Di Attilio Sodi Russotto

Con l’uscita nelle sale, nel 2008, di Gran Torino, veniva a concludersi la realizzazione di un trittico di film, iniziato nel 2003 con Mystic River e proseguito l’anno successivo con Million Dollar Baby, ritenuto da molteplici voci la vetta artistica più alta raggiunta dall’immarcescibile Clint “Dirty Harry” Eastwood.

Non sono solo però l’esecuzione stilistica ed il pressoché unanime consenso della critica ad unire i tre menzionati capolavori. Mystic River, Million Dollar Baby e Gran Torino compongono infatti una sorta di “trilogia morale”, nella quale ad ognuno dei film è associata l’analisi dura e toccante di una importante tematica di carattere etico e delle drammatiche conseguenze che, nella lacerata società statunitense, a tale tematica si accompagnano. Se infatti l’orrore della pedofilia è al centro delle crude vicende tratteggiate da Mystic River, se il dramma dell’eutanasia è trattato con dolore in Million Dollar Baby, le controversie legate ad una difficile integrazione razziale costituiscono il nerbo della trama di Gran Torino.

In questo contesto tematico, ritengo interessante focalizzarmi sul come la figura del Sacerdote, in due di questi tre lungometraggi, costituisca un aspetto pivotale ai fini dello sviluppo della vicenda, in senso però diametralmente opposto. Concentriamoci quindi, rispettivamente, sul secondo e terzo capitolo di questa “trilogia”.

Million Dollar Baby, interpretato dallo stesso Eastwood, dal veterano Morgan Freeman e dalla giovane Hilary Swank, ricoperto (giustamente) di gloria agli Academy (ben quattro Oscar vinti: Miglior Film, Miglior Regia, Migliore Attrice Protagonista a Swank e Miglior Attore Non Protagonista a Freeman), segue l’effimera ascesa e la tragica caduta della pugile Margaret “Maggie” Fitzgerald, ruolo eseguito con grande intensità fisica dalla Swank, e del suo vecchio e disilluso allenatore, Frankie Dunn, impersonato da Eastwood. Superate le perplessità dell’anziano coach nell’avviare una donna alla cruda arte della boxe, e mostrato la ragazza un sopraffino quanto inaspettato talento, il sogno della giovane si infrange alle porte del professionismo: in seguito ad un incidente sul ring, Maggie rimane infatti tetraplegica, e si trova, abbandonata dall’avidità della sua stessa famiglia, ad implorare l’eutanasia all’unica persona che le rimane pervicacemente a fianco, ossia il vecchio Dunn.

Di origini irlandesi, il vecchio Dunn è mostrato come un Cattolico praticante, dal carattere rude e schivo, che nella sua semplicità ama tempestare il proprio parroco di domande di carattere dogmatico, cercando di capirne qualcosa di più. Il parroco di Dunn è, invece, un uomo dall’indole ostentatamente estroversa, perennemente impegnato in vuote chiacchiere e grandi sorrisi con i parrocchiani fin dall’uscita della Messa, capace però anche di snobbare sistematicamente le ingenue ma sincere richieste di chiarimento di Dunn, mostrandosene quasi infastidito. Dispiegatosi il dramma della povera Margaret, in una delle scene più dolorose di tutto il film, il Sacerdote viene interpellato da un Frankie disperato, lacerato internamente fra il desiderio di esaudire per compassione la richiesta della sua amata protetta e la consapevolezza del rifiuto Cattolico della pratica eutanasica.

Invece che ascoltare con vicinanza, partecipazione e paternità spirituale il dramma del suo parrocchiano, guidarlo in un così difficile frangente della vita, e fargli capire come anche una vita devastata come quella di Margaret potesse essere preziosa agli occhi di Dio, recandosi, magari, anche a conferire con la stessa inferma nel tentativo di guarirne almeno le ferite spirituali, frettolosamente e sbrigativamente liquida il suo parrocchiano, ammonendolo in modo generico, quasi schernendolo per i suoi passati dubbi teologici e per la sua assidua pratica religiosa (“ti ho visto a Messa ogni giorno per 23 anni… lascia perdere il cielo e l’inferno”), per poi abbandonare, dopo neanche due minuti di colloquio, Dunn, ed indirettamente anche Maggie, allo straziante finale che travolgerà entrambi.

Diametralmente opposto è invece l’atteggiamento del giovane prete irlandese, parroco del rude reduce polacco Walt Kowalski in Gran Torino. Per essere più corretti, dovremmo parlare del parroco della defunta moglie di Walt Kowalski, essendo egli un ruvido anticlericale, lontano dalla Chiesa e da Dio da molto tempo. Pur essendo fieramente razzista, Walt prende sotto la sua protezione un ragazzo asiatico e sua sorella, tormentati da una gang di criminali connazionali che imperversano nel quartiere, decidendo di difendere i due ragazzi, fino alle estreme conseguenze.

Sin dalle prime scene il Sacerdote, dai capelli rossi e dal cuore grande, cerca di stabilire un rapporto con l’anziano Kowalski, forse uno dei ruoli più profondi e sfaccettati interpretati da Eastwood, venendo sistematicamente messo alla porta. La testarda determinazione del Sacerdote fa però gradualmente breccia nel cuore del vecchio, che, dopo aver effettivamente instaurato un dialogo con il prete, lascerà che la Fede torni a riempire il suo cuore. Dopo un’ultima, toccante, Confessione, la prima dopo moltissimi anni per ammissione dello stesso penitente, il prete proverà a dissuadere Walt da propositi vendicativi, sottostimando la profondità con cui la sua dedizione sacerdotale e la sua amorevole vicinanza, assidua ma mai invadente, avevano fatto attecchire la pace di Dio nell’anima del suo parrocchiano. Non era infatti una sanguinosa vendetta ciò a cui Walt aveva fatto tacito cenno, uscendo dal confessionale, con quel sibillino “vado in pace”, ma la volontà di sacrificare la sua stessa vita per la giustizia. Walt Kowalski, poco dopo quella confessione finale, si farà infatti volontariamente uccidere, disarmato e riconciliato con Dio, per mettere finalmente al sicuro i suoi vulnerabili amici, mormorando, nell’ultimo respiro della vita terrena, le soavi parole dell’Ave Maria.

Due parroci, quindi, due parrocchiani caratterialmente sovrapponibili, ma due destini spiritualmente opposta: in due film, dunque, il fondamentale ruolo cattolico della predicazione sacerdotale, e della considerazione che i preti stessi mantengono della propria, alta, missione.

“Tu es sacerdos in aeternum, secundum ordinem Melchisedech.” (Salmo 110).