di don Mauro Tranquillo FSSPX
La Tradizione Cattolica, Anno XXX – n°2 (110) – 2019, pp. 6-16.

1. Professione di fede e sacramenti

«Omnia sacramenta sunt quaedam fidei protestationes» [1] : così afferma san Tommaso parlando della Cresima. Tutti i sacramenti sono delle professioni di fede, concetto compreso nella nozione stessa di “segno” che utilizziamo per definirli. Ciò che è segno, dunque visibile, è sempre manifestazione esterna di qualcosa che avviene all’interno del soggetto significante (almeno nella misura in cui è sincero). Certo i sacramenti sono definiti come segni della grazia: significandola, la producono, come insegna il Concilio di Trento. Ma da parte di colui che pone il segno, sono anche una manifestazione di fede. Non sono certo, come pensava Lutero, solamente dei segni della fede: ma questo non esclude che siano anche dei segni della fede. Si dovrebbe perfino dire che, se un sacramento è causa della grazia in colui che lo riceve, è segno della fede per tutti quelli che vi prendono attivamente parte, sia come ministri, sia come assistenti attivi. Questo è così vero che abbiamo un carattere sacramentale destinato precisamente a conferirci il potere di prendere parte attiva ai sacramenti e al culto della Chiesa proprio sotto il loro aspetto formale di professione della fede: si tratta naturalmente del carattere della Cresima. Se il Battesimo conferisce il potere passivo di ricevere gli altri sacramenti in quanto tali, e l’Ordine il potere attivo di essere ministri dei sacramenti e del culto in quanto tali in modo attivo, la Cresima ci permette di partecipare attivamente ai sacramenti in quanto sono professione pubblica di fede. A nostro avviso è questa la dimostrazione più alta di questo aspetto dei sacramenti e del culto: uno dei sacramenti istituiti da Nostro Signore dà un carattere che ha per oggetto la professione pubblica delle fede primo et per se nei sacramenti. Gli altri doni che la Cresima conferisce per professare pubblicamente la fede nelle varie circostanze della vita saranno un’amplificazione dell’aspetto cultuale, che rimane primo e principale: l’atto supremo della fortezza, il dono più caratteristico della Cresima, è in effetti il martirio, che è in un certo senso l’unione suprema alla vittima che si offre nella Messa (e del resto è questo che è simbolicamente rappresentato dalle reliquie dei martiri presenti in ogni altare consacrato).
I sacramenti sono in se stessi la professione più perfetta e ufficiale della fede cattolica, anche qualora fosse ridotti alla loro più semplice espressione di materia e forma senza altri riti di istituzione ecclesiastica. Un adulto che ricevesse un battesimo con la semplice materia e forma per estrema necessità, proclamerebbe così in modo del tutto pubblico e ufficiale la sua adesione alla fede cattolica. Le altre cerimonie di tradizione apostolica o ecclesiastica serviranno ad esprimere il più chiaramente possibile questa fede, anche a livello didattico, e ad inserire il sacramento in un contesto gerarchico e sociale, oltre allo scopo di maggiore riverenza per i misteri che si compiono: i riti sono molto utili a disporre le anime a una buona ricezione della grazia [2]. Questo ci porta al cuore della questione che vogliamo trattare riguardo alla nuova liturgia, anche se e quando consideriamo i nuovi riti come sacramentalmente validi [3]: a quali condizioni un sacramento validamente conferito può non essere più considerato una professione pubblica della vera fede? Se esistono degli ostacoli alla ricezione della grazia prodotta dai segni sacramentali, al punto che posso esserci sacramenti validi ma infruttuosi, ci saranno anche degli ostacoli a quest’altro aspetto dei riti sacramentali che è la professione pubblica di fede.

2. La nozione del sospetto di eresia e i peccati contro la professione di fede

Dobbiamo innanzitutto dare una nozione teologica e morale che ci servirà in questa esposizione. Si tratta della nozione di sospetto di eresia, usata generalmente nel suo senso canonico, ma fondata su una base morale di diritto divino. Se l’eresia è la negazione dei dogmi fatta con pertinacia, il sospetto di eresia è la conseguenza di atti contro la professione esterna della fede, che senza essere una negazione diretta delle verità rivelate, sono comunque difficili da spiegare senza uno spirito che si allontana già dal credo della Chiesa. È una conseguenza del precetto negativo della professione di fede, cioè di quello che ci impedisce di negare o sembrare negare la fede, che vale semper et pro semper (il precetto positivo, cioè quello che ci impone di affermare la fede, vale semper sed non pro semper: cioè non si è obbligati a porre costantemente atti di fede esterna, ma solo quando necessario o opportuno). Si può definire il sospetto di eresia come la qualità di coloro che «ob loquendi et agendi modum ideoque ex indiciis et coniecturis validis, alii prudenter timent haeresim confiteri» [4]. Il peccato contro la professione di fede non è solamente la sua negazione diretta, né solamente il mettersi in pericolo di perderla internamente, ma anche ogni azione esterna o parola che possa far dubitare che abbiamo la vera fede. Si tratta, come si sarà capito, di un peccato di ambiguità nella professione di fede. Se il diritto canonico elenca un certo numero di queste situazioni, alle quali sono legati delle conseguenze disciplinari, questi potranno essere presi come esempi di una specie che è anzitutto di ordine morale. Il sospetto (suspicio) potrà dunque essere levis, violenta o vehemens, a seconda che l’azione posta conduca più o meno da vicino a dubitare della fede del sospettato. Richiede per diritto naturale una riparazione che chiarisca, in modo proporzionato, la fede del sospetto. L’antico diritto prevedeva questa purgazione dal sospetto davanti al vescovo o con diverse procedure, ma tutto era fondato su una necessità di diritto divino. Il codice del 1917 prevedeva otto casi di sospetto a jure, il primo e più evidente dei quali era quello descritto nel canone 1236: è sospetto di eresia chi con lo scritto, il denaro o l’omissione (quoquo modo, in qualsiasi modo), «aiuta la propagazione dell’eresia, o chi comunica in divinis con gli eretici contro le prescrizioni del canone 1258» [5]. Quindi la partecipazione attiva a delle funzioni dove si professa l’eresia è una manifestazione almeno esterna di accettazione dei contenuti dei riti stessi, e un’accettazione esterna ne lascia sempre supporre una interna, almeno fino a prova del contrario. Poco importa se questa accettazione anche interiore esiste davvero: il peccato di cui parliamo è già consumato con l’accettazione esterna dei segni non cattolici. Poco importa, per il caso della nuova messa che stiamo per considerare, se il canone si possa applicare alla lettera al problema del novus ordo: questo perché ci poniamo dal punto di vista morale, che trova nei casi elencati dal diritto una semplice esemplificazione. Noi li abbiamo considerati per avere un termine di paragone analogicamente valido, definito dalla Chiesa stessa nel suo diritto, sulla relazione tra professione di fede, peccato contro la fede e partecipazione a delle cerimonie del culto.

3. L’ostacolo alla professione di fede in un sacramento validamente amministrato

Se dunque cerchiamo i modi in cui un sacramento valido potrebbe non essere più una professione di fede cattolica, dovremo ovviamente escludere la questione dell’infruttuosità derivante da un obex (ostacolo) che si trovasse nella persona che riceve il sacramento e non dai riti stessi: un sacramento anche valido e lecito non darebbe la grazia a chi lo ricevesse senza le disposizioni dovute (per esempio un adulto che riceva il battesimo senza contrizione dei suoi peccati). Questo caso al massimo ci può fornire dei termini analogici di confronto. Quanto al problema delle disposizioni personali del ministro, va scartata ogni forma di donatismo: non possono entrare in considerazioni le disposizioni personali del celebrante, nemmeno quanto alla professione di fede. Un ministro personalmente eretico, ma che non manifesta la sua eresia nel contesto della celebrazione, e che la Chiesa non ha (ancora) riprovato, può a tutti gli effetti celebrare un sacramento valido e lecito, che resta per questo una vera professione della fede cattolica. San Tommaso in effetti ci ricorda [6] che si ricevono i sacramenti da un ministro della Chiesa «non in quantum est talis persona, sed in quantum est Ecclesiae minister. Et ideo, quandiu ab Ecclesia toleratur in ministerio, ille qui ab eo suscipit sacramentum, non communicat peccato eius, sed communicat Ecclesiae, qui eum tamquam ministrum exhibet. Si vero ab Ecclesia non toleretur, puta cum degradatur vel excommunicatur vel suspenditur, peccat qui ab eo recipit sacramentum, quia communicat peccato ipsius» [7]. Esclusi questi due aspetti, che esulano dal nostro problema, possiamo trattenere ciò che ci è utile a determinare i termini del nostro ragionamento: tra l’altro ci servirà a capire esattamente quali sono le ragioni del nostro rifiuto dei sacramenti, anche amministrati in rito tradizionale, in certe circostanze: non potrà essere in ragione della fede professata abitualmente dal celebrante “modernista”, che resta (in questi tempi calamitosi) un ministro della Chiesa, visto che a causa della crisi dell’autorità ecclesiastica gli eretici rimangono nei loro posti gerarchici. Si vedrà che le nostre ragioni vanno cercate altrove e che sono – se possibile – anche più radicali. Un rito sacramentalmente valido può dunque perdere di efficacia in quanto alla professione della fede in quattro modi:

a. Modificando i riti accessori (cioè quelli che non toccano la materia e la forma, o non le invalidano) in modo da non manifestare più ciò che si realizza nel sacramento stesso, o in generale la fede della Chiesa. Questo può avvenire in tre modi: 1) quando i segni di istituzione apostolica o ecclesiastica sono profondamente manipolati, o interamente sostituiti da altri, anche a prescindere dal loro significato: in effetti questo è già un segno di rottura con la Tradizione, e della volontà di iniziare una nuova e diversa Chiesa. A questo proposito Giovanni di Torquemada e Suarez dicono che il peccato di scisma può manifestarsi nel Papa che «volesse sovvertire tutte le cerimonie confermate dalla tradizione apostolica» [8]; 2) con una modificazione dei segni accessori che manifesti errori contro la fede, o un’ambiguità tale che la professione di fede ne sia compromessa (approfondiremo questo aspetto); 3) con i due modi precedenti combinati insieme. Beninteso una legge liturgica universale, debitamente promulgata dall’autorità suprema, sarebbe protetta da queste possibilità dall’infallibilità delle leggi universali [9]. Queste due (tre) modalità possono trovarsi sia che il ministro sia ancora canonicamente considerato come cattolico, sia che si trovi fuori dalla Chiesa.

b. Per la presenza di un celebrante irregolare, rigettato dalla Chiesa, anche quando celebrasse un rito di per sé cattolico. Se il celebrante è rigettato dalla Chiesa per delle colpe disciplinari, l’assistenza alla Messa sarà una colpa di disobbedienza, che potrebbe però configurarsi come sospetta di eresia, soprattutto se la cosa diventasse abituale; se il celebrante è stato rigettato per eresia o scisma, ci sarà chiaramente sempre colpa diretta contro la professione di fede e l’unità della Chiesa nell’assistenza cosciente alla sua Messa. Quest’ultimo caso è specificamente l’oggetto delle risposte di Pio VI sull’assistenza alla Messa e alle altre azioni di culto dei preti jureurs o intrusi durante la Rivoluzione francese, che ci dànno delle indicazioni molto preziose che commenteremo più avanti.

c. C’è ancora il caso di un rito cattolico celebrato da un ministro cattolico, ma dove delle circostanze estrinseche al rito stesso (purché moralmente non trascurabili) andranno concretamente ad interferire con la professione pubblica di fede in una situazione particolare. Questo può capitare con la predicazione eretica o sospetta di eresia, alla quale non è lecito esporsi consapevolmente; o anche per delle condizioni poste dall’esterno alla celebrazione o ai presenti, senza l’accettazione delle quali la cerimonia non avrebbe luogo. Per fare un esempio passato (che ci mostri che non sono casi fabbricati ad arte per la nostra argomentazione attuale), si può pensare al caso delle cerimonie di ringraziamento organizzate nelle chiese durante l’invasione degli Stati della Chiesa o di altri stati legittimi da parte degli eserciti rivoluzionari, con la complicità del clero liberale: un cattolico non poteva prendere parte a simili cerimonie senza peccare e diventare sospetto di eresia, benché fossero celebrate da ministri ancora considerati come cattolici e nei riti abituali. Vedremo come questo caso si applichi all’indulto del 1984 e anche al motu proprio di Benedetto XVI.

4. Il caso specifico della nuova messa

Dobbiamo ora cercare di applicare questi concetti alla nuova messa di Paolo VI. Naturalmente il nostro punto di partenza è la lettere al Papa che introduce il Breve esame critico, firmata dai Cardinali Ottaviani e Bacci nel 1969: «il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino». I due Cardinali, che chiedono di poter mantenere l’antico rito, pongono immediatamente la questione della professione della fede, della sua espressione. È molto interessante notare che sottolineano come l’allontanamento dalla dottrina sia sufficiente a spiegare la loro reazione: in effetti allontanamento è diverso da negazione. Ma si è anche raramente notato come tale allontanamento sia frutto di «elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati»: cioè il rifiuto può essere motivato anche solo dalla difficoltà di dare un’interpretazione univocamente cattolica ai nuovi elementi, o dal fatto stesso che siano suscettibili di diverse interpretazioni possibili. Si vede così che nemmeno l’ambiguità è ammissibile in quel che riguarda la professione di fede, soprattutto in un contesto (quello del culto) in cui si ha il dovere positivo di porre un atto di fede esterno. Questa suscettibilità a diverse interpretazioni (occorre dire, anche nel senso teatrale del termine [10]) produce due generi di nuova messa: quella che è “solamente” ambigua e quella che è una franca negazione dei dogmi. Per fare un esempio elementare, è difficile dire che una messa in cui la comunione è distribuita dai dei laici sia solamente ambigua [11]: tra le interpretazioni ufficialmente ammesse, ce ne sono diverse che non possono in alcun modo essere lette in chiave cattolica.
Non vogliamo qui insistere sulle deficienze della nuova messa a livello dell’espressione della fede, che sono state più volte ampiamente trattate a partire dal fondamentale Breve esame critico. Vogliamo invece soffermarci sulla specie morale dell’assistenza alla nuova messa, in funzione di quanto abbiamo detto finora. Ovviamente ci riferiremo alla materia morale dell’atto, non alla sua imputabilità soggettiva. Occorre dire innanzitutto che ci sono – ordinariamente – due casi possibili, benché moralmente (come vedremo) equivalenti: quello della versione della nuova messa che esprime in modo ambiguo la fede, e quella che la nega direttamente. Li distinguiamo comunque perché non si può, trattandosi di morale, attenersi a un modello astratto della nuova messa, le cui prescrizioni sono previste per diverse interpretazioni possibili: ciò non è accidentale ai nuovi libri liturgici, ma essenziale. Il primo caso (la “semplice” ambiguità”) è reso dunque ancora più grave nella sua ambivalenza per la sua assimilazione al secondo, poiché le due versioni restano due interpretazioni del medesimo libro di base. È chiaro, dopo quanto detto sopra, che in entrambi i casi ci sarà peccato contro la professione pubblica della fede nel momento più solenne e ufficiale possibile, quello del culto. La mancanza di chiarezza in effetti è un peccato della stessa specie della negazione diretta, soprattutto quando c’è un dovere positivo e specifico di porre un atto pubblico di fede. La partecipazione attiva a un tale culto sarà quindi sospetta di eresia per diritto divino, al di là di qualsiasi disposizione di autentica fede che si possa conservare nell’interno dell’anima. L’altro peccato contro la fede, nell’assistenza ai nuovi riti, sarà quello tante volte denunciato dal nostro Fondatore: ci si mette nell’occasione prossima di perdere la fede, anche internamente, ci si espone senza ragione a un pericolo prossimo di peccato. Certo sotto questo aspetto la reiterazione dell’atto potrà aumentare la gravità del pericolo. Potrebbe anche pensarsi che una partecipazione occasionale rappresenti, sotto questo aspetto e per alcuni, solo un peccato veniale, perché il rischio di perdere internamente la fede sarebbe minimo. Ma noi sottolineiamo bene sotto questo aspetto: perché ci sembra prioritario insistere, anche nella catechesi e nella predicazione, sulla colpa contro la professione esterna della fede, che è sempre presente anche per una sola occasionale presenza attiva. Quanto alla presenza passiva, questa è possibile alle condizioni ben note, per analogia con la partecipazione alle cerimonie a-cattoliche, come spiegava Mons. Lefebvre: queste condizioni si possono ricondurre ai casi che rendono necessaria un’occasione prossima di peccato che era fino a quel momento volontaria [12]. Questo richiede quindi una ragione fondata che sia esterna al rito stesso (tipicamente, la cortesia che richiede di essere presenti a cerimonie come matrimoni, funerali, etc.). Una presenza passiva dettata invece, per esempio, da pura curiosità, sarebbe a nostro avviso peccato veniale, purché sia escluso lo scandalo e il pericolo di perversione della fede.
Abbiamo volontariamente trattato solo le questioni morali legate alla fede, ma facciamo notare che andrebbero messe in conto anche altre specie, quali il sacrilegio (contro la religione), così comune nella nuova messa, e lo scandalo (contro la carità).

5. Pericoli contro la fede in alcune messe tradizionali

Dobbiamo ora considerare il caso delle Messe celebrate in rito cattolico da un ministro riconosciuto dalla Chiesa, ma alle quali sono state legate delle circostanze che mettono ostacolo alla professione di fede. In questo caso ci sarà un elemento esterno al rito stesso, ma moralmente determinante. Un primo caso è quello della predicazione eretica o pericolosa nel corso di una cerimonia cattolica. Non sarà logicamente lecito frequentare tali cerimonie, per non esporsi a un pericolo. Un discorso analogo (benché estraneo alla materia della fede) potrebbe esser fatto per altri pericoli per l’anima che fossero legati all’assistenza alla Messa in certe circostanze. Non sono questi casi che tratterranno la nostra attenzione. Abbiamo visto che un rito è destinato a significare la fede. Ma ogni significazione nasce da una convenzione, e nella convenzione è fondamentale il ruolo dell’autorità che gestisce la società all’interno della quale una convenzione è riconosciuta, e non può essere ignorato. La Messa tridentina è stata promulgata da san Pio V, confermando le verità insegnate dai suoi predecessori e da dei gesti che la Chiesa Romana aveva storicamente e tradizionalmente caricato di precisi e chiari significati. Nel 1984 l’indulto di Giovanni Paolo II ammetteva la Messa tridentina alle esplicite condizioni dell’accettazione del concilio e della nuova messa. Tali condizioni erano ovviamente inaccettabili a una coscienza cattolica, ma restavano esterne alla significazione stessa del rito: era al soggetto richiedente la Messa tridentina che era imposto di conformarsi a delle credenze che contraddicevano ciò che domandava. Con il motu proprio di Benedetto XVI del 2007, i due riti sono assimilati come due forme (ordinaria e straordinaria) di un unico rito, e l’istruzione Universae Ecclesiae (nn.6-7) precisa chiaramente che si tratta di due forme equivalenti. Si potrebbe tentare di ricondurre tutto alla significazione oggettiva dei due riti, obiettando che comunque i gesti e le parole delle due forme restano spesso in evidente contraddizione (si pensi solo, per fare un esempio elementare, alla comunione nelle mani in opposizione alle dita chiuse del celebrante dopo la consacrazione). Si potrebbero anche obiettare le definizioni opposte del Concilio di Trento e dell’Introduzione generale del nuovo messale (che mentre dà definizioni eretiche della Messa e del sacerdozio si presenta come «testimonianza di una fede immutata»). Per quanto vere siano queste cose, non si può ignorare il fatto che con il motu proprio l’autorità ha preteso imporre alla Messa tradizionale lo stesso significato della nuova, e bisogna fare i conti con questo nuovo modus significandi che un’autorità riconosciuta ha imposto a dei gesti e a delle parole che convenzionalmente avevano un altro senso. Ci si può chiedere come una simile pretesa possa reggere. Questo è possibile solo se ci mettiamo da un punto di vista modernista, e ammettiamo l’unico significato possibile di una tale concezione: che i due riti non significano niente di reale, ma che sono la testimonianza equivalente di una fede modernisticamente intesa, dove l’oggetto non ha più importanza e ogni forma religiosa è buona se conduce a un’esperienza di “fede”. Questo significa che almeno quando il motu proprio è esplicitamente applicato, si avrà a che fare a una celebrazione in cui i gesti della Messa tridentina sono oggettivamente svuotati di ogni significato. Questo vuol dire anche che ogni celebrazione fatta riconoscendo, come è dovuto, l’autorità in carica [13], dovrà anche prendere le distanze in modo esplicito da una concezione che l’autorità stessa vorrebbe legare al rito tridentino. Per quanto ingiustificata sia l’operazione di Ratzinger, essa rimane un problema presente con cui confrontarsi. In questo quadro ogni celebrazione ufficialmente presentata secondo i termini del motu proprio sarà, a nostro avviso, altrettanto inaccettabile della nuova messa, e per le stesse ragioni. L’operazione, chiaramente ratzingeriana, mantiene delle formule e delle forme cattoliche vuotandole del loro senso per trovarne uno nuovo, adatto alle nuove circostanze. Il rito tridentino è così ridotto a una questione puramente estetica, perché non può avere un significato che gli sia proprio, e diventa dunque una cerimonia piacevole ma vuota di senso, che non è più fonte di divisione e di pericolo. Si applica alla Messa ciò che è stato fatto per la religione tutta intera, si potrebbe dire per le religioni. D’altronde, anche se non fosse così, la frequentazione abituale o peggio esclusiva delle messe concesse secondo la lettera o lo spirito del motu proprio, è essa stessa una professione pubblica ed esteriore di una certa concezione della Chiesa, della dottrina, del Concilio, della Messa stessa: una concezione chiaramente sospetta di eresia.

6. Le conclusioni pratiche di Papa Pio VI

A guisa di conclusione, ci pare utile riprendere le direttive pratiche che Pio VI [14] dava per le relazioni con il clero giurato o intruso durante la rivoluzione. Ovviamente in senso stretto queste indicazioni riguardano il caso del rito cattolico celebrato da clero acattolico, ma per analogia ci danno degli elementi che sono buoni anche per la nuova messa e la messa del motu proprio, poiché sono fondati sullo stesso principio del sospetto di eresia conseguente alla communicatio in sacris. Le risposte del Papa precisano che è proibito ai fedeli, per non cadere in quel tipo di comunicazione, porre numerosi atti: sono proibiti l’assistenza alla Messa anche nei giorni di precetto, ai vespri e a qualsiasi altra preghiera pubblica, la ricezione di tutti i sacramenti tranne il battesimo in caso di estrema necessità, se non c’è nessun’altra persona capace di battezzare [15]. Ugualmente è proibito di essere padrino al battesimo amministrato dai preti giurati e dai parroci intrusi, perché con queste azioni il cattolico coopera allo scisma, anzi con il suo agire approva il delitto di scisma («catholicus cooperatur in schismate; immo schismatis crimen ipso suo facto approbat»). Non si disapprova l’idea dell’assoluzione data in punto di morte da un prete acattolico. La questione più interessante è quella data al n. 11: si chiede al Papa se i fedeli debbano genuflettere davanti alle ostie consacrate dagli acattolici (in un tempo in cui il Viatico passava pubblicamente per le strade, era normale per tutti inginocchiarsi al passaggio). Si tocca direttamente al rapporto tra professione di fede e validità dei sacramenti. La risposta è che i fedeli dovrebbero in effetti genuflettere, perché c’è presenza reale, ma si aggiunge: «Ne vero in eiusmodi cultum praestando immiscere se videantur catholici cum schismaticis, curabunt iidem catholici occasiones declinare occursus schismaticorum, cum sacramentum deferunt» [16]. Occasiones devitare: bisogna evitare ad ogni costo di dare anche solo l’impressione di essere associati al culto acattolico. Figuriamoci se si può considerare lecito il comunicare ad ostie consacrate in un rito non cattolico, fosse anche nel corso di una Messa tradizionale, o il mostrarsi in pubblica adorazione davanti alle medesime specie consacrate [17]. Tutto il discorso del milieu, che il nostro Fondatore faceva per le Messe d’indulto, ritorna qui in tutta la sua profondità: anche se si va a un rito in sé tradizionale, bisogna considerare tutta la situazione cultuale nell’integrità delle sue circostanze, perché tutte insieme esse significano qualcosa e contengono un’adesione, o un’apparenza di adesione (il che, in questa materia, è lo stesso) a un significato. Frequentando un preciso ambiente, nel momento della professione pubblica di fede, non metto solo in pericolo le mie convinzioni, ma faccio segno e scelta di aderire almeno esternamente a ciò che tutto lo scenario vuole rappresentare. Il criterio di diritto divino che regola tutta la materia è dunque quello di fuggire anche il sospetto di non aderire di tutto cuore alla vera fede, o di non condannare fermamente tutti gli errori. Il nostro atteggiamento circa la nuova messa e il nuovo culto non può distaccarsi da questo principio. Altrimenti, soprattutto in seguito al motu proprio e alle sue seduzioni, la Messa tridentina cesserebbe di essere la bandiera di ciò che crediamo per diventare il rito insignificante che anche i modernisti più scatenati possono accettare di celebrare. La nostra posizione deve essere quella di un netto rifiuto del nuovo culto, rifiuto che dà il suo vero senso e l’unico valido significato al nostra attaccamento all’antica Messa.


[1] Summa Theologiae, III q.72 art. 5 ad 2um
[2] Cfr Conc. Trid, sess. VII, can. 13 (DS 1613)
[3] Non vogliamo in questo articolo affermare che i nuovi riti siano sempre o comunque validi, ben sapendo che esistono casi di forte dubbio o di palese invalidità, a partire dalle problematiche a riguardo sottolineate dal Breve esame critico. Tuttavia il ragionamento che stiamo seguendo precede il problema stesso della validità, e conduce a conclusioni che valgono anche se questi nuovi riti fossero sempre e comunque sacramentalmente validi.
[4] «…per il modo di parlare ed agire, e quindi per validi indizi e congetture, si teme ragionevolmente che professino l’eresia». Vedi Palazzini, Dictionarium morale et canonicum, vol. IV – Romae, Officium libri catholici, 1968
[5] Sono sospetti di eresia secondo il codice anche coloro che si sposano con il patto di educare tutti o alcuni dei loro figli fuori dalla fede cattolica; quelli che affidano l’educazione dei figli agli acattolici; quelli che fanno battezzare i figli da ministri non cattolici; quelli che profanano le specie consacrate; quelli che fanno appello al Concilio ecumenico contro una decisione del Sommo Pontefice; quelli che si induriscono nella scomunica per più di un anno; quelli che praticano la simonia nell’amministrazione dei sacramenti. Si aggiungono per una decisione del Sant’Uffizio del 1926 coloro che fanno seppellire da un ministro non cattolico i defunti privati della sepoltura ecclesiastica. Le pene per i sospetti di eresia sono le stesse che per gli eretici, dopo le dovute monizioni.
[6] Summa Theologiae, III q. 64 artt. 5, 6 e 9: «non in quanto è tale persona, ma in quanto è ministro della Chiesa. E perciò, finché è tollerato dalla Chiesa nel ministero, colui che riceve da lui il sacramento, non comunica al suo peccato, ma comunica con la Chiesa, che lo propone come ministro. Se però non è tollerato dalla Chiesa, per esempio perché degradato o scomunicato o sospeso, pecca chi riceve da lui il sacramento, perché comunica al suo peccato».
[7] Ibidem art. 6 ad 2um
[8] Juan de Torquemada, Summa de Ecclesia I, lib. 4, cap.11; Suarez, De caritate, disputatio 12, sectio 1 § 2
[9] Pur non essendo questo l’oggetto del presente articolo, accenniamo al fatto che non possia mo considerare il Messale di Paolo VI una “legge liturgica universale”, investita di autorità magisteriale, alla stregua delle liturgiche precedenti: l’infallibilità non è quindi in questione.
[10] Questa annotazione va presa sul serio: la nuova messa è concepita nel filone interpretazionista della filosofia moderna, capitolo del soggettivismo razionalista, che vede nella conoscenza una semplice interpretazione della realtà fondata su una pratica e senza dati oggettivi alla base. La parola ha unicamente per oggetto l’intenzione operativa del sentimento e della volontà, la persuasione. Produce necessariamente l’illusione, non avendo la realtà come specchio. Appare chiaro il legame di queste concezioni, che in ultima analisi ci riconducono a Lutero e Spinoza, con il modernismo.
[11] Abbiamo fatto questo esempio perché sembra andare direttamente contro la definizione del Concilio di Trento: «Hoc autem ab eodem Domino Salvatore nostro institutum esse, atque apostolis, eorumque successoribus in sacerdotio potestatem traditam consecrandi, offerendi et ministrandi corpus et sanguinem eius» (DS 1764)
[12] La presenza passiva è quella in cui non si compie alcun segno esterno di culto, si è solo fisicamente presenti, senza rispondere o cantare o fare gesti. In questo caso l’atto diventa moralmente neutrale quanto alla professione di fede, e quanto all’esposizione al pericolo essa diventa lecita per motivi ragionevoli (vedi sopra). Si presuppone sempre escluso lo scandalo, cioè il fatto che anche la semplice presenza passiva possa essere interpretata come approvazione in circostanze particolari.
[13] Quanto all’inane obiezione, recentemente tornata di moda, che nominare il Pontefice alla Messa sia condividerne gli errori, essa cade completamente quando da tali errori si prendono esplicitamente le distanze. Non si capisce come possa accettare gli errori di una persona, fosse anche un’autorità, chi questi errori esplicitamente condanna, distinguendo il ruolo rivestito dalle dottrine erronee diffuse dalla persona avente autorità. Occorre e nominare il Pontefice, e rigettarne chiaramente le impostazioni moderniste, per mostrare una posizione in tutto coerente con la fede.
[14] Cfr nota 7
[15] Sono proibiti anche il matrimonio, che si dovrà celebrare solo davanti a due testimoni, e anche l’assoluzione: in effetti il precetto della professione della fede è superiore anche alla necessità della confessione. Anche in caso di pericolo di morte sarebbe illecito rivolgersi a un ministro acattolico, se questo implicasse una qualche adesione alla di lui setta, o anche solo l’apparenza dell’adesione.
[16] «Affinché nel prestare un tale atto di culto (la genuflessione, n.d.t.) i cattolici non sembrino mescolarsi con gli scismatici, gli stessi cattolici avranno cura di evitare gli incontri con gli scismatici, mentre portano il Sacramento»
[17] Si potrebbe qui citare anche un decreto della Sacra Congregazione de Propaganda Fide del 15 dicembre 1764, che richiede di evitare di trovarsi nell’occasione di venerare le immagini sacre (anche del Cristo o della Vergine) presenti nei templi non cattolici, per evitare la stessa confusione.