Nota di Radio Spada: tra i nostri scrittori abbiamo certamente degli specialisti. Se Massimo Micaletti è attento studioso delle questioni bioetiche, se Pietro Ferrari è fine politologo e polemista economico, se Giuliano Zoroddu è un “sacro scrittore” molto erudito, se Alessandro Luciani è un apologeta a tutto campo, se Luca Fumagalli spazia tra letteratura anglosassone antica e moderna e le arti visive, se Simone Gambini è stato un inesausto cultore delle sub culture pop contemporanee, Mattia Spaggiari ha aperto per Radio Spada gli confinati campi della letteratura tedesca. Anche qui troviamo spunti interessanti per la battaglia culturale e religiosa cattolica integrale che conduce il nostro blog. Questo lungo articolo viene pubblicato in tre puntate il 4 ottobre, il 5 ottobre e l’ultima, domenica 6 ottobre 2019, Solennità esterna della Madonna del Rosario. Pur continuando a seguire le polemiche quotidiane di gazzettieri ed ecclesiologi, Radio Spada continua con voi lettori questo dialogo fruttoso e vivificante. Buona lettura! (Piergiorgio Seveso – Presidente SQE di Radio Spada)

Nella solennità esterna della Madonna del Rosario e festa di San Brunone, abate e confessore
“I masnadieri” è una tragedia del potere: ma non incentrata, sulla lotta per il suo conseguimento, bensì – e questo è tratto tipicamente schilleriano – sull’analisi delle dinamiche psicologiche che guidano la storia sui suoi sentieri di pace, decadenza e rivoluzione; e sul significato di queste al cospetto dell’Eterno. Come sempre Schiller usa nomi parlanti. Anzitutto, i protagonisti non a caso sono i Conti di “Moor”, che in tedesco significa “palude”: si tratta della melma della storia, quel flusso di eventi che saldo ci afferra a sé, sia pur con catene non tanto tenaci da poter imbrigliare la libertà del nostro animo. E qui sta, a ben vedere, l’insegnamento morale di tutto il dramma, nell’invito ad essere fino in fondo uomini, cioè individui morali che usano rettamente la propria retta coscienza ed il proprio retto amore per volgersi a Dio, sottraendoci alla funesta – ma tutt’altro che cieca – catene di violenze, brame e vendette che tempestano questa valle di lagrime, rendendone fangose e putride le acque stagnanti. Ritengo che la scelta nei nomi di Battesimo dei due protagonisti dipenda invece da un mero sentimento antifrancese proprio di molti tedeschi e cui il nostro autore non si sottrae: se Franz rappresenta la via di decadenza e tirannia scelta dai Francesi, i Tedeschi rappresentati da Karl sono un popolo infiammato e consunto dall’ideale, ma decimato dalla Rivoluzione stessa che presso di essi attecchisce. Maximilian è invece un uomo quasi divino, rappresentante ideale di quel mondo edenico, di quell’età dell’oro che fu e sempre sarà meta ricorrente d’ogni nostalgia poetica. La teoria schilleriana dell’età dell’oro e della poesia ingenua doveva ancora formalizzarsi a quest’altezza cronologica (le più importanti sue opere a proposito saranno Gli dei della Grecia del 1786 e Sulla poesia ingenua e sentimentale del 1795), ma già qui possiamo vederne i primi polloni: dalla beatitudine, più logica che cronologica se si considera il mondo uscito dal Paradiso terrestre, si giunge ad una condizione corrotta per due strade uguali e contrarie, la decadenza del peccato pervicace ed amorale; e la volontà di ribellione che al postutto porta molti più danni che benefici. Si tratta delle due tendenze fondamentali dell’animo umano. Par di vedere, l’una contro l’altro armata, le due forze della kantiana Critica della facoltà di giudizio (che però all’epoca non era ancora stata scritta), la ragione, cinica approfittatrice disumana, ed il sentimento, sublime ma non conoscitivo. Per tutta la vita Schiller cercherà una sintesi tra ragione e sentimento, tra sfera sensibile ed intelligibile, tra contemplazione e azione, e la troverà nel giuoco e nell’arte (vedansi le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, del 1795), ma qui la strada della conciliazione, almeno in terra, sembra ancor chiusa. Come può la ragione, che volge il suo sguardo aritmetico verso la terra, conoscere la virtù? e come il sentimento, perso nelle sue celesti contemplazioni, può divenir solido fondamento su cui costruir la propria vita senza che s’inganni attirato se non da falsi fini, quantomeno da fallaci mezzi? La Rivoluzione non è difatti altro che un immenso e sregolato movimento palingenetico, uno stolido fuoco che arde il grano insieme alla pula. Così Carlo cambia cognome ed appicca fuoco alla sua palude con un falò (Brand), con cui, a ben vedere, non fa che distruggere se stesso. Ma in realtà tutto è ben più complicato di quanto questo breve prospetto lasci intendere. Ciascuno dei due contendenti ha un doppio che rappresenta l’altra faccia della sua stessa natura: per Karl trattasi di Spiegelberg (il “monte dello specchio”), il giudeo irriverente dai desiderî primitivi e volgari, la lordura che dietro la scintillante vernice si nasconde depositata sul fondo del cuore d’ogni rivoluzione; per Franz di colui che l’assiste nelle sue frodi, Herrmann (Arminio), il cui nome ci rimanda all’eroica resistenza dei popoli germanici contro l’oppressore romano, la quale è ridotta a bramosa fierezza temperata dalla pietà, che non è poi altro che quella pallida idealità ancor riconoscibile tra le macerie dell’età dell’oro decrepita e crettata da secoli d’invidie, odî, tradimenti. E l’uno e l’altro ama o desidera la medesima donna, Amalia von Edelreich, il Regno beato e giusto, l’utopia d’ogni regnante o filosofo o cuor nobile che sia: ella porta il nome dell’antica casa reale ostrogota, gli Amali, e la sua famiglia è il “nobile regno”, quello dei Cieli – principescamente attorniato da tutte le sue vaghe immagini terrene. Un’utopia da tutti vagheggiata a modo proprio, ma che rifugge il compromesso storico così come è inavvicinabile dalla Rivoluzione, che solo asintoticamente può vagheggiarla di lontano, salvo poi ucciderla nella conflagrazione universale causata dalla sua stessa protervia. Volersi sostituire a un Dio di cui dubita: questo è il fallo dell’uomo ribelle, che non conoscendo la giustizia si ritiene più giusto del Sommo Giudice e vota la sua vita al crimine tentando di vendicar torti già vendicati o di evitar condanne già eseguite. Come nel caso di Roller: quanti morti per sottrarlo dalla forca; quanti per farlo ripiombare, lui solo, nell’abisso da cui era stato strappato! Eppure «Ilio spera in te solo…»: non nel prono conformarsi alla logica del mondo, bensì nel coraggio di chi lieva il petto contro l’ingiustizia e la menzogna questo stanco mondo ripone ogni speranza che la sua età decrepita possa ancor concepire. Ah, se esistesse la possibilità di drizzar quell’impeto, di volgerlo al bene anziché al delitto! Esiste invero una soluzione a questo capitale dissidio, ed è quella forza che secondo Schiller informa di sé sia il mondo umano sia quello inanimato e che è in fondo l’essenza stessa di Dio: l’amore – il retto amore. Amore, carità, misericordia: ecco ciò che ci libera dall’estenuante peso della terra matrigna e che ci dona la vera felicità, quella celeste, facendo battere il nostro cuore all’unisono con quello del creato e del suo Creatore! ecco ciò che ci guida alla retta moralità, alla conoscenza del Bene, del Vero e del Bello! Solo l’amore ci può condurre ad abbracciar la Croce, ad accoglier il Verbo che umilmente si dona all’umanità e a conoscer così Dio, principio e fine d’ogni cosa. Solo l’amore è principio e frutto d’una speranza non fallace – il che vuol dire non mondana. Se infatti è la disperazione il principio da cui rampolla il peccato in ambo le sue diramazioni, la speranza è ciò che fa rifiorire la Giustizia sulla terra, nella provvidenziale misura in cui essa vi regna, commista e stemperata nel male e nell’iniquità; ma soprattutto dentro di noi: qui essa non ha da temere grandine o tignuola, giacché la Grazia di Dio la protegge dai dardi fiammeggianti della storia, fino a quando non possa ascender nei cieli, laddove essa finalmente dominerà, incontrastata signora del cosmo. Questo miracolo è esattamente ciò che avviene alla fine della tragedia: la consuetudine priva d’amore e d’ogni ideale è votata al baratro infernale, mentre per chi attizza ancor dentro di sé il sacro fuoco dell’ideale è sempre possibile volgersi al vero bene; ma questo accade solo quando vi sia il perdono, la misericordia di Dio, che è l’unica cosa che dia un senso sovrannaturale alle nostre azioni, schiudendoci la possibilità d’agire bene e sferrandoci dai ceppi che ci facevano servi del demonio; e la volontà d’espiare, che sempre consegue ad un sincero pentimento e alla confessione della colpa: trattasi della propria libera e volontaria conformazione all’ordine provvidenziale di giustizia che governa il mondo; ordine d’amore, appunto – o almeno tale era il mondo appena uscito dalle mani del suo Creatore, prima che il Maligno vi riversasse ogni raccapriccio; ma la più grave iniquità umana o diabolica non può tubare la sicura serenità del Signore dell’universo, che piega il Male stesso al servizio d’un complessivo ordine di bene.
L’erede del regno è Carlo, non Francesco: sull’amorosa Sehnsucht si fonda l’ordine del mondo, l’ambizione dagli «occhi di bronzo» non può che esserne usurpatrice. L’amore è il savio padre del potere, Massimiliano, colui che regna sulle liete valli benedette dall’età dell’oro è l’emblema stesso della misericordia; in giojosi ricetti di questa sorta, i quali solo raramente possono essere adombrati su questa terra dalle benemerenze di pietosi Sovrani, in tali ricetti trova ospitalità la chimera della felicitas temporum, la bella Amalia, nobile ma orfana ed abbandonata da tutti per causa dell’invidia e della cupidigia. Chi potrà ella sposare altro da quella santa idealità del cui sguardo si pasce? Ma, ahilei! Carlo sperpera i suoi palpiti per torti sentieri, dilungando il proprio passo da casa. Quand’ecco che l’inganno d’una giustizia priva di misericordia, tanto diabolica quanto una misericordia priva di giustizia – come il finale della tragedia limpidamente ci dimostra –, fa precipitar nella disperazione il mondo intero. Desso è l’inganno per cui noi ci riteniamo autorizzati a dichiarare interrotta la nostra via, terminate le possibilità di redenzione, inutile la nostra fedeltà: perché restar fedeli? da qui non verrà che male! Simile a questo è il pensiero di molti eretici che, Lutero in primis, proclamarono anzitempo la morte della Chiesa, annunziando in realtà la propria. Carlo e Francesco vogliono entrambi fare giustizia, ma entrambi commettono ingiustizie, colla sola differenza che il primo riconosce come tali le sue: ma che importa? Se non v’è Dio – e questo dimostrano di pensare coloro che non hanno altra stella polare che i mutevoli venti del mondo – donde deriverebbe la moralità? Domanda affatto legittima cui il nostro tempo, che ama scimmiottar laicità, ha fornito in risposta più d’un’ingegnosa bizzarria. Ov’è oggi una forza più nichilista della sedicente scienza materialista? ed il nichilismo porta sempre con sé la legge del più forte; coloro che pensano che, eliminato Cristo dalla società, giunga finalmente l’era della giustizia si dovranno presto disingannare: giungerà l’era delle belve. La tenace forza del nulla è tale che da sola ha il potere di confermar nel crimine i disperati: il male che si sostiene col male, ecco il senso di tanti discorsi di Francesco, che trova nella degradazione materialistica dell’uomo e del mondo un palliativo per sedar le tempeste della sua coscienza. Giudea è invece la coscienza che approfitta della debolezza di Carlo per traviarlo. Spiegelberg presenta all’amico – guardarsi sempre dalle cattive amicizie! – il suo primo ribaldo progetto: rifondare il Regno d’Israele, spacciandosi per discendenti d’Erode! Ecco ove vanno a finire i buoni propositi di giustizia deviati dal demonio! nella strage degli Innocenti! Per l’Europa cristiana il giudeo è il plurisecolare emblema del tradimento, della viltà d’animo, della crassa e comoda immoralità, colui che, rinnegato Cristo, smarrisce e fa smarrire la via del bene. Devo però ammettere che è consolante sapere che nel xviii secolo il Sionismo era ancor considerato un’improbabile burletta: miserabile potere della perversione umana! tu ne hai fatta realtà! E così la già marcata insofferenza alle leggi dell’animo repubblicano del buon Carlo si trasforma in adesione abituale al peccato. Tale idolatrico peccato si vota alla miseria e alla povertà, simile in questo alla negletta virtù, mentre il peccato opposto, quello del fratello, porta onori e ricchezze, quelle vanità che come un soffio di vento si dileguano nella ridda di spade e veleni che scandisce le successioni dei potenti. Non v’è nulla di cui sorprendersi se il vero bene, inconcutibile ed incorruttibile, non si lascia catturar dagli specchietti per allodole dei servi di Mammona! Amalia fugge Francesco e maledice la sua disonesta ricchezza, la meretrice Babilonia che noi vediamo in disperate generazioni di yuppies e tycoons, figli del mercato prima ancor che del padre loro. Ah, se al posto di questa prole degenere ad abbellire il futuro vi fossero i legittimi eredi! Eroi esige il nostro cuore, non ghiottoni! Ettore è allora l’ultima speranza del mondo, l’eroe che non teme il pericolo e che affronta a testa alta la morte pur di tentare un’ultima inutile difesa della patria, serbando la certezza che la Provvidenza di Dio non ritrarrà dal futuro, il piccolo Astianatte, la sua benevola mano e che il proprio amore per la giustizia, la sua bella Andromaca, nessuno potrà involargli. Ettore non è l’“anima bella”, “die schöne Seele”, quell’ideale conciliazione tra ragione e sentimento, tra sensibile ed intelligibile che da sempre Schiller vagheggia; egli è omai “anima sublime” anteponendo, laddove i due vengano a cozzare, le ragioni della moralità a quelle dell’interesse, la giustizia alla vita. Entrambi i fratelli steccano l’accordo celestiale delle superne sfere, ma sarà Carlo alla fine della tragedia a riescir finalmente emulo di Ettore nel suo sublime sacrificio alla divina Giustizia. Né la grazia dell’anima bella, né la dignità di quella sublime sono attingibili invece da Francesco. Egli si propone ad Amalia come unica alternativa: la moralità è affare d’altri tempi, la virtù è estinta, omai sono quelli come me che comandano… perché sperare ancora? perché non cedere alle lusinghe del mondo? Il Signore dà, il Signore toglie, ma guai a chi maledice il Signore! guai a chi lo tradisce vendendosi al Principe delle tenebre per trenta danari! Inconcludenti sono frattanto le opere del rivoluzionario: il loro seme è seme di lagrime, che frutta distruzione e oblio. Dio offre sempre al peccatore la possibilità di ritornar sui proprî passi, ma non tutti la vogliono cogliere. È vero, l’ipocrisia alberga nel Clero come in tutto il resto del mondo: ma questo non deve indurci a dubitar del bene che ci vien fatto o a disprezzar la mano che ci vien tesa. E così l’errore diviene impenitenza, la radice della dannazione. Ma chi si sa disperato non riesce a comprendere la sincerità del perdono; chi mai potrà perdonar quelle colpe? quale fiume di Grazia sarà così dirompente da spazzarle via? E allora ci s’illude che la coerenza con se stessi, il male fedele al male, possa essere titolo di merito al cospetto dell’Onnipotente! Ma questa è la stessa pretesa del potente che ordina il male al suo servo facendogli credere che sul suo capo non ricadrà alcuna colpa! L’orgoglio di Lucifero non si spegne neanche nel ghiaccio del Cocito. Quello che Francesco fa con Daniele, Carlo lo fa coi suoi masnadieri; i quali poi renderanno la pariglia al loro capitano. Schweizer (“svizzero”) diventa l’emblema stesso di questa fatale fedeltà alla Rivoluzione: lo stesso spirito ribelle dei Confederati, la stessa radicalità nel perseguire il proprio ideale. Se egli è l’altra faccia della masnada, il volto nobile che fa da contraltare a quello stravolto da un ghigno beffardo dello Spiegelberg, un terzo personaggio riconduce il capitano a casa: Kosinsky è colui che rinverdisce in Carlo la memoria di sé, delle proprie radici e d’un ancor incerto e confuso dovere, colui che lo lieva ai disvianti allettamenti della facile giustizia del mondo e lo volge nuovamente alla sua vera patria, al suo cielo, ad Amalia! Ma quanto è doloroso quel cielo! A quale scopo soffrir la vista delle sue truci stelle, se morire è tanto semplice? La tentazione di crederci irresponsabili dei nostri crimini, d’essere marionette agitate da un fato capriccioso è la via d’uscita più semplice, ma non vale a spegnere in noi il muggito del bue di Perillo, fragorosa metafora di quella compassione di tutto il dolore umano che fatalmente lacera le nostre coscienze. E da questa irriducibilità del nostro spirito a qualsivoglia forma di cinismo nasce il riconoscimento del nostro libero arbitrio, che ci chiama a non temer ciò che la morte ci riserva; e perché temere allora quel che ci riserva la vita? Carlo riscopre nel dolore non la pietà, ma l’orgoglio, e, alla vista del semianime padre, la vendetta. Fratricidio! Ecco il frutto più tremendo di quell’orgoglio che pretende di farsi come Dio! Ma, come commentò Hegel «questa vendetta privata può condurre solo al delitto, in quanto racchiude in sé il torto che vuole distruggere». Orgoglio disperato è anche quello che impedisce al fratello di trovar quell’umiltà che sola può rendere efficaci le sue preghiere. I sofismi, becero inganno del demonio, crollano dinanzi al potere della morte e al galoppo della Verità divina che fa irruzione come un ladro di notte tra le miserie umane. Francesco non è nemmeno riuscito ad uccider suo padre: non è l’immoralità a dare il colpo di grazia alla società moribonda, ma la Rivoluzione: la prima la lacera, la seconda la spegne. Relegare il passato tra i fantasmi, questo è ciò che Francesco può; ricacciar quei santi barlumi di bene che scintillano di quando in quando tra le tenebre della storia nella sentina delle vendette, degli odî, dei crimini che, come Francesco Massimiliano, uccisero dapprima i loro più antichi padri. La nostra sofferenza ha valore salvifico solo se essa viene offerta a Dio. Dalle sue piaghe solamente sgorga il nettare della nostra libertà. Solo bevendo quel nettare misto alle lagrime del mondo – le due lagrime d’Amalia nel vino – potremo tornar nella nostra Patria, per sola virtù della sofferenza di Cristo cui si dona la nostra. Ahi, Amalia piange un Carlo che più non è! Quello del suo ritratto, non quell’irriconoscibile Conte che le si presenta innanzi! Conte del rogo, non della palude! O sono forse i due la stessa persona? Solo un cuore amante riesce a vedere il bene che si cela al fondo dell’anima del reprobo; solo l’amore apre quegli occhi che la consuetudine col mondo crudelmente rinserra. E per Amalia soltanto Carlo è ancora quello d’un tempo, giacché tutto il male è accidentale, non esiste una creatura intrinsecamente cattiva: l’eroe resta tale anche quando si voltola nel fango, purché poi se ne rialzi e brandisca la sua spada. Solo chi è amato può pentirsi, giacché il pentimento richiede una dignità, che il peccatore incallito ha omai perduta. E così le calde braccia d’Amalia fanno sbocciare il fior delle lagrime sugli occhi di Carlo: le catene del mondo sono cadute, il meschino è libero! Non più empie parole di vendetta, ma sublimi detti di perdono! Non la giustizia degli uomini, ma quella di Dio, cui accorrere prontamente colla nostra libera volontà! E tale Giustizia si serve, pur superandola, di quella esercitata delle legittime istituzioni, non certo di quella di prometeici iracondi. Ma il dado è tratto, la masnada esige il suo tributo, Moor deve svuotare la coppa dell’infamia: uccidere Amalia, la Grazia, la Giustizia discesa sulla terra, è culmine e somma dei suoi delitti: ecco delibato il frutto della Rivoluzione! E al sommo peccato corrisponda, senz’ira alcuna, il sommo sacrificio, quello della vita. Egli uccise la giustizia, la giustizia lo condanni. Ed il suo dono giovi a quel popolo che lo ha tradito, quello stesso popolo carico d’ambizione, invidia e cupidigia che egli ha vessato: allo stesso modo Giuseppe pagò colle messi dell’Egitto il peccato degli altri undici figli di Giacobbe. Impiccati entrambi i fratelli, incendiato il mondo, la speranza dischiude ai miseri peccatori uno squarcio sull’Eternità.
Hoffnung (1798)
Es reden und träumen die Menschen viel
Von besseren künftigen Tagen,
Nach einem glücklichen goldenen Ziel
Sieht man sie rennen und jagen,
Die Welt wird alt und wird wieder jung,
Doch der Mensch hofft immer Verbesserung!
Die Hoffnung führt ihn ins Leben ein,
Sie umflattert den fröhlichen Knaben,
Den Jüngling begeistert sein Zauberschein,
Sie wird mit dem Greis nicht begraben,
Denn beschliesst er im Grabe den müden Lauf,
Noch am Grabe pflanzt er – die Hoffnung auf.
Es ist kein leerer schmeichelnder Wahn,
Erzeugt im Gehirne der Toren.
Im Herzen kündet es laut sich an,
Zu was besserem sind wir geboren,
Und was die innere Stimme spricht,
Das täuscht die hoffende Seele nicht.
Speranza
Molto gli uomini discorrono e sognano di futuri giorni migliori; dietro una beata meta dorata puoi vederli correre e cacciare; il mondo invecchierà e ringiovanirà, ma l’uomo spererà sempre in un miglioramento! La speranza ci conduce alla vita, svolazza d’intorno al gajo fanciullo, il suo magico bagliore incanta il giovinetto, non verrà seppellita col vegliardo, poiché egli conclude nella tomba la sfiancata corsa, ma nella tomba pianta la speranza. Ciò non è una vana follia lusinghiera spuntata nel cervello dei pazzi. Nel cuore è annunziato ad alta voce che per qualcosa di meglio siamo nati e quello che ci dice la voce interiore non è un’allucinazione dell’anima speranzosa.
Prima parte: https://www.radiospada.org/2019/10/mattia-spaggiari-i-masnadieri-di-schiller/
Parte seconda: https://www.radiospada.org/2019/10/mattia-spaggiari-i-masnadieri-di-schiller-seconda-parte/