Senza necessariamente aderire a ogni affermazione di questo articolo, lo riprendiamo volentieri per diversi spunti interessanti. Il testo è originariamente uscito il 23 settembre su Orwell.live, a firma di Alberto Gonnella.

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«Ho cinquant’anni, lavoro in un giornale e da qualche mese sono una sorta di sentinella del web». Inizia così il racconto di tale Lucia su uno degli scorsi numeri di Io Donna, che ci svela un altro aspetto dei Guardiani del politicamente corretto. La signora in questione afferma di lavorare per “Io-sono-qui”, un’organizzazione che si affianca a Butac.it, di cui abbiamo già parlato.

Si tratta di un’associazione di “attivisti digitali” che, essendo evidentemente depositaria della Verità assoluta per diritto divino, così si racconta: «combattiamo l’odio diffuso sui social media, la violenza verbale, i troll. Contrastiamo la diffusione delle Fake News e della disinformazione. Ci battiamo contro ogni intolleranza, il razzismo, il sessismo e l’ineguaglianza. (…) Siamo politicamente neutrali e non sosteniamo alcuna visione politica o religiosa. Focalizziamo la nostra azione a favore della democrazia, dell’inclusione, della libertà di parola e dei diritti».

Che meraviglia. Meno male che esistono persone così che, quindi, si saranno indignate e saranno scese in campo per condannare le campagne di censura contro giornali, scrittori, partiti e persino contro opere d’arte. Macché. Anzi, se tutto va bene sono proprio loro che li hanno fatti bannare da Facebook.

Il gruppo, fondato da Anna Sidoti e Francesca Ulivi, nasce sull’onda di un analogo progetto svedese e si presenta sulle pagine di Butac con tutta una serie di racconti e testimonianze davvero “toccanti”. Per esempio, Francesca a un certo punto dice, convinta: «Io traccio una linea rossa tra disinformazione, misinformazione o falsa informazione e hate speech, per me è tutto collegato e continua ad aumentare nella logica del clickbaiting e della psicotica necessità di rendersi visibili».

Peccato che venga poi smentita dalla sedicente Lucia di Io Donna che svela: «il nostro obiettivo è proprio cavalcare l’algoritmo per fare salire nelle prime posizioni i post positivi e affossare quelli negativi. (…) Cruciali sono i like, i “mi piace”, che cerchiamo di mettere a pioggia sui post positivi, per fare massa».

Quindi la vera “linea rossa” è proprio quella di affiancare gli algoritmi preimpostati (in base, crediamo noi, ad accordi interni con persone di Facebook) per fare proprio “clickbaiting”, oltre che per segnalare in massa tutto quello che non piace.

Naturalmente tutte queste signore dichiarano di essere “volontarie”. Non vogliamo dubitarne, ma dietro a questa (e a decine di altre organizzazioni) ci sono molti soldi, che arrivano probabilmente proprio dello stesso Mark Zuckerberg. Lo svela Brooke Binkowski in una illuminante intervista a il Fatto quotidiano, dal titolo “Sono loro che decidono cosa oscurare e cosa no”.

La Binkowski racconta di essere stata assunta come fact-checkers e debuncker (appunto i cacciatori di bufale) dal sito Snopes. Lei era convinta di svolgere un lavoro indipendente, poi, però, si è accorta che il suo capo prendeva 100 mila dollari l’anno da Facebook e afferma, testualmente:

«Lo stesso importo che Facebook paga alle 43 associazioni con cui lavora nel mondo: sono 4,3 milioni l’anno. Ma è niente per Facebook».

Sarebbe davvero illuminante avere l’elenco di queste associazioni, certo ci aiuterebbe a capire come funziona l’apparato disinformativo e censorio del social di Menlo Park.

CERCARE LA SERIETÀ

Gli interrogativi che apre questa intervista sono molti e gravissimi, perché, se gruppi “militanti” come Bufale.net o Butac.it sono, in fondo, piccoli e poco pericolosi; il fact-checking è diventato un mestiere importante, di cui va riconosciuta una rilevanza anche educativa, se svolto con imparzialità e serietà.

Vorremo anche ricordare che a combattere i reati commessi on line (tali sono la diffusione di notizie false, le calunnie, le ingiurie) sono preposti organi ufficiali quali: la Polizia postale, l’Autorità delle Telecomunicazioni e, in ultima istanza, la Magistratura.

I “surrogati” di cui abbiamo parlato, che si sono auto-investiti dell’autorità di decidere cosa è vero e cosa è falso, svolgono un’attività non riconosciuta se non illecita. Il rischio, infatti, è che a prevalere sia una visione ideologica e un interesse politico o economico. Non vogliamo dubitare della buona fede di qualche “volontario”, tuttavia molti di quelli che pensano di far parte del “fronte dei buoni”, alla fine fanno solo gli interessi del grande business dei colossi americani: Facebook, Google… e un giorno parleremo anche di Amazon e di molte multinazionali dello sfruttamento e dello schiavismo.

Se qualcuno si oppone alla dittatura del pensiero unico, ai traffici di essere umani, al business sulla nostra pelle deve per forza essere un “cattivo”? Un seminatore d’odio? Se si denunciano le menzogne o i silenzi dei media allineati, finanziati da potentati economici, per questo si deve essere accusati di essere eversivi, razzisti, omofobi?

È un giochetto troppo facile, quello di attaccare etichette infamanti a chi non la pensa come vuole il padrone di turno. Un gioco che abbiamo già visto utilizzare tragicamente, in Italia, negli anni Settanta del secolo scorso. E anche allora erano “di moda” le liste di proscrizione e le schedature dei “cattivi”.

A quella scuola, ahimé, pare che siano cresciuti molti di questi nuovi Guardiani del politicamente corretto. Da parte nostra, noi rimaniamo serenamente contro l’odio, contro le fake-news e… contro la Psicopolizia.