di Cajetanus

Quello che generalmente viene oggi chiamato “ateismo” era già considerato dai Romani come una perversione intellettuale e quindi anche dallo stesso Diritto Romano, che per i casi (rarissimi) di vero ateismo (ἄϑεος: “senza-dio”) prescriveva la pena di morte, in quanto gli atei non solo minavano il patto di amicizia tra lo stato romano e il Divino, ma costituivano un pericolo per l’intera società, essendo considerati corruttori di costumi e privi di un qualsiasi senso oggettivo della giustizia.
I primissimi cristiani vennero spesso accusati di questo delitto dai magistrati romani, essendo soliti affermare pubblicamente la falsità e l’inesistenza degli dèi romani. Per ignoranza della dottrina cristiana questo, molto spesso, veniva interpretato come “ateismo” dai magistrati. Infatti i Romani ancora non comprendevano il reale significato dei discorsi dei cristiani, i quali intendevano dire che quelli che i romani (e gli altri pagani) consideravano “dèi” in realtà erano spiriti maligni che si fingevano divinità e che operavano prodigi.
C’è poi da dire che non vi fu mai alcun filosofo dell’antichità a sostenere l’ateismo materialista, per come è concepito oggi, in quanto irrazionale e perverso; infatti i filosofi che negavano “l’esistenza degli dèi”, (e che oggi vengono citati ogni due per tre dall’ateo medio su Facebook) come i cristiani, negavano la definizione di “dèi” e non l’esistenza oggettiva di queste forze o entità, uno tra i pochissimi che si spinsero oltre fu Protagora che però fu agnostico e solo nei confronti degli dèi pagani. Altri come Epicuro, Diogene di Apollonia, Diagora di Melo, Teodoro di Cirene, Evemero o Ippone di Reggio non furono atei, ma si limitarono a negare la divinità degli antichi dèi adorati dai pagani, considerandoli come demoni e riconoscendo le vere divinità negli elementi e negli astri come Senocrate e altri, oppure considerandoli come uomini di grande valore in seguito divinizzati dalla superstizione (si veda: Ios. Flav. Contra Apion., II, 16 – Iustin., Apol., I, 6 e I, 13; Athenag., Suppl., 3, 4, 30; Martyr. Polyc., 3 e 9; Clem. Al., Strom., VII, 1, i e 4; Arnob., III, 28; VI, 27; I, 29; V, 30).

Bellissimo articolo, molto coraggioso.
Magari se ne leggessero di più così
Però !
Questa di essere un pervertito intellettuale, perlomeno secondo (alcuni) antichi romani mi é nuova.
Divertente, direi.
Proprio vero che potere politico e potere religioso viaggiano sempre a braccetto.