a cura di Giuliano Zoroddu

La cristianizzazione dell’impero romano, guadagnate a prezzo di sangue dalla Chiesa, fu stabilita progressivamente da Costantino Magno, il primo degli imperatori cristiani, fino all’imperato Teodosio. Ciò fu fatto con l’attitudine anzitutto dei principi, che si sottomisero personalmente (fatta salva l’umana fragilità) alle leggi di Dio e della sua Chiesa, ma anche e soprattutto con una politica che, per usare una terminologia più moderna, attuò la regalità sociale di Cristo. Fondamentali in questo processo furono i decreti (riportati di seguito) emanati dall’imperatore Teodosio Magno (da solo o coi colleghi) volti alla repressione del culto pagano (culto offerto ai demoni) e che furono bene accolti dalla Chiesa, in quanto non ancora invasa da liberali e modernisti araldi della libertà religiosa. Anche grazie ad essi, san Leone Magno poté dire che Roma che “schiava di tutti gli errori; e perché non ne rigettava alcuno, credeva di potersi attribuire molta religiosità” fu resa “da maestra dell’errore … discepola della verità” [1] .

Sant’Ambrogio assolve Teodosio dopo la pubblica penitenza
(Pierre Subleyras, 1745).

«Gli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti.
Editto al popolo della città di Costantinopoli.
Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che il divo apostolo Pietro ha insegnata ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all’insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.
Dato in Tessalonica nel terzo giorno prima delle calende di Marzo (27 febbraio 380), nel consolato quinto di Graziano Augusto e primo di Teodosio Augusto» [2]

«L’Augusto Imperatore Teodosio ad Albino, prefetto del pretorio.
Nessuno violi la propria purezza con riti sacrificali, nessuno immoli vittime innocenti, nessuno si avvicini ai santuari, entri nei templi e volga lo sguardo alle statue scolpite da mano mortale perché non si renda meritevole di sanzioni divine ed umane. Questo decreto moderi anche i giudici, in modo che, se qualcuno dedito a un rito profano entra nel tempio di qualche località, mentre è in viaggio o nella sua stessa città, con l’intenzione di pregare, venga questi costretto a pagare immediatamente 15 libbre d’oro e tale pena non venga estinta se non si trova innanzi a un giudice e consegna tale somma subito con pubblica attestazione. Vigilino sull’esecuzione di tale norma, con egual esito, i sei governatori consolari, i quattro presidi e i loro subalterni.
Milano, il sesto giorno delle calende di marzo (24 febbraio 391) sotto il consolato di Taziano e Simmaco» [3]

«L’Augusto Imperatore al prefetto Evagrio e a Romano conte d’Egitto.
A nessuno sia accordata facoltà di compiere riti sacrificali, nessuno si aggiri attorno ai templi, nessuno volga lo sguardo verso i santuari. Sappiano che tali ingressi profani sono sbarrati dalla nostra legge, così che coloro i quali tramassero qualcosa che abbia ad oggetto queste divinità, tengano fermo che non vi sarà per loro indulgenza alcuna. Anche il giudice che, durante l’esercizio della sua carica, ha fatto ingresso, sacrilego trasgressore, in quei luoghi contaminati, confidando nei privilegi che derivano dalla sua posizione, sia costretto a versare nelle nostre casse una somma pari a 15 libbre d’oro, parimenti i suoi collaboratori, a meno che non vi siano opposti con tutte le loro forze.
Dato ad Aquilea il giorno 16 delle calende di luglio (16 giugno 391) sotto il consolato di Taziano e Simmaco» [4]

«Gli augusti imperatori Teodosio, Arcadio e Onorio a Rufino prefetto del pretorio.
Nessuno, di qualunque genere, ordine, classe o posizione sociale o ruolo onorifico, sia di nascita nobile sia di condizione umile, in alcun luogo per quanto lontano, in nessuna città: scolpisca simulacri insensati, od offra vittima innocente, o bruci segretamente un sacrificio ai lari, ai geni, ai penati, accenda fuochi, offra incensi, apponga corone. Poiché se si udrà che qualcuno avrà immolato una vittima o avrà consultato viscere, questi sia accusato di lesa maestà e ne riceva la giusta sentenza, anche se non ha cercato di far nulla contro il principio della salvezza o contro la salvezza. È sufficiente infatti per l’accusa di crimine il volere contrastare la stessa legge, perseguire le azioni illecite, manifestare le cose occulte, tentare di fare le cose interdette, cercare una salvezza diversa, promettere una speranza diversa. Se qualcuno poi ha venerato opere mortali e simulacri mondani con incenso e – cosa ridicola – teme coloro che essi rappresentano, o ha incoronato alberi con fasce, o ha eretto altari con zolle scavate, e ha tentato, con somma ingiuria della religione, di venerare le immagini vane: questi è reo di lesa religione. Sia questi multato nelle cose di casa o nel possesso, essendosi reso servo della superstizione pagana. Tutti i luoghi poi nei quali siano stati offerti sacrifici d’incenso, se il fatto viene comprovato, siano incamerati nel nostro fisco … [si stabiliscono pene pecuniarie ulteriori] …
Dato a Costantinopoli, il sesto giorno delle idi di novembre (8 novembre 392), sotto il consolato di Arcadio e Rufino» [5]


[1] S. Leone Magno, Sermone nel natale dei santi Apostoli Pietro e Paolo, PL 54, coll. 422-428. La Chiesa Romana ne legge una parte nell’ufficio di Mattutino del 29 giugno: “Senza dubbio, dilettissimi, il mondo intero prende parte a tutte le nostre sante solennità, e la pietà d’una stessa fede, esige che si celebri in ogni luogo con gioia comune ciò che si commemora compiuto per la salvezza di tutti. Tuttavia la festa odierna, oltre la venerazione che s’è acquistata per tutto il mondo, deve avere nella nostra Città un culto speciale ed un’allegrezza particolare; così che là dove i principi degli Apostoli morirono sì gloriosamente, ci sia ancora, il giorno del loro martirio, maggiore esplosione di gioia. Perché son dessi, o Roma, gli eroi che fecero risplendere ai tuoi occhi il Vangelo di Cristo; e che da maestra dell’errore; ti resero discepola della verità. Son dessi i tuoi padri, i veri pastori, che, per introdurti nel regno celeste han saputo fondarti molto meglio e ben più felicemente di coloro che ebbero cura di porre le prime fondamenta delle tue mura; dei quali colui che ti diede il nome si macchiò dell’uccisione del proprio fratello. Son dessi, che ti hanno innalzata a tanta gloria, che, divenuta nazione santa, popolo eletto, città sacerdotale e reale e, per la Sede augusta del beato Pietro, la capitale del mondo intero, stendi la tua supremazia, grazie alla religione divina, assai più lontano che non fu per la dominazione terrena. Dacché, sebbene resa potente da molte vittorie, avessi steso il diritto del tuo impero e su terre e su mari, tuttavia quello che ti assoggettarono le fatiche della guerra è assai meno di quello che ti ha sottomesso la pace cristiana. D’altra parte conveniva assai meglio col piano dell’opera divina, che molti regni fossero riuniti sotto un medesimo impero, perché così la predicazione avesse facile accesso e pronta diffusione fra i popoli sottomessi alla autorità suprema d’una stessa città. Ma allorquando questa città, ignara dell’autore della sua elevazione, dominava su quasi tutte le nazioni, essa era schiava di tutti gli errori; e perché non ne rigettava alcuno, credeva di potersi attribuire molta religiosità. Quindi quanto più strettamente il diavolo la teneva incatenata, tanto più mirabilmente è stata da Cristo liberata” (divinumofficium.com).
[2] Codice teodosiano, XVI. 1.2
[3] Ivi, XVI.10.10
[4] Ivi, XVI.10.11
[5] Ivi, XVI.10.12