Radio Spada ha variamente trattato la questione giudaica, ora mettendo in guardia sulla scorta del magistero certi errori moderni come l’antisemitismo razziale ora schierandosi contro l’opera del modernismo giudaizzante che dal Concilio Vaticano II, a sfregio del Crocifisso tresca con gli eredi dei suoi crocifissori, arrivando persino ad impugnare la storicità dei Santi Evangeli. Le Nostre Edizioni hanno infine recentemente dato alle stampe la dottissima opera di don Curzio Nitoglia “Non abbiamo fratelli maggiori” (acquistabile qui sul nostro e-commerce). Per continuare l’opera di informazione e formazione nostra e dei nostri Lettori su tema tanto delicato, magistralmente ed più che esaustivamente trattato nel suddetto libro, ci piace riprendere un pezzo apparso su si si no no del 15 gennaio 1998 che sarà utili a chiarire alcuni punti come l’ebraicità di Gesù, che torna di tanto in tanto alla ribalta nel dibattito pubblico, ovviamente storpiato a destra come a sinistra nell’ottica di ideologie non proprio afferenti al Cattolicesimo Romano.
Questione dottrinale, non passionale.
Come un chirurgo opera con grande attenzione, fermezza e delicatezza, così vogliamo operare anche noi oggi su un argomento che sembra pungere da sempre grandi sensibilità: il rapporto tra gli Ebrei e Gesù.
Quel finissimo Maestro in esegesi che fu monsignor Spadafora, nel suo libro Cristianesimo e giudaismo (edizioni Krinon, 1987, Caltanisetta) a pagina 27 denuncia la scabrosità del tema facendo parlare in sua vece un ottimo esegeta protestante Ph. H. Menoud, che «nel 1952 offerse in una sintesi lodevole per obiettività teologica ed elevatezza di sentimenti una risposta alla domanda: “Quando e perché si è stabilità tra i fedeli del Cristo ed i Giudei questa rivalità che doveva condurre alla separazione e alla lotta aperta?”. Nel primo capitolo, l’Autore dimostra come si concilino nel Nuovo Testamento cose inconciliabili come l’amore per Israele e l’antigiudaismo. Questa duplice attitudine, finemente analizzata specialmente sui testi di san Pietro e san Giovanni, non ha nulla di contraddittorio: la Chiesa primitiva resta sostanzialmente attaccata ad Israele dal quale ha coscienza di ricevere la salvezza secondo la carne per mezzo di Cristo».
Quindi la Chiesa si separò dai Giudei contemporanei con dolore, solo perché questi rifiutarono di credere che la Promessa, la Salvezza, si era realizzata in Gesù, figlio di Maria. «L’antigiudaismo della Chiesa non è sentimentale, non è passionale come quello riscontrato nel mondo greco-romano: è dottrina e non passione. Ha la sua radice in un conflitto teologico. […] E questo non per intransigenza di persone, ma perché sono le stesse esigenze della loro fede ad imporre [ai primi cristiani] il distacco e la rivalità a dispetto dei loro desideri di conciliazione e delle prime illusioni».
La tesi del Menoud costituisce un buon punto di partenza, che sarebbe ottimo, se avesse detto tutto quel che doveva dire. Difatti ci pare che, purtroppo, al contrario della disponibilità apostolica, non si siano mai potuti riscontrare, da parte ebraica, né parole né atti finalizzati alla pacificazione.
Se qualche Capo giudeo si fosse distinto in questa opera grandiosa gli stessi cristiani l’avrebbero segnato nei loro oggettivi resoconti (per l’oggettività basti ricordare i tanti episodi evangelici in cui gli Apostoli figurano meschinamente). Detta segnalazione in un sol caso avviene: in Atti degli Apostoli 5, 34-39 San Luca ricorda il discorso di Gamaliele, dottore della Legge e fariseo, discepolo addirittura del grande Illele, fa al Sinedrio riunito per giudicare gli Apostoli. L’autorevole personaggio fa riflettere i suoi colleghi sull’inopportunità di contrastare i presunti «eretici»: visto il fallimento di altri «sediziosi», si lasci che quella dottrina faccia il suo corso, e «se essa è opera dell’uomo, cadrà da sé. Ma se opera di Dio, non potrà essere distrutta».
Il caso di Gamaliele rimane unico. E dimostra che qualche Giudeo non era insensibile a pugnare deponendo le armi più passionali e agitando solo quelle della ragione. Ma, a parte questo caso isolato, è utile chiedersi come mai ogni atto compiuto dei Maggiorenti ebrei verso il Cristo non da razionali e ponderati giudizi, ma, subito e poi da sempre, da moti irrazionali e sentimenti di astio, di acredine, di malevolenza, sentimenti sconfinanti tanto spesso in incontenibili furori.
Un contrasto che salta agli occhi
Ci sembra anzi necessario notare che, mentre la parte giudaica si nutre di questi sentimenti persino omicidi verso il Cristo e poi verso i primi cristiani, che pur sono loro consanguinei [1], la parte cristiana, invece, cerca reiteratamente di far ragionare l’avversario, di riportarlo a sé, di illuminarlo. Da parte ebraica vengono uccisi prima Gesù, poi Stefano poi Giacomo «il Maggiore», quindi «il Minore» e chi, come Pietro, Giovanni e Paolo, sfugge alla morte non per difetto di intenzione nei persecutori, ma perché scampa al tentativo. Da parte cristiana l’unico gesto offensivo è il famoso taglio d’orecchio compiuto da Pietro; pur essendo quello un gesto (maldestro ed inadeguato) di legittima difesa di un Innocente, questo geto viene persino redarguito e miracolosamente se ne cancellano gli effetti proprio dall’Uomo che avrebbe dovuto più risentirsi per azioni gravi che si stavano compiendo contro di lui. E, anche qui, riveliamo l’oggettività e l’accuratezza dei resoconti evangelici che non nascondo il ribollire delle passioni anche in personaggi, come l’irruente Pietro, per i quali lo storico avrebbe dovuto «parteggiare».
Con tutta la benevolenza che, oggi come ieri, ci vuole accostare all’Ebreo, non possiamo nasconderci la mancanza di documenti giudaici in cui sia pervenuto in qualche modo un moto di dolore, di dispiacere per quei figli erranti che dalla Sinagoga avrebbero dovuto essere considerati gli Apostoli; o di materna costernazione e, ancor più, come detto prima, di richiamo ad una superiore concordia e altre cose del genere. Ebbene, questa mancanza va detto, va sottoposta e, trovata la causa nel difetto di carità dei Giudei, ci pare che vada giudicata con giudizio diritto.
Invece da parte cristiana tutti gli scritti contemporanei alla diffusione del messaggio evangelico offrono continue testimonianze, appassionate e gementi, accorate e vibranti: non nascondendo la verità di una Salvezza compiuta in quella Persona lì, in quella Morte lì, gli Apostoli chiedono a tutto Israele, massimamente ai suoi Capi, almeno la disponibilità ad ascoltare secondo ragione e giudizio. Riportiamo qui solo alcuni dei tanti esempi.
Atti 2, 39: «Certo, la promessa è per voi, per i vostri figlioli»;
Atti 3, 26: «A voi per i primi Iddio dopo aver suscitato il suo Figliolo, lo ha mandato per benedirvi, facendo sì che ciascuno di voi si converta dalle sue iniquità» (opera questa del tutto gratuita e misericordiosa);
Romani 9, 1-3: «Dico la verità in Cristo; non mentisco, rendendone testimonianza la mia coscienza nello Spirito Santo: grande dolore io provo e continua pena è nel mio cuore. Vorrei essere io stesso anatema e separata da Cristo per i miei fratelli, parenti miei secondo la carne, i quali sono Israeliti […]»;
Romani 10, 1-3: «Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiere ch’io faccio a Dio per loro, è per la loro salvezza. Perché faccio testimonianza per loro che hanno zelo di Dio ma non secondo scienza»: San Paolo, che ha vissuto lo stesso distorto zelo, lo mette in luce quasi per alleggerirli del peso, perché le preghiere abbiano una via più sgombra.
Questi passi appassionati, tra innumerevoli altri, come non velano le lacrime al pari non nascono la realtà dell’errore, la crudezza dell’avvenuta resezione. Le molteplici parole dell’Apostolo imbevono con la loro diffusione tutte le Chiese cristiane di ottimi sentimenti verso gli ebrei ostinati e persecutori, in unisono con il mantenimento della franchezza della dottrina perché «la carità si compiace sempre della verità» (1Cor. 13, 6b).
Salta agli occhi la frattura tra i due atteggiamenti: uno di amicizia, si potrebbe dire senz’altro di fraternità; l’altro di sorda ostilità, sconfinante molto di sovente in moti passionali di rabbia quando non anche, purtroppo, di furia omicida.
Figli di Abramo nella carne o nella fede?
La disputa riportata da Giovanni nell’ottavo capitolo del suo Evangelo è sulla paternità dei Giudei. I disputanti sapevano che paternità e filiazione spirituali non sono solo reali, ma sono anche più vincolanti di quelle carnali. Ebbene, Gesù mostra ai Giudei la filiazione spirituale da loro adottata in luogo di quella che per la fede li ricongiungeva ad Abramo e, attraverso Abramo, alla Paternità divina. E dice loro (Gv 8, 44): «Avete per padre il diavolo». Qualcuno sostiene ancora oggi essere stata quella di Gesù un’apostrofe insultante. Al contrario qella di Gesù è ancora una volta, una profezia, un caritatevoli ammonimento, tanto che subito ne fornisce l’imprescindibile ragione: «Volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dall’inizio» (Gv 8, 44a). Gesù li mette così davanti alle loro cattive intenzioni, ai loro disegni perversi e mostra loro come essi da se stesso recidono il legame di figliolanza che attraverso la fede li teneva uniti ad Abramo [3].
Anche i questa disputa, le parole di Gesù sono miti, ferme, equilibrate, sia nel senso che mai ferisce passionalmente gli avversari, sia nell’opposto senso, che mai egli mostra di offendersi sotto i colpi volutamente e irragionevolmente aggressivi. Anche qui, quando mai il Messia e i suoi discepoli raccolsero pietre per lapidare gli interlocutori presi in fallo? E quanto volte, invece, Dottori, Farisei e Scribi ebbero tra le mani i sassi per lapidare il Maestro?
Cristo mette davanti ai Giudei le conseguenze delle cattive azioni che essi concepiscono e compiono: prima di tutto la perdita della paternità di Dio. Evidenzia così il loro stato di essere divenuti per mancanza di fede figlioli del diavolo. Già aveva negato loro la sapienza delle Scritture: «Voi scrutate le Scritture, perché pensate di trovare in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza, eppure voi non volete venire a me per avere la vita!» (Gv 5, 39-40). Anzi, non solo li mette dinanzi alla loro cecità, per così dire passiva, ma fa notare loro che quelle stesse Scritture per loro così intellegibili si alzano vive a giudicarli: «Chi vi accusa è Mosè nel quale avete riposto la vostra speranza» (Gv 5, 45b). Infine toglie loro – sempre nel senso di metterli davanti alla nudità da se stessi procuratasi – il Regno.
Qui bisogna rivelare un fatto importantissimo: il Cristo fa di tutto, nei tre anni della sua vita pubblica durante i quali disputa con Scribi, Dottori e Farisei d’Israele, perché essi prendano coscienza dell’errore e del conseguente stato di spogliamento raggiunto, e la Chiesa non fa che perpetuare verso gli Ebrei l’atteggiamento veridico e caritatevole, fermo e amorevole al tempo stesso del suo Divin Fondatore.
I quattro aspetti dell’errore giudaico
Monsignor Spadafora, nel libro citato, individua nell’erroe dei Giudei quattro cause che qui brevemente compendiamo.
La prima risiede nell’aspettativa di un Cristo vincente e glorioso, che qual nuovo Alessandro, sconfigga in una grande battaglia i Romani e dia l’impero ai Giudei. Tutto il contrario di quanto Isaia aveva loro predetto del Messia «uomo dei dolori che conosce il soffrire» (Is. 54, 3a).
La seconda causa risiede nel fatto che i Giudei comunque negano al Messia, per quanto alto in dignità, prerogative; per qui quando Gesù rimette i peccati agli uomini, essi lo accusano di bestemmiare. Per Spadafora «la Sinagoga non attribuisce al Messia il celebre testo di Isaia 9, 5: “Consigliere mirabile, Dio forte, padre in eterno, principe di pace”, specialmente per quanto riguarda l’appellativo “Dio forte”. La proclamazione della divinità del bambino implica il potere della remissione dei peccati, potere che Gesù mostra di avere per natura e non solo per grazia». La Sinagoga rifiuta l’attribuzione al Messia anche della proclamazione del Salmista: «Promulgherò il divino decreto. Dio mi ha detto: “Mio figlio sei tu: io quest’oggi ti ho generato”» (Salmo 2, 7) e dell’ingiunzione: «Adorate il Figliolo!» dello stesso Salmo con le quali il Messia è afferma vero Figlio divino di Dio Padre (op. cit.).
La terza causa sta nella negazione al Messia di ogni potere sulla Legge: per i Giudei «nessuno può abrogare, derogare, ampliare la Legge, nemmeno il Messia» (op. cit.). Quindi non può essere il Messia chi abroga, deroga, amplia. Anche qui, la lettura parziale, stretta e sfocata impianta un tragico malinteso. Infatti i Giudei non avevano torto, in linea di principio, a ricordare che nessun uomo è tanto grande da potere toccare la grandezza della Legge. Solo avrebbero dovuto ricordarsi che l’Autore dello Scritto certamente può toccare lo Scritto per completarlo e perfezionarlo; ma per questo avrebbero dovuto riconoscere la divinità dell’uomo Gesù che stava loro davanti, che toccava il sabato e sul sabato signoreggiava.
In ultimo, la quarta causa sta nel non ammettere essi di essere giudicati. Gesù invece li giudica ed il suo giudizio è severo: prevede il castigo su di loro: «Allora Gesù cominciò a rinfacciare alle città […] : “Perciò ti dico che nel giorno del giudizio sarà usato meno rigore a Sodoma che a te”» (Mt 11, 20-24). Gesù giudica, perché Isaia gli conferisce anche questa prerogativa (specialmente Is. 42, 1-7).
Così Israele si recide per vanagloria dalla radice santa che lo teneva unito a Dio attraverso la Legge e attraverso la fede insegnata dai Patriarchi; si allontana primariamente dalle Scritture Sante con un certo ottundimento della loro lettura. Questo accecamento conduce la Sinagoga a professare di conseguenza dottrine che, anche se i vocaboli sono duri chiameremo e aberranti e svianti: aberranti perché esse medesimo sono fuori dalla Via; svianti perché portano i fedeli fuori della stessa Via. Agli occhi dei maggiorenti giudei il Messia è tutto Israele inteso come Nazione Santa; come se la trasognante potenza messianica possa prendere l’aspetto di tutto un popolo che, in marcia redentiva, conquisti il mondo a Dio. Non riuscendo per orgoglio i Giudei a vedere nelle Scritture l’uomo-Dio Gesù, quello stesso orgoglio li fa traguardare a dismisura in se stessi nient’altro che se stessi.
Non tu porti il Cristo, ma il Cristo porta te
È comune sentire tra gli Ebrei che non Israele, ma Cristo, con la sua dottrina, si sia discostato dalla Legge, come se l’avesse corretta, torta, dando così luogo ad una nuova pianta, che poi da Lui appunto prenderà nome (diversità di nome qui, però, non è cangiamento, ma perfezione di dottrina).
Questa concezione ribaltata va corretta in ogni occasione, riportando il pensiero nella sua rettitudine come è insegnato dalle sacre Scritture. L’Apostolo infatti in Rm 11, 18 dice: «Non tu porti la radice, ma la radice te». E San Tommaso spiega (Lectio supra Joannes): «Cristo sarà la radice di Iesse, perché sebbene proceda da Iesse secondo l’origine della carne, tuttavia con la sua potenza ha sostenuto Iesse e gli ha infuso la Grazia» (Il principio è sempre il medesimo: che la Parola, il Verbo muove l’universo).
La linea genealogica della figliolanza spirituale da Dio, attraverso la fede di Abramo, passa quindi in linea retta per i Profeti, per Mosè e per Davide, concludendo in Cristo. Ma Cristo è il vero Principio della fede e ciò che è prima di Lui lo è solo in linae storica, non ontologica: è da Lui che tutto germoglia, prima e dopo.
Iesse, padre di David, non sarebbe padre del Messia nella carne e nella fede se non fosse stato sostenuto dalla potenza del Figlio di Dio, che a quel compito l’aveva predestinato. E ancor di più: non Cristo è ebreo nato da ebrei, come se la sua dignità dipendesse e fosse effetto della dignità loro ma essi sono ebrei perché ordinati a Cristo e la loro dignità discende dalla Sua elezione, la loro santità dalla Sua santità; per finire, la loro filiazione adottiva dall’essere Lui il dilettissimo Figlio consustanziale.
Questo è un principio contrastato, è un principio dimenticato, ma è un principio cui massimamente Dio rimane fedele, sia nelle Scritture ispirate che nella Tradizione.
Se la religione ebraica esista
Abbiamo riflettuto su diversi luoghi dei Sacri Testi ove è prefigurato il Messia. I Padri e i Dottori della Chiesa concordano nel ritenere che la causa delle cause dell’allontanamento dei Giudei da Gesù, o meglio della reiezioni di Gesù da parte dei Giudei, consiste più che nell’ignoranza affettata e cioè vincibile, che hanno voluto tenere malgrado ogni evidenza, nelle passioni dell’invidia e dell’odio. Contro queste due passioni non vi sono molti argomenti di convincimento, se non in ordine della loro specie, che è di carità, e dunque di volontà e non di intelletto.
Per deporre la concupiscenza che muove l’animo all’invidia è necessario compiere un atto di umiltà, di semplicità. Ricordate la vigna di Nabot, tanto concupita dal re Acab? Cotesto malvagio sovrano segue l’empio consiglio della consorte, istruisce un falso processo contro il legittimo proprietario, lo fa lapidare e si impossessa violentemente dell’agognato bene (1Re 21). Acab non volle rimanere nelle sue misure concessegli da Dio, forzò lo stato delle cose per desiderio di possesso di un bene rigoglioso, la cui vista gli generava invidia; odiò l’innocente possessore del bene concupito, comprò falsi testimoni, spergiurò, uccise, rubò. Quando Gesù afferma che tutte le sacre Scritture parlano di lui si riferisce anche a episodi come questo, esemplari degli avvenimenti che lo avrebbero toccato.
L’episodio lumeggio poi un aspetto importante: Acab rubò la vigna come i Capi Giudei rubarono Israele al suo Messia. Se ancor oggi si parla di «religione ebraica» lo si deve a questo atto di ladrocinio per cui tutta la vigna, che è il popolo ebreo, è in uno stato di possessione illecita. Tutto il popolo ebreo non appartiene alla Sinagoga, ma al Signore Gesù Cristo, appartiene a quel Gesù di Nazareth ucciso innocentemente ed empiamente come fu ucciso Nabot.
Si può fare qualcosa, invece, contro l’ignoranza, ma posto che essa nel caso dei maggiorenti di Israele era affettata, il ragionamento oggi come ieri viene ottuso dalle passioni. Potevano i Giudei convincersi della divinità di Cristo? Il ragionevole, mite e sempre molto prudente san Tommaso risponde (In Ioannis expositio, cap. XV, 24) che, sì potevano e tuttora possono: «”Se non avessi fatto opere che nessun altro ha mai fatto …”. Egli … fece tra loro opere che nessuno altro aveva mai fatto nella guarigione degli infermi. E questo sotto tre aspetti: 1) sotto il rispetto della grandezza del prodigio, perché resuscitò un morto dopo quattro giorni; ridiede la vista a un cieco nato, il che “non si era mai sentito dire da che mondo è mondo”; 2) rispetto al numero delle guarigioni, poiché tutti i malati venivano guariti da lui, il che nessun altro aveva fatto; 3) perché gli altri compivano quei prodigi pregando; mostravano così di agire non per virtù propria. Cristo invece li compiva comandando, perché agiva per virtù propria come fece Cristo. Cristo li attirò con la parola e con prodigi visibili e invisibili; cioè movendo e stimolando interiormente i loro cuori […] coloro che gli resistono peccano. Altrimenti Santo Stefano avrebbe detto a sproposito: “Voi resistete sempre allo Spirito Santo”».
Abbiamo detto sopra che a causare la resistenza nei Giudei sono stati l’odio e l’invidia. Perché odio? Perché invidia? Perché Gesù, con la sua vita e con le sue opere, si mostrava ad essi e a tutte le moltitudini Signore di ogni cosa: l’evidenza della sua ingenita e naturale signoria divina faceva nascere in coloro che signoreggiavano, spadroneggiavano e usurpavano, l’invidia per l’uomo a cui dovevano forzosamente prostrarsi: la vigna di Nabot era ricca, rigogliosa, abbondante. Molto puerilmente e irragionevolmente decisero di nascondere a sé stessi ciò che li abbacinava. Per questo la loro è ignoranza affettata, vincibile, e non nescienza, perché si nascosero ciò che li aveva abbagliati, ottenebrarono ciò che li aveva folgorati.
Il problema, se sfrondato dalla malizia che nasce dalle cattive passioni, è solo un problema gnoseologico. I termini sono i seguenti: l’uomo Gesù ha fornito agli scrutatori dei Testi sacri tutti i validi elementi per dare loro l’evidenza della sua divinità o non li ha forniti? Non solo li ha forniti, come abbiamo visto, ma ha anche compiuto il miracolo di muovere i loro animi là dove essi non gli hanno resistito. Se molti ebrei sono rimasti chiusi ad ogni penetrazione argomentativa di fatti e di parole, altri ebrei, cioè prima poche centinaia, poi tremila, poi cinquemila, poi ancora migliaia e migliaia hanno aperto i loro intelletti alla parola della Scritture letta da Gesù e se ne sono lasciati penetrare con semplicità d’animo (semplicità si oppone a doppiezza). Ebrei anche loro, hanno mantenuto la fede di Abramo, hanno visto ciò che vedeva il loro Padre: il Cristo in Gesù, figlio di Maria. Essi non si sono affatto «convertiti». Essi hanno mantenuto la continuità della fede, come richiesto a ogni Ebreo da Mosè. E se tutto il popolo ebreo riconoscesse il Cristo, se lo adorasse come Figliolo (come canta quel versicolo imperativo del Salmo 2, 12), non farebbero altro che compiere gli atti già primieramente dai suoi figli più buoni, più pronti, più saggi, i primi tra tanti Ebrei, o anche Giudei, popolani e Farisei, Scribi e Dottori della Legge che si inginocchiarono al passaggio di Gesù. Quel popolo entrerebbe (come di fatto un giorno entrerà, è certo) attraverso la porta per cui sono entrate le prime pecorelle,che provenivano dalla stessa santa alleanza e discendevano dalla stessa figliolanza di fede.
Il popolo ebreo, per quanto grande, è da duemila anni ridotta – per dirla scritturalmente, ma anche in qualche modo metafisicamente – a «Nonpopolo» e a «Senzamisericordia» (Os. 1). Ma tanto ama Dio anche questo popolo di uomini «testardi e duri di cervice» che, notate, conducendolo per la sua stessa storia millenaria, quasi usandolo come straordinario pennello, ai suoi stessi occhi velati, ma misericordiosamente non del tutto ciechi, dipinge lo scenario fedele e veridico dello stato in cui attualmente si trova. Come se gli dicesse: «Ascolata, Nonpololomio: ho raso al suolo le tue città, ti ho mandato in esilio, ti ho lasciato per duemila anni senza patria, senza profeti, senza prìncipi, senza sacerdoti, senza sacrificio e senza tempio. Tutte cose queste che non avrai più perché avevano i sacro compito di figurare presso di te la discesa del mio Figlio Gesù: Lui, il Principe, il Sacerdote, il Sacrificio, il Tempio; come insegnò e mostrò. Ti ho lasciato poi senza pace, o Senzamisericordia, ma oppresso tra mille ingiustizie e diecimila tormenti. Perché la pace solo qui sul mio senso, nella mai verità, sul cuore del mio Cristo. Tornerai a Me, perché Io cambierà il tuo cuore di pietra in un cuore di carne, e di carne divina. Tu risalirai dalla fossa della città di Gerico, la città di orgogliosi idolatri dove sei sprofondata, alla città mia santa, apocalittica, dorata, la nuova Gerusalemme: là la mia croce attorniata da tutta la mia Chiesa, anch’essa in croce, ti attende a braccia aperte perché Io stesso, per le mani buone della mia Chiesa, ti ho medicato, ti ho fasciato, ti ho rincuorato, ti ho sostenuto, Io ti ho salvato».
Discipulus
[1] Ebrei gli uni, ebrei gli altri. Non solo ma anche giudei gli uni e molti giudei fra gli altri. Gesù era giudei di schietta stirpe davidica, giudei erano Simone lo zelote, Tommaso detto Didimo, Giuda di Keriot e infine Paolo, beniaminita e quindi aggregato alla tribù di Giuda. E molti farisei fra gli uni, ma non mancavano fra gli altri (Paolo, com’è noto; ma anche Gamaliele, che si convertirà alla buona dottrina preceduto da Giuseppe d’Arimatea). Sono quindi abbastanza accomunate le origini sia per razza, che per ceppo, che per status.
[2] Dobbiamo insistere sulla consapevolezza dei Capi dei Giudei, principi e dottori della Legge – oggi diremmo maestri insigni in esegesi biblica – che molto scrutavano le Scritte e tutto in Esse traguardavano; essi avevano ben presente l’episodio, con tutte le sue precipue implicazioni, di Esaù e di Giacobbe, eredi di Isacco: nel momento della benedizione impartita dal padre Isacco ai figli Giacobbe ed Esaù, la parola, la sentenza ribaltano l’ordine dato dalla storia, per cui chi nei fatti primeggiava cede il primato al secondo. Per gli Ebrei il sangue è forte, vincolante, ma essi sanno che la forza del sangue deriva dalla solidità fortissima dello spirito.
[3] San Tommaso nelle Lezioni sulla Lettera ai Romani di San Paolo, osserva che più che gli Ebrei nati carnalmente da Abramo sono Ebrei i Gentili che di Abramo hanno abbracciato la fede.
Di nuovo da Roncalli almeno la vigna di Nabot è di nuovo stata rubata a Cristo con l’inganno ma non prevarranno.