di Luca Fumagalli

A parere di J. R. R. Tolkien il Mondo Secondario della fantasia permette di fuggire dalle strette maglie del contingente per riguadagnare una visione più chiara e sana della realtà; secondo Hegel, invece, il Mondo Secondario è un modello radicalmente alternativo a quello Primario che deve rimpiazzare quest’ultimo ad ogni costo.
Ne Il Signore degli Anelli tocca a Saruman rivestire i panni dello stregone hegeliano diventato politico, singolarmente abile con le parole. Egli non è solo uno dei tanti demagoghi della storia, è l’inveramento di una sapienza gnostica che sin da subito rivela la sua affinità con Gioacchino da Fiore, per il quale la storia è un susseguirsi di età indirizzate verso un progressivo perfezionamento. Il mago si dipinge come un saggio, un leader, la persona più adatta per guidare i popoli della Terra di Mezzo in tempi tanto burrascosi. È così che Saruman, nel tentativo di farselo alleato, rivela i suoi propositi a uno sconcertato Gandalf: «I Tempi Remoti non sono più. I Giorni Intermedi stanno passando. I Giovani giorni stanno per incominciare. Finito il tempo degli Elfi, la nostra ora è vicina: il mondo degli Uomini che dobbiamo dominare. Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà, in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono. […] Questa è dunque la scelta che si offre a te, a noi: allearci alla Potenza. Sarebbe una cosa saggia, Gandalf, una via verso la speranza. La vittoria è ormai vicina, e grandi saranno le ricompense per coloro che hanno prestato aiuto. Con l’ingrandirsi della Potenza anche i suoi amici fidati s’ingigantiranno: e i Saggi, come noi, potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo. Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all’alta meta prefissata: Sapienza, Governo, Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare».
La citazione mostra perfettamente quale perverso spirito animi l’azione politica di quello che una volta era il più saggio tra i capi della Terra di Mezzo, diventato a sua volta un’incarnazione perfetta dell’individuo storico-universale hegeliano. Saruman non è un amante della conoscenza, come Gandalf, ma ne è un possessore; è incapace di venire a patti con i propri limiti e, al colmo della follia, si veste di ambizioni messianiche. Sapienza, governo e ordine: questa è la trinità della sua nuova e terribile religione. Ma per raggiungere i propri fini, sempre secondo uno schema hegeliano, Saruman è costretto ad allearsi con il potere di Mordor, teologico e politico insieme, di cui ne ha studiato le arti oscure (la magia, scrive Tolkien in Sulle Fiabe, aspira al potere sul Mondo Primario, non produce amicizia, come la fantasia e l’arte – tipiche degli Elfi – ma solo schiavitù).

Lo stregone si isola quindi nella sua Isengard – una verde vallata ridotta a un’ecatombe industriale di fumo e fiamme – e, con tecniche che richiamano l’eugenetica, riesce a creare una nuova razza di creature mostruose, gli Urukhai, agili e possenti, perfettamente adatti ai nuovi tempi.
Saruman è sempre più alienato, egocentrico, talmente disincarnato che, dopo la disfatta di Isengard, Tolkien lo reintroduce nella trama come voce affascinante e menzognera: «Nessuno rimaneva impassibile, nessuno riusciva a respingerne le implorazioni e i comandi se non con l’aiuto di una grande forza di volontà e di spirito». Saruman prova quindi a ingraziarsi Théoden con modi falsamente gentili presentandosi di nuovo nei panni del salvatore. Quando il tentativo fallisce, lo stregone gioca un’ultima carta appellandosi alla libido dominandi e al senso di superiorità che crede di scorgere anche in Gandalf: «Potremmo portare a buon termine molte cose unendo i nostri sforzi per sanare i disordini del mondo. Comprendiamoci a vicenda e dimentichiamo questa gente inferiore!». Alla fine la risata di Gandalf spezza l’incantesimo malvagio e Saruman è riportato alla sua tragica condizione di mitomane sconfitto, in frantumi al pari del suo bastone.
Tuttavia non è ancora la fine del suo Mondo Secondario. Anche se lo stregone è ridotto ai minimi termini, questo non gli impedisce di tentare un’ultima sortita, al limite della disperazione, e di incarnarsi in Sharkey, il padrone della Contea. Rispetto a quello di Isengard – da cui fugge dopo aver convinto gli Ent a liberarlo – il Saruman che appare nel capitolo “Percorrendo la Contea”, poco prima dell’epilogo de Il Signore degli Anelli, è, se possibile, ancora più gretto e meschino, una pallida imitazione dell’individuo storico-universale di poco tempo prima. Rimanendo nel parallelismo filosofico, è come se, a seguito delle ripetute sconfitte, lo stregone avesse abbandonato una volta per tutte le alate speculazioni hegeliane per virare verso un’azione politica più “concreta”, di derivazione marxista. Secondo Hren, autore del saggio Middle‑earth and the Return of the Common Good, «l’essere angelico mandato a proteggere la Terra di Mezzo dopo la creazione dell’Unico Anello, finisce col diventare un banale fascista».

Saruman, i cui uomini «vanno in giro, rubando o “raccogliendo”, come dicono loro», ha dunque trasformato la Contea in una terra desolata, una brutta copia di Isengard, dove ovunque è devastazione e bruttezza. La natura deturpata, le acque inquinate e una mostruosa fornace sono gli elementi più rappresentativi di un’insensata tragedia che ha come unico fine la desertificazione più assoluta (per la filosofia pratica di Marx è l’annichilamento dell’avversario il fine dell’azione). Circondato dal plauso dei suoi uomini, lo stregone non vuole inverare una nuova utopia, ma vuole semplicemente fare piazza pulita del Mondo Primario.
Nuovamente, però, Saruman va incontro a una disfatta. Mentre minaccia gli Hobbit vantandosi di grandi forze che ormai non possiede più, Frodo incita i suoi: «Non credete a ciò che dice! Ha perso tutto il suo potere, eccetto la sua voce, che può ancora intimorirvi e illudervi, se glielo permettete. Ma non voglio che venga ucciso. È inutile pagare vendetta con vendetta: non risolverà nulla. Vai, Saruman, per la via più rapida!». Disprezzando la generosità dello Hobbit, lo stregone, al culmine della sua smania nichilista, dapprima cerca invano di uccidere Frodo, poi scarica tutte le colpe su Vermilinguo. Il litigio che ne segue porta alla morte di entrambi.
Saruman, mago e teconocrate, stupido vassallo di un’ideologia disumana che pretende di sostituire la realtà con un paradiso artificiale, conclude la sua parabola esistenziale svanendo nel nulla: «Con costernazione dei presenti, intorno al cadavere di Saruman si formò una specie di nebbia grigia che salì lentamente sempre più in alto, come fumo sprigionato da un fuoco, e giganteggiò sul Colle simile a una pallida figura levata. Esitò un momento, rivolta a Occidente; ma proprio di lì venne un vento freddo che la sospinse, ed essa finì col dissolversi sospirando».

Se l’universo hegeliano di Saruman, emblema delle demistificazioni politiche del Novecento, è destinato al collasso, non così quello cristiano di Tolkien. Secondo quest’ultimo, infatti, la più grande funzione del Mondo Secondario delle fiabe si trova in quell’improvviso e miracoloso capovolgimento che prende il nome di lieto fine o “eucatastrofe”. Non si nega il fallimento, e in effetti «la possibilità che ciò si verifichi è necessaria alla gioia della liberazione»; quello che si nega, ricorda Caldecott ne Il fuoco segreto, «è la sconfitta universale o finale, grazie a un sapore o a un’eco di vittoria, la vittoria finale di Eru, il quale incorpora nel suo progetto con la sua infinita creatività e prescienza anche il male. Il Male non cessa di essere tale, e non deve mai essere scelto in modo deliberato; eppure, al contempo, esso non potrà mai conquistare il Bene, che brilla ancor più luminosamente se inabissato nell’oscurità».
Ciò che dà senso a tutto il discorso è, in altre parole, la certezza del Paradiso, di cui Tolkien offre una semplicissima quanto bella descrizione in una delle sue lettere: «Esiste un posto chiamato “Paradiso” dove le opere buone iniziate qui possono essere portate a termine; e dove le storie non scritte e le speranze compiute possono trovare un seguito».
Per chi fosse interessato ad approfondire i temi dell’articolo e, più in generale, la filosofia politica di Tolkien, si rimanda al saggio “La società della Contea”. Link all’acquisto: http://www.novaeuropa.it/prodotto/il-partito-della-contea-appunti-sulla-filosofia-politica-di-j-r-r-tolkien/

In un tempo che non era ancora tempo e spazio, se dovessi immaginare un dialogo fra un angelo caduto ed un angelo celeste penserei proprio a questo dialogo fra Saruman e Gandalf e cioè sul voler fuggire dei demoni dalla realtà di un Dio che si fa carne e muore sulla Croce unicamente per amore delle sue povere creature.Questo per i diavoli rimarrà per sempre incomprensibile e proprio per questo causa della loro eterna dannazione. E di conseguenza vogliono spingere anche noi a fuggire dalla materia da loro maledetta verso un mondo onirico e falso.
Macchiavelli:il fine giustifica i mezzi, serpente nell’eden: non è così, diventerai anzi migliore, sinedrio:scendi dalla Croce e Ti crederemo, vaticano oggi: cambiamento cambiamento cambiamento per migliorare il mondo.angela