da sì sì no no, Anno XXVI, n. 16, 30 Settembre 2000
Titolo originale: Concilio o Conciliabolo? Riflessione sulla possibile invalidità del Vaticano II. IV. La Dottrina – Analisi sistematica. Il prologo della Rivoluzione: A. La Costituzione sulla Liturgia. 2.9. Gli elementi della “nuova” dottrina. 2. La S. Messa “concelebrazione” di sacerdote e popolo.

La prima concelebrazione conciliare il 14 settembre 1964, inaugurazione della terza sessione del Vaticano II. Fonte della foto liturgia.mforos.com

La “concelebrazione”

Nella costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia all’art. 47 è strettamente connesso il successivo art. 48 imputato da Amerio di aver introdotto la “concelebrazione” di sacerdote e popolo. Dopo aver dato del “mistero eucaristico” la nozione a dir poco insoddisfacente appena vista, la Sacrosanctum Concilium dà una nozione non ortodossa anche della partecipazione dei fedeli: «Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del Corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti» (SC, art. 48). In via preliminare va osservato che il nuovo accenno al “Corpo del Signore” (mensa Corporis Domini reficiantur), simile ad uno successivo, nel quale si menziona la comunione sacramentale (art. 55: fideles post Communionem sacerdotis ex eodem Sacrificio Corpus Domini sumunt), non introduce affatto un sicuro riferimento (sia pure sempre indiretto) al dogma della transustanziazione, perché “si nutrano alla mensa del Corpo del Signore” potrebbe applicarsi del tutto legittimamente anche al Corpo di Cristo “consustanziato” dei luterani. Il Concilio di Trento sente il bisogno di precisare che San Paolo, quando scrive ai Corinti che non si può partecipare alla “mensa del Signore” (mensa Domini) se ci si è contaminati alla “mensa dei demoni” (1a Cor. 10, 21), «per “mensa” nell’uno e nell’altro luogo intende l’altare (“per mensam altare utrobique intelligens”)» (sess.XXII,
c.1, Denz. 1742). E questo perché i Protestanti si servivano e si servono in genere dei termini “mensa” e “cena” proprio per significare che ciò che loro intendono del Sacrificio Eucaristico è ben diverso da ciò che ne hanno sempre inteso i Cattolici; ragion per cui la mensa per loro non è un altare. Veniamo ora al punto più importante. La frase incriminata, per la “concelebrazione” di sacerdote e popolo, è ovviamente la seguente: «offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma anche insieme con lui (sed etiam una cum ipso) , imparino ad offrire se stessi». L’anche viene in genere omesso nella versione in volgare, ma nel testo latino, che è quello ufficiale, c’è e comunque il concetto affermato è che i fedeli offrono non solo per le mani del sacerdote, “ma anche insieme con lui”, ovvero cooffrono unitamente al sacerdote. E questo concetto è affermato con forza e senza sfumature: non si tratta quindi di un’offerta spirituale, ma di un’offerta che avviene sullo stesso piano di quella del sacerdote. Ed i fedeli dovrebbero imparare ad “offrire se stessi” come vittime spirituali proprio in conseguenza del fatto che “offrono” insieme con il sacerdote, sullo stesso suo piano, la “vittima senza macchia”.

Il raffronto con la “Mediator Dei

Una conferma di quanto ora affermato la troviamo in un raffronto con un passo della Mediator Dei. Si è visto (supra par. 2.6) che questa enciclica di Pio XII espone con molta chiarezza l’autentico significato della partecipazione dei fedeli alla S. Messa e quindi all’offerta del Sacrificio, e ciò allo scopo di sbarrare il passo ad una tendenza fin da allora serpeggiante nel “movimento liturgico”, tendenza che trapiantava in campo cattolico l’eresia luterana del popolo celebrante o almeno concelebrante. I fedeli – ribadisce la Mediator Dei – offrono in unione semplicemente morale o spirituale con il sacerdote, anzi con il Sommo Sacerdote, perché uniscono i loro voti ai suoi, i loro sacrifici al Suo Sacrificio, e non perché dispongano del potere di celebrare il Sacrificio, non perché possano effettivamente “concelebrare” (MD cit., II, cap.II, 68 ss.). Si può affermare perciò – dice la MD – che “essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, in certo modo (quodammodo) anche insieme con lui” (op. cit., pp. 77 e 78). Questa frase sembra esser stata ripresa nella Sacrosanctum Concilium, ma lasciando cadere l’avverbio “in certo modo” (quodammodo). Essa è diventata quindi: “offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma anche insieme con lui”. Si confrontino i due testi in parallelo:

Mediator Dei
non tantum per sacerdotis manus, sed etiam una cum ipso QUODAMMODO
Sacrificium offerunt ….

(maiuscole nostre)


Sacrosantum Conciulium
immaculatam hostiam, non tantum per sacerdotis
manus, sed etiam una cum ipso offerentes …

Con l’avverbio “in un certo modo”, la Mediator Dei mantiene nelle sue giuste proporzioni il significato della partecipazione dei fedeli all’offerta. Questi, poiché offrono i loro voti di lode, impetrazione etc., partecipano solo moralmente e spiritualmente offrendosi come vittime per imitare Cristo; perciò per evitare equivoci, è prudente (e corrisponde al vero) dire che essi “offrono, in un certo modo, il Sacrificio” insieme col sacerdote. Ma, se si toglie il quodammodo, la frase mantiene lo stesso significato? A noi sembra di no, perché l’offerta dei fedeli viene in tal modo a perdere il suo carattere puramente spirituale: la correlazione è affermata linguisticamente in modo netto (non solum … sed etiam) e si conclude con un’affermazione non temperata dall’impiego di nessun avverbio: i fedeli offrono il sacrificio insieme con il sacerdote; punto e basta. Perciò nel testo della Sacrosanctum Concilium l’offerta dei fedeli, non distinguendosi da quella del sacerdote, non è più solo morale e spirituale, ma diventa uguale a quella del sacerdote, non è più atto del culto interno, ma diventa atto del culto esterno, che pone il popolo sullo stesso piano del sacerdote. Va così perduto il genuino significato della dottrina sempre insegnata dalla Chiesa e sopra richiamata (par. 2.6), secondo la quale “quando si dice che il popolo offre insieme col sacerdote” non si vuol dire altro se non che esso “unisce i suoi voti di lode, di impetrazione, di espiazione e il suo ringraziamento all’intenzione del sacerdote, anzi dello stesso Sommo Sacerdote” (Mediator Dei cit., pp. 76 e 77). La nostra analisi, che conferma in pieno l’accusa mossa all’art. 47 dal benemerito prof. Amerio, sembra forse troppo audace? Ma, se la Sacrosanctum Concilium voleva mantenere l’identico significato alla frase della Mediator Dei, perché ne ha tolto il “quodammodo”, modificando nettamente quel senso? e modificandolo in un’unica, precisa direzione: quella secondo la quale il popolo co-offre e quindi concelebra?

Vittima sul Calvario o anche sull’altare?

Nel successivo art. 48 troviamo il termine “vittima senza macchia” (immaculatam hostiam). Dobbiamo ritenerlo bastante, per dire che la Sacrosanctum Concilium mantiene in modo (sempre indiretto, ma) sufficientemente chiaro il dogma? Fatto salvo quanto abbiamo detto sopra sulla totale inaccettabilità di una proclamazione sempre indiretta od implicita del dogma della fede, resta il fatto che un riferimento del genere non è a nostro avviso sufficiente. È vero, infatti, che i luterani hanno cambiato l’Offertorio nella loro “messa” e non ammettono Gesù in stato di vittima sull’altare, tuttavia anche per loro Gesù sul Calvario è la “vittima senza macchia”. Se un testo del Magistero tace del tutto sulla transustanziazione e poi parla di offerta della “vittima senza macchia”, può essere che con vittima intenda Gesù in stato di vittima sull’altare; però, proprio a causa del silenzio di cui sopra, resta sempre la possibilità di interpretare il testo nel senso di un’offerta spirituale o simbolica della “vittima” del Calvario, senza rinnovazione incruenta del Sacrificio. Tali considerazioni trovano un ulteriore appoggio nella constatazione che, a causa della “concelebrazione” di sacerdote e popolo surrettiziamente introdotta, l’intera nozione dell’offerta che ha luogo nella S. Messa risulta alterata. Certo, l’espressione “vittima immacolata” è più vicina al dogma dell’espressione “sacrificio eucaristico” o “Corpo di Cristo”, ma è anch’essa lontana dall’essere soddisfacente, isolatamente presa. Perciò, così com’è legittimo domandarsi, nel contesto reticente ed ambiguo della Sacrosanctum Concilium, se il “sacrificio” di cui si parla sia propiziatorio o di lode ed il “Corpo” di cui si parla sia transustanziato o consunstanziato, è del pari legittimo chiedersi se la “vittima senza macchia” sia quella del Calvario o quella nuovamente offerta sull’altare nella Santa Messa.

Liturgia “dal basso”

La concelebrazione di sacerdote e popolo, che oggettivamente accentua, contro la tradizione, il momento comunitario nella celebrazione dell’Eucarestia, va accostata al dettato dell’art. 27 della Sacrosanctum Concilium. In esso si chiede che, “ogni volta che i riti comportano… una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva, dei fedeli”, si inculchi che “questa è da preferirsi alla celebrazione individuale e quasi privata. Ciò vale soprattutto per la Messa, salva sempre la natura pubblica e sociale di qualsiasi Messa”. Quest’ultima espressione ricorda quanto affermato nella Mediator Dei: “il Sacrificio Eucaristico … ha sempre e dovunque, necessariamente e per la sua intrinseca natura, una funzione pubblica e sociale (publico et sociali munere fruitur)” (MD II, cap. II, pp.78 e 79). Tuttavia, il carattere “pubblico e sociale” della Messa in quanto atto del culto pubblico è ricordato dalla Mediator Dei per negare che la cosiddetta “Messa privata”, celebrata senza popolo, abbia un valore inferiore alla celebrazione con il popolo presente. La “Messa privata”, infatti, ha un “carattere sociale” non minore della celebrazione comunitaria, perché il sacerdote “agisce a nome di Cristo e dei cristiani, dei quali il Divin Redentore è Capo, e l’offre a Dio per la S. Chiesa Cattolica e per i vivi e i defunti. E ciò si verifica certamente sia che vi assistano i fedeli – che noi desideriamo e raccomandiamo siano presenti etc. – sia che non vi assistano, non essendo in nessun modo richiesto che il popolo ratifichi (populus ratum habeat) ciò che fa il sacro ministro ” (MD cit., pp. 78 e 79). Ora, la Sacrosanctum Concilium afferma che, “fatta salva la natura pubblica e sociale di ogni Messa”, la “celebratio communis” è da preferirsi a quella “singularis et quasi privata”. E perché è da preferirsi? Non lo dice. Lo si può dedurre dal precedente art. 26, il quale riafferma il principio che le azioni liturgiche non sono «azioni private, ma celebrazioni della Chiesa che è “Sacramento di unità”, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei Vescovi». Anche la Mediator Dei ricorda che le azioni liturgiche non sono “azioni private”, ma azioni di tutta la Chiesa (MD, I, cap. I, pp. 18-20, 28-29, cfr. par. 2.4 supra), ma dalla natura comunitaria dell’azione liturgica non trae la conseguenza che la celebrazione comunitaria dev’essere preferita a quella “individuale e quasi privata” anzi puntualizzata che la partecipazione comunitaria è solo la manifestazione “esteriore”, simbolica, del carattere pubblico e sociale che l’azione liturgica ha per se stessa. La presenza dei fedeli è desiderabile e desiderata dalla Chiesa, ma non incide sul valore dell’azione liturgica onde non c’è nessuna ragione oggettiva per “preferire” una celebrazione comunitaria ad una “privata” o “quasi privata”. La Sacrosanctum Concilium, invece, dallo stesso principio – la natura comunitaria dell’azione liturgica – trae la conseguenza che alla celebrazione “individuale e quasi privata” debba preferirsi il rito al quale i fedeli sono presenti. Tale indebita conclusione mostra che la partecipazione comunitaria non è per la Sacrosanctum Concilium solo simbolica, significativa del carattere pubblico e comune che la Messa ha di per sé, indipendentemente dalla presenza dei fedeli. Quando essa, utilizzando espressioni tramandate, scrive che la Chiesa è “popolo santo adunato e ordinato sotto la guida dei Vescovi (plebs sancta sub Episcopis adunata et ordinata)” così che le azioni liturgiche “appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano” (SC, art. 26 cit.), vuole evidentemente affermare un nesso strettissimo tra l’azione liturgica e “l’intero corpo della Chiesa”, appena identificato nel “popolo di Dio” adunato sotto i Vescovi (pars pro toto). La Liturgia “manifesta” il popolo di Dio, come se la Liturgia originasse dal “popolo” dei fedeli e non invece da Nostro Signore, dagli Apostoli, dalla Tradizione, dal Magistero. Pertanto la preferenza del Vaticano II per la “celebratio communis” ha il suo fondamento nel principio (eterodosso) che “l’azione liturgica” abbia un’origine comunitaria, nel “popolo di Dio”: è la visione della Chiesa che viene dal basso, la quale privilegia uno degli elementi della definizione ortodossa (il popolo di Dio) e vuol attribuire un rilievo maggiore all’ episcopato. Al contrario, è proprio in base al principio della “natura pubblica e sociale di ogni Messa”, sia essa “privata” o “cum populo” che la Mediator Dei nega ogni preferenza alla Messa “comunitaria”. Inoltre, accordandogliela, si sarebbe introdotto surrettiziamente l’errore. Infatti, a causa di questa preferenza, si sarebbe di fatto riconosciuto ai fedeli un potere di ratifica all’azione dell’officiante, che in nessun modo spetta né può spettare loro (e che la Mediator Dei condanna
apertamente: MD, cit., pp. 78 e 79). E Pio XII, nel condannare esplicitamente la “concelebrazione” ricorda che sono proprio i suoi sostenitori (i quali vogliono attribuire ai fedeli un inesistente potere di ratifica) a sostenere che
la “Missa cum populo” è da preferirsi a quella celebrata privatamente “absente populo” (MD, II, cap. II, pp. 70 e 71 cit. –vedi nota 12 del presente saggio e par. 2). Ancora una volta, dunque, l’aderenza della Sacrosanctum Concilium alla tradizione è solo apparente, insinuandosi invece nel testo addirittura l’errore dalla prima apertamente riprovato. E si può stabilire, secondo noi, questa connessione: la Sacrosanctum Concilium, come tende a svalutare la pietà privata (ed il culto interno) in favore del culto pubblico esterno, del pari, a causa del principio che l’«azione liturgica» è “manifestazione” della Chiesa-popolo di Dio, svaluta arbitrariamente la Messa celebrata “sine populo” (già oggetto dell’ira furibonda di Lutero).La visione comunitaria della Liturgia fa da sfondo anche agli art. 33 e 41, nei quali il sacerdote ed il vescovo sono indicati come “presidenti” del “coetus” dei fedeli o della manifestazione liturgica, quale che sia. Se si è voluto dire che il sacerdote o vescovo presiedono al rito “in persona Christi”, e non ad un’ assemblea, nulla da ridire. Tuttavia, si introduce pur sempre l’immagine della Messa costituita, in quanto manifestazione liturgica, da una “assemblea” (coetus), quella del “popolo di Dio”, che prega e si comunica, immagine che non corrisponde certo alla definizione tradizionale della Messa e che riapparirà nel Novus Ordo Missae.

Canonicus