di Luca Fumagalli

Il cinquantenne Scobie è un vicecommissario di polizia. Da quindici anni lavora in Nigeria per conto del governo inglese. L’incarico non è certamente facile, specie se ci si trova nel mezzo della Seconda Guerra Mondiale con i francesi di Vichy poco al di là del confine; ma Scobie è quello che si definirebbe “un brav’uomo”, un agente di prim’ordine, un marito fedele e un cattolico devoto. Purtroppo, però, ogni volta che all’orizzonte si profila la possibilità di una promozione il suo nome viene sistematicamente scartato: forse è troppo onesto per fare carriera in una colonia dove è il doppiogioco a dominare, talmente incorruttibile da suscitare, per paradosso, un fiume carsico di piccole e grandi calunnie sul suo conto («Questo non è un clima in cui ci si possano permettere emozioni violente, è un clima adatto per la grettezza, la malignità e per lo snobismo»). Nemmeno la presenza di Luisa, la moglie, è di qualche consolazione. Tra i due, infatti, le cose non vanno molto bene e l’amore di un tempo si è stemperato in una monotona routine, annullato dal triste ripetersi della vita. La coppia aveva pure una figlia, Catherine, morta prematuramente diversi anni prima.

Per cercare di salvare il proprio matrimonio, Scobie si affida al trafficante Yusef per un prestito, sprofondando poco alla volta in una trappola di sospetti e ricatti. Come se non bastasse, mentre fa la sua comparsa in scena il giovane Wilson – poeta dilettante follemente innamorato di Luisa, sospettato di essere un agente governativo sotto copertura – il vicecommissario finisce tra le braccia di Elena, sopravvissuta per miracolo all’affondamento della nave su cui stava viaggiando con il marito appena sposato, morto nell’incidente. Tra i due inizia così una relazione clandestina dai tratti morbosi, fatta di piaceri e litigi, di perenni insoddisfazioni e di pianti consolatori, ma mai realmente felice. Scobie, sempre più oppresso dalla colpa – «quel terribile, impotente senso di responsabilità e di pietà» – e devastato dal dolore che ha provocato alle persone a lui più vicine, reca offesa a Dio con una comunione cosciente in stato di peccato mortale; infine, per salvare sia la moglie che l’amante, decide di suicidarsi con una dose letale di sonniferi: «E presto avrebbe avuto davanti solo un’azione non ripetibile: l’atto d’ingoiare. Stette con la bottiglia di gin in mano e pensò: e poi comincerà l’Inferno, ed esse saranno salvate da me, Elena, Luisa – e Tu».

Scritto nel 1948, Il nocciolo della questione (The Heart of the Matter) è con Il potere e la gloria, Fine di una storia, Un caso bruciato e Brighton Rock uno dei migliori romanzi di Graham Greene. Ricco di risvolti umani profondi, il libro mette a fuoco la contrapposizione tra Fede e mondo, con particolare attenzione al mistero psicologico del peccato. Temi tipici di Greene, la cui narrativa è il grido di dolore di un’anima sradicata, modernissimo esempio di un cattolicesimo tormentato, costantemente in bilico tra religione e scetticismo, obbedienza e ribellione (è noto che Greene, più che uno scrittore cattolico, preferiva definirsi «uno scrittore che è cattolico», a marcare una certa distanza tra le due dimensioni). In altre parole, l’autore inglese si fa testimone del suo tempo riscoprendo il contatto con l’individuo e con il dolore: «A volte penso che la ricerca della sofferenza e il ricordo della sofferenza», dichiara uno dei personaggi di Un caso bruciato, «siano i soli mezzi di cui disponiamo per metterci in contatto con l’intera condizione umana. Soffrendo, entriamo a far parte del mito cristiano».

In una colonia in cui è il torpore a dominare – per moltissime pagine sembra non accadere nulla, nonostante la guerra in corso – dove si conduce una vita monotona fatta di occasionali festeggiamenti e di tanti sbadigli, resa solo un po’ più tollerabile dal brivido del pettegolezzo, Greene inserisce il lettore in perfetta simbiosi con l’ambiente. Del resto già Evelyn Waugh nell’articolo-recensione “Felix Culpa” aveva esaltato l’abilità del collega nel ricostruire con la penna l’Africa e le sue disperate lusinghe, dove fascino e desolazione vanno a braccetto. Le noiose serate in cui Wilson e l’amico Henry passano le ore schiacciando blatte con le loro ciabatte sono perciò l’immagine, fin troppo eloquente, di un mondo sull’orlo del baratro, abitato da personaggi, come padre Rank, sorprendentemente inconsistenti: «I morenti, ecco per chi sono qua. Mi mandano a chiamare quando sono moribondi. Non sono mai stato di alcuna utilità ai vivi».

Tuttavia ne Il nocciolo della questione – il cui stile narrativo richiama la tecnica cinematografica, con immagini brevi e meticolose interrotte da stacchi netti o dissolvenze in flash-back – la vera impresa dell’autore è quella di condurre chi legge non solo dentro un ambiente, ma anche e soprattutto sotto la pelle del protagonista, un uomo ordinario, che non ha nulla di romantico né di particolarmente affascinante, se non fosse per quella colpa lacerante che lo consuma dall’interno. Tutto ciò che Scobie disidera è solo un po’ di pace: «Pace, gli sembrava la più bella parola che esistesse nella lingua umana: vi do la Mia pace, vi lascio la Mia pace. O Agnello di Dio, che prendi su di Te i peccati del mondo, dacci la Tua pace. Durante la messa, si premeva le dita contro gli occhi per impedire che ne scorressero le lacrime della brama».

Eppure la sua coscienza continua a tormentarlo. Tra monologhi interiori ed impasse esistenziali, invischiato in un dramma psicologico-religioso che non ha soluzione, l’angoscia più inumana fa scivolare Scobie verso la tragedia finale, accolta da quest’ultimo con una lucidità disarmante: «La disperazione è il prezzo che si paga per essersi proposti una meta che non si può umanamente raggiungere. È, si dice, il peccato irremissibile; ma è un peccato che il corrotto e il malvagio non perpetra mai. Costui spera sempre, non raggiunge mai il gelo della consapevolezza di essere totalmente fallito. Solo l’uomo di buona volontà si porta sempre in cuore questa capacità di dannazione».

Con amara ironia, mentre il protagonista assiste al proprio decadimento morale, la vita inizia a offrirgli le migliori possibilità, a partire dal lavoro, quando finalmente gli viene proposto un avanzamento di carriera. Nonostante ciò, Scobie, che potrebbe risolvere ogni cosa con qualche menzogna ben piazzata e un ritorno all’ordine in campo sentimentale, non retrocede di un millimetro dai propri intendimenti, preferendo morire piuttosto che piegarsi alla logica del compromesso. Animato da uno struggente titanismo tragico, per quanto incerto se le sue azioni siano mosse più dall’egoismo che dall’altruismo – ma non certo dalla carità, parola che lui stesso giudica troppo elevata per descrivere l’origine della sua battaglia interiore – il povero vicecommissario non vuole rinunciare alla croce, anche se sa bene che questa lo sta lentamente schiacciando col suo peso.

Com’è facile intuire, dato i contenuti controversi e decisamente poco ortodossi – emblematica, in tal senso, la scena della comunione sacrilega, con uno Scobie che prega così: «Oh Dio, ti offro la mia dannazione. Prendila. Adoperala per loro…» – all’epoca della pubblicazione Il nocciolo della questione suscitò moltissime polemiche, sia presso i cattolici che presso i protestanti. Se Waugh, insieme a pochi altri, si schierò a difesa del libro – tanto che pure il Guy Crouchback di Uomini alle armi è un attento lettore del romanzo di Greene – molti furono i critici; Tom Burns, comproprietario del «Tablet», ad esempio non si fece scrupoli a definire l’autore un giansenista di piccolo cabotaggio, mentre il governo irlandese arrivò addirittura a proscrivere il volume come osceno (nel 1953, in un clima più sereno, fu tratto dal libro un film omonimo, conosciuto in Italia col bizzarro titolo L’incubo dei Mau Mau, e nel 2005 la rivista «Time» premiò Il nocciolo della questione come uno dei cento migliori romanzi inglesi del ventesimo secolo).

Scobie, colpevole del più terribile dei peccati per eccesso di umiltà, sarà assolto o condannato? È questo, in fondo, il vero “nocciolo della questione”, e Greene lascia astutamente il quesito senza risposta: «Non crediate che voi o io sappiamo qualcosa intorno alla misericordia di Dio. La Chiesa conosce tutte le regole. Ma non sa ciò che avviene in un solo cuore umano».