento del biopic alla verità dei fatti, una scelta incomprensibile che offre perciò un’immagine monca ed eccessivamente orizzontale del professore di Oxford.     

È davvero un peccato, anche perché Tolkien – che, a quanto pare, pure al botteghino in America ha raggiunto risultati modesti – aveva tutte le carte in regola per diventare un vero capolavoro, che non avrebbe sfigurato accanto ad altri illustri film biografici o di formazione. Come già detto, si tratta comunque di una buona pellicola, che gli appassionati della Terra di Mezzo non dovrebbero lasciarsi sfuggire. Certo, però, rimane l’amaro in bocca di una grande occasione sprecata.