di Luca Fumagalli

Martin D’Arcy fu forse il gesuita più importante nella storia del cattolicesimo britannico del XX secolo. Più di altri illustri confratelli quali Bernard Vaughan, Charles Plater e Cyril Martindale, si dimostrò capace, grazie al carisma e al fine intelletto, di trascendere i limiti della vita clericale per lasciare un segno nel più vasto mondo, destreggiandosi abilmente tra scrittori, intellettuali ed esperti d’arte. Si distinse inoltre come uno dei più raffinati apologeti cattolici del suo tempo, distante sia dagli ultraconsevratori che dai progressisti più rumorosi.
Nato a Bath nel 1888 da una famiglia di origini irlandesi, D’Arcy studiò prima a Stonyhurst, la più famosa scuola inglese gestita dai gesuiti, e in seguito a Oxford. Fu proprio in quegli anni, a contatto quotidiano con il latino, la filosofia e la dottrina cattolica che maturò il desiderio di diventare sacerdote e di entrare nella Compagnia fondata da Sant’Ignazio, all’epoca l’ordine religioso più importante nel Regno Unito.
Per tutta la vita l’attività pastorale di D’Arcy fu animata da due principali obiettivi: portare Cristo in una società sempre più secolarizzata e, allo stesso tempo, combattere quel liberalismo filosofico e teologico che stava pericolosamente penetrando nella Chiesa.

Sebbene amico del barone Friedrich von Hügel, uno dei più noti modernisti d’Inghilterra, D’Arcy non apprezzò mai la nuova teologia e nemmeno le idee progressiste di Lord Acton, un uomo che detestava profondamente. Spaventato dall’irreligione dilagante e dal pericolo di un incombente sovvertimento sociale, durante la Guerra civile spagnola si schierò dalla parte dei nazionalisti di Franco e mostrò, più in generale, una timida simpatia per le destre europee. Dati i meriti guadagnati sul campo, fu pure in lizza per un posto da insegnante alla Gregoriana, ma venne infine scartato, probabilmente perché giudicato poco pugnace (nei dibattiti D’Arcy era generalmente pacato per gli standard di allora, cercando innanzitutto di comprendere il punto di vista degli avversari).
Oltre al secondogenito di Oscar Wilde, Vyvyan Holland, di cui era stato compagno a Stonyhurst, D’Arcy ebbe modo di conoscere e di frequentare quasi tutti gli esponenti più illustri del cosiddetto English Catholic Revival in campo artistico e letterario: tra gli altri G. K. Chesterton, Hilaire Belloc, Maurice Baring, Eric Gill, David Jones, Edith Sitwell, Graham Greene, Shane Leslie e Roy Campbell.
Il legame più profondo fu tuttavia quello con Evelyn Waugh, uno dei suoi tanti illustri convertiti. D’Arcy ne officiò il matrimonio e fu per decenni il suo consigliere spirituale; la profondità del rapporto tra i due è testimoniata anche dal loro voluminoso epistolario. Waugh, che donò forti somme di denaro ai gesuiti, compresi gli introiti del suo saggio dedicato ad Edmund Campion – il famoso martire del XVI secolo – fece leggere a D’Arcy, in anteprima, le bozze di Ritorno a Brideshead: voleva un riscontro da parte dell’amico a proposito dell’ortodossia teologica del romanzo, quello che più tardi sarebbe diventato uno dei più grandi capolavori della narrativa cattolica inglese del Novecento.

Nel 1933 D’Arcy divenne rettore della Campion Hall, l’unico college “papista” di Oxford. Entusiasta dell’incarico, inaugurò una nuova politica incoraggiando le amicizie dei cattolici con gli altri studenti e la loro iscrizione alle associazioni universitarie. Si andò così a rompere piano piano quel regime di autosegregazione che aveva caratterizzato la condotta dei fedeli di Roma sin da quando era stato rimosso per loro, negli ultimissimi anni dell’Ottocento, il divieto d’iscrizione all’università. D’Arcy fu inoltre il principale responsabile della rifondazione di Campion Hall, nel 1936, raccogliendo i fondi necessari per la costruzione del nuovo edificio, più bello e più grande del precedente, con una magnifica cappella, in grado di rispondere meglio alle esigenze del crescente numero di studenti che lì risiedevano. Oltre a procurarsi paramenti liturgici e mobili di qualità, D’Arcy si fece letteralmente in quattro per trovare opere d’arte che contribuissero alla decorazione degli interni.
Negli anni Trenta, con lui alla Campion Hall e mons. Ronald Knox a reggere la cappellania cattolica dell’università, il “papismo” a Oxford conobbe uno dei suoi periodi di massimo splendore. D’Arcy era molto amato sia dagli studenti cattolici che da quelli protestanti. Il suo carattere affabile e la sua ben nota parlantina lo rendevano un ospite ideale per gli incontri organizzati dai molti circoli universitari a cui era iscritto. In queste occasioni ebbe la fortuna di conoscere Albert Einstein, Isaiah Berlin e Bertrand Russell (anche se con quest’ultimo, ateo militante, D’Arcy polemizzò in un paio di dibattiti pubblici, i due col tempo finirono per diventare amici).
Viaggiò molto tenendo sermoni, lezioni e conferenze in Europa e negli Stati Uniti; nel 1932 ereditò pure il ruolo di Martindale ai microfoni della BBC quale voce più rappresentativa del cattolicesimo inglese.

Come se tutto questo non bastasse, pubblicò parecchi libri e firmò non meno di trecento articoli per quotidiani e riviste. Quelli che lo conoscevano sapevano che D’Arcy era migliore come oratore che come scrittore. La sua prosa era fluida ed erudita, ma mancava di quella proverbiale energia che ne caratterizzava l’oratoria. Comunque i suoi lavori ottennero un buon successo ed ebbero l’indubbio merito di introdurre un numero crescente di fedeli inglesi al mondo del neo-tomismo. Mosso dal principio agostiniano del “Nulla est homini causa philosophandi nisi ut beatus sit” (l’unico motivo per un uomo di occuparsi di filosofia è il raggiungimento della santità), D’Arcy spese la maggior parte delle sue energie per approfondire il rapporto tra razionalità e sentimento, dando corpo a una filosofia dell’amore – umano e divino – che, al netto di qualche limite, rimane ancora oggi affascinante. Tra l’altro nel 1930 scrisse anche un libro su San Tommaso destinato a influenzare non poco la biografia dell’aquiante pubblicata da Chesterton qualche anno dopo.
Né va dimenticato il ruolo chiave che D’Arcy giocò nella riesumazione dell’opera di Gerard Manley Hopkins, un gesuita del XIX le cui poesie erano state colpevolmente dimenticate dagli stessi confratelli. Hopkins, oggi universalmente considerato un genio, fu riscoperto solo a inizio Novecento, e D’Arcy, che ne stimava la profondità intellettuale e lo stile, contribuì in maniera decisiva alla diffusione dei suoi versi migliori.
L’apogeo della sua carriera come gesuita lo raggiunse nel 1945, quando venne nominato superiore della provincia inglese. Sin da subito D’Arcy si dimostrò un amministratore brillante, tanto che l’anno successivo, in occasione dell’elezione del nuovo Generale della Compagnia di Gesù, qualcuno avanzò persino l’ipotesi di una sua candidatura. Fece tutto ciò che era in suo potere per dare nuovo lustro alle scuole gestite dall’ordine e per rilanciare il «The Month», affidando la direzione del periodico a padre Philip Caraman (più tardi biografo di Martindale). Purtroppo, però, il suo incarico terminò anzitempo nel 1950, forse a causa di bisticci con qualche confratello di spicco.

Gli ultimi anni di vita tinsero d’amarezza l’esistenza di D’Arcy: se il cattolicesimo americano gli diede ancora qualche motivo di speranza – e in quegli anni fu spesso in visita negli Stati Uniti, divenendo amico di personaggi del calibro di Bob Hope e Bing Crosby – la chiusura del Concilio Vaticano II inferse al suo animo una ferita quasi mortale. Per quanto non condividesse del tutto le posizioni dei critici più “tradizionalisti”, il gesuita visse il turbolento periodo del post-concilio con rabbiosa rassegnazione, assistendo al lento suicidio del cattolicesimo, un’opportunità di riforma della Chiesa che si era trasformata, per colpa di quelli che lui definiva “neo-modernisti”, in una terribile rivoluzione (anche la Compagnia di Gesù stava vivendo in quegli anni un drastico calo delle vocazioni, reso ancora più doloroso dal dilagante fenomeno degli “spretati”). A nulla valsero i suoi articoli di protesta se non a vedersi affibbiata l’odiosa etichetta di “reazionario”, quasi fosse un vecchio arnese ormai inutile.
Ciò nonostante, quando D’Arcy morì, nel 1976, gli inglesi fedeli alla Chiesa di Roma erano consapevoli di aver perso uno dei loro più importanti sacerdoti, un uomo che con il suo acume e il suo fascino aveva contribuito in maniera decisiva a estendere la fama della Chiesa di Roma in tutto il paese, ben oltre gli steccati delle parrocchie e dei seminari. Con la sua dipartita si estinse l’onda lunga della rifioritura “papista” nel Regno Unito, una terra che da allora non avrebbe mai più conosciuto un intellettuale cattolico di pari valore.
Fonte: H. J. A. SIRE, Father Martin D’Arcy, Gracewing, Leominster, 1997.