di Luca Fumagalli

Nell’epistolario tolkieniano vi sono molteplici allusioni al legame esistente tra la storia della caduta di Numenor e il mito atlantideo raccontato da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia (quest’ultimo, incompiuto, è la continuazione del primo). In una lettera, ad esempio, Tolkien scrive: «Numenor è la mia personale versione del mito e della tradizione di Atlantide, adattato alla mia mitologia. Di tutte le immagini mitiche e di tutti gli archetipi questa è quella più profondamente radicata nella mia immaginazione, e per molti anni ho avuto un sogno ricorrente su Atlantide: l’onda stupenda e ineluttabile che avanza dal mare inghiottendo la terra, a volte un’onda oscura, a volte verde e illuminata dal sole».

Protagoniste dei dialoghi platonici sono due città, l’Atene delle origini e Atlantide, che assumono un ruolo specifico: la prima rappresenta l’ordine, mentre la seconda incarna la cupidigia, la bramosia del potere e della ricchezza. «Atene vince», scrive Chiara Nejrotti nell’articolo Da Atlantide a Numenor, «perché le società sane, basate sulla saggezza e la giustizia sono destinate a trionfare sulla decadenza arrogante di chi ha perso il contatto con le fonti autentiche ed originarie del proprio potere». Più che un’utopia, come evidenzia Eric Voegelin nel suo commento al Timeo e al Crizia, l’Atlantide di Platone è dunque un anti-modello politico, l’incarnazione di una sregolata sete di dominio, di una volontà di potenza che conduce tutt’al più a uno splendore transitorio, corrotto dal marchio luciferino. Il benessere che vi si trova è guastato dall’avidità e dall’arroganza. Del resto Atlantide, sempre citando Voegelin, è «un’orgia di pianificazione razionale», in cui si fa un gran parlare di regole e infrazioni, ma non si fai mai accenno alla giustizia. È una sorta di tecnocrazia – non molto diversa da quell’ideale città della scienza e della tecnica descritta ne La Nuova Atlantide di Francesco Bacone – fondata sulla ragione pratica e sulla tirannide, e più di un indizio suggerisce che tra la popolazione serpeggia il malcontento.

Atene, sebbene meno progredita rispetto alla civiltà atlantidea, non è fondata sulla voracità ma sulla sapienza divina. Nel medesimo tempo, però, la sua vittoria è effimera perché anch’essa è destinata infine ad essere distrutta, venendo inghiottita dalla terra come la città rivale, senza alcun criterio di giustizia (nel racconto platonico non vi è evidentemente spazio per il lieto fine).

Il mito di Tolkien, similmente a quello di Platone – tra l’altro entrambi ambientati in un ipotetico passato del mondo – è un valido esempio di teologia politica, per certi versi sovrapponibile anche all’episodio biblico della torre di Babele. Il lettore assiste non solo alla sfortunata vicenda di un sovrano corrotto che si trasforma in dittatore, ma a quella di un re il cui declino va di pari passo con la sua sottomissione a Sauron. A fare da contraltare questa volta non vi è un’altra città, ma un pugno di ribelli. Elendil, il loro capo, dà il via alla rivolta con il gesto significativo di narrare al figlio la storia passata di Numenor, quando il male non era ancora penetrato nella mente degli uomini.

I Numenoreani, infatti, sono sempre più invidiosi dell’immortalità degli Elfi e a nulla valgono le spiegazioni dei Valar che insistono nel ricordare loro come la morte non sia una punizione, ma un dono di Ilúvatar. Incapaci di vedere le differenze tra i due popoli sul piano metafisico, gli Uomini sostengono che a loro è ingiustamente richiesto di avere una «cieca fiducia, e una speranza senza certezza». Sauron, con la solita astuzia, li tramuta poco alla volta in adoratori di Melkor, con tanto di tempio d’oro e sacrifici umani (nella speranza di allontanare lo spettro della morte); i Numenoreani perdono così la scintilla divina che è in loro degenerando nella malattia e nella follia. Secondo Hren, autore di Middle‑earth and the Return of the Common Good: «Come gli Atlantidei, che credevano di aver raggiunto la felicità mentre si trovavano al culmine della corruzione, in questo momento oscuro della storia i Numenoreani credono che, per quanto non siano più felici, stiano prosperando e diventando più forti». Quando poi il sovrano dichiara guerra ai Valar, Numenor viene punita da Ilúvatar con l’inabissamento: la caduta dell’umanità, come appare evidente, è diretta conseguenza della caduta prima, quella di Melkor. 

Sauron, adoratore del vuoto, sogghigna di gusto persino nel momento in cui anche il suo trono nel tempio sta venendo inghiottito dal mare. Al pari di Nietzsche, ride di fronte all’inadeguatezza dell’uomo, ma a differenza dell’übermensch non può creare nulla, può solo distruggere, come Melkor. Ed è così che torna alla Terra di Mezzo privo di corpo, pura ombra.

Per fortuna, nella storia di Numenor l’esito finale non è una tragedia: al piccolo resto dei fedeli di Ilúvatar è concesso di continuare a vivere e prosperare. Citando il Silmarillion, «per grazia dei Valar, Elendil e le sua gente furono risparmiati dalla rovina di quel giorno». Questo nuovo esempio tolkieniano di “eucatastrofe” ha anche un riverbero per nulla trascurabile sul piano politico, dal momento che Elendil e i suoi, una volta giunti nella Terra di Mezzo, non si limitano a sopravvivere, ma fondano dei regni che permettono loro di continuare la battaglia contro Sauron, facendo leva soprattutto sulla nostalgia per quel Paradiso terrestre che era la loro casa.

La riscrittura da parte di Tolkien del mito di Atlantide fu, almeno in parte, pure una critica implicita al nazismo. È noto, infatti, come il professore di Oxford mal sopportasse la lettura ideologica della cultura norrena operata da Hilter: «Ho passato la maggior parte della mia vita […] studiando argomenti germanici (nel senso generale che include l’Inghilterra e la Scandinavia). Nell’ideale “germanico” c’è molta più forza (e verità) di quanto la gente ignorante immagini. Ne fui molto attirato da studente (quando suppongo Hitler si dilettasse di pittura e non ne aveva ancora sentito parlare), per reazione agli “studi classici”. Si deve capire il lato buono che c’è nelle cose, per comprenderne il vero lato cattivo. […] Eppure suppongo di sapere meglio della maggior parte delle persone quale sia la verità su queste sciocchezze “nordiche”. In ogni caso, ho in questa guerra un bruciante rancore personale, che probabilmente farebbe di me un soldato migliore a 49 anni di quanto lo fossi a 22, contro quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler […]. Ha rovinato, pervertito abusato e reso per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e provato a presentare nella sua vera luce». Il mito di Atlantide, in particolare, rientrò nelle teorie razziali elaborate da Julius Evola e Alfred Rosenberg (anche queste avversate da Tolkien); tra l’altro la riscoperta di tracce del popolo Atlantideo fu uno dei motivi che spinse Himmler a organizzare la sue famose spedizioni in Tibet.

L’utopia di Atlantide, dipinta in toni tragici da Platone, si associa perfettamente al sogno nazista di un nuovo ordine mondiale. Come nota Christopher Tolkien in The Lost Road and Other Writings, alla fine della caduta di Numenor si scopre un vaso di Pandora dai risvolti sinistri: ne emergono storie di strane sparizioni di dissidenti, imprigionamenti, torture, misteri, propaganda – in forma di riscrittura della storia – e una preoccupante moltiplicazione degli strumenti di guerra. Per Hren: «Quando Tolkien riscrive il mito dell’Occidente […], lui, come Platone, si sposta dall’utopia verso l’apocalisse. Similmente al Platone della Repubblica, resiste a quella tentazione che suggerisce che sia possibile stabilire su questa terra una città ideale; o, piuttosto, la sua narrativa combatte quei progetti politici che, cercando l’immortalità, si concludono con un culto della morte caratterizzato dal sacrificio umano, che inquietantemente ricordano il Terzo Reich».

È solo a questo punto, quando si è sull’orlo del baratro, che l’ “eucatastrofe” si insinua nel legendarium per rincuorare il lettore: la speranza, ammonisce Tolkien, non deve mai venire meno.


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