di Luca Fumagalli
Il potere e la gloria (The Power and the Glory), pubblicato per la prima volta nel 1940, è il romanzo più famoso di Graham Greene, una pietra miliare della letteratura cattolica del Novecento, e l’unico della vasta bibliografia dello scrittore inglese a presentarsi nell’inedita veste di opera “a tesi”, scritta cioè seguendo una struttura già chiaramente definita in partenza (ad ammetterlo è lo stesso Greene nel volume autobiografico Vie di fuga). Questo aspetto, ma non solo, contribuisce a conferire a Il potere e la gloria la patina di una dolorosa quanto struggente favola morale.
La storia, ambientata nel Messico degli anni Trenta, durante le persecuzioni anticattoliche da parte del governo, racconta la rocambolesca fuga di un sacerdote braccato da un gruppo di soldati, costretto a viaggiare di notte sotto mentite spoglie e a celebrare messa dove capita. Stanco e in difficoltà, la sua esistenza randagia, in particolare dopo l’incontro con un meticcio avvezzo al tradimento, pare destinata a un terribile epilogo.
Greene, che aveva conosciuto da vicino il dramma dei cattolici messicani, i cosiddetti “Cristeros”, e lo aveva raccontato nel 1939 in Le vie senza legge, un libro a metà tra inchiesta giornalistica e racconto di viaggio, parte da un preciso spaccato storico per imbastire una narrazione dal significato universale – che tratta della crisi di un’intera civiltà – dove le coordinate spazio-temporali finiscono per importare poco o nulla se paragonate al tragico titanismo dei protagonisti. Secondo uno schema che si ripete in tutta la produzione dello scrittore, dal vago retrogusto manicheo, nel romanzo si assiste a un palleggio stordente tra perdizione e redenzione, in cui i ruoli tradizionali e un po’ stereotipati del santo e del peccatore vengono ribaltati di continuo. Conseguentemente, pagina dopo pagina, chi legge si trova sempre più smarrito in un universo grottesco, dominato dalla disillusione, privo di certezze. D’altronde Greene è abilissimo nel mischiare le carte in tavola, fuggendo dalla tentazione di semplificare una realtà complessa come quella dell’animo umano, attraversato da mille e più contraddizioni.
Per quanto appassionato studioso dei martiri gesuiti durante il regime elisabettiano e legato alla figura del sacerdote messicano Miguel Agustín Pro – fucilato senza processo, a causa della sua attività pastorale, nel 1927 – lo scrittore dà forma a dei protagonisti peculiari, diametralmente opposti rispetto a quelli tradizionalmente offerti della narrativa cattolica britannica del XX secolo: infatti, se il sacerdote è un «prete spugna» (the whisky priest), un ubriacone con una figlia illegittima, che celebra messa in peccato mortale e che è assillato solamente dalla preoccupazione di raggiungere il confine per salvarsi la pelle, il luogotenente del drappello che è sulle sue tracce mostra, al contrario, un’integrità morale decisamente fuori dal comune, degna di un vero missionario, e questo nonostante sia il servitore di un governo dichiaratamente massonico e violento. L’effetto è a dir poco stordente, al limite del nauseabondo, volutamente ricercato da Greene non per puerile gusto della provocazione, ma per dialogare onestamente con un lettore che è preso in contropiede, ed perciò privo delle barricate del pregiudizio. La “normalizzazione”, se così la si vuol definire, arriva solamente nel finale, quando, a causa di una serie di circostanze da versione sgraziata di Quo vadis?, il sacerdote si ritrova suo malgrado a indossare i panni del santo, per lui poco consoni, lavando col sangue del martirio quelle colpe che da troppo tempo gravavano sulla sua coscienza (è la gloria dell’eternità che trionfa sul potere, sulla meschinità orizzontale e mortifera del mondo).
La fuga del sacerdote anti-eroe – «lui portava l’inferno con sé» – come tutti fin troppo fragile nelle circostanze dolorose che deve affrontare, si trasforma in una sorta di riflesso della condizione dell’uomo moderno che, più che scappare dalla tentazione del peccato, cerca in ogni modo di evitare un Dio che è misericordiosamente sulle sue tracce e con cui è troppo oneroso confrontarsi (le affinità col poema The Hound of Heaven di Francis Thompson sono fin troppo evidenti). A livello allegorico, il romanzo, simile a una tragedia del XVII secolo nella descrizione della virtù e del vizio, può essere letto proprio come un tentativo fallimentare di evitare la santità (il ritornello del sacerdote che confessa le sue colpe, ritenendosi un grande peccatore, non fa che sottolinearlo ciclicamente).
Tuttavia, nell’epilogo, quella della Fede si conferma l’unica alternativa credibile al nulla in cui è stato inghiottito il Messico, con i suoi villaggi soffocati da una calura insopportabile, guastati dal puzzo di sudore e di corruzione, abitati dai medesimi ex esseri umani che fanno capolino anche nelle opere di Eliot e Waugh: «Era per quel mondo che Cristo era morto; quanto più male si vedeva e si sentiva in giro, tanto più grande era la gloria circonfusa attorno alla sua morte. È troppo facile morire per le cose buone o belle, per la patria, i figli, la civiltà… ma ci voleva un Dio, per morire per gli indifferenti e i corrotti». Del resto, la stessa figlia del sacerdote, immagine ineliminabile dei suoi sbagli, reca con sé la traccia di una carità divina in grado di trarre dal male un bene più grande, anticipando in qualche modo la coda speranzosa del romanzo.
Scritto con uno stile agile e avvolgente, Il potere e la gloria – da cui sono state tratte varie riduzioni per il cinema, per la tv e per il teatro – si risolve, per certi versi, in un lavoro anti-agiografico, così inusuale che molti anni dopo la pubblicazione, nel 1953, addirittura il Sant’Uffizio intervenne per intimare a Greene di modificarne alcuni passaggi, giudicati eccessivamente diretti e sconvenienti (la cosa finì in un nulla di fatto); ciononostante, o forse proprio per questo, l’opera riesce efficacemente nel difficile compito di mostrare cosa significhi davvero essere un santo, cioè non un Übermensch, ma un semplice uomo – con tutto il suo portato di cedimenti e vigliaccherie – che si converte, che torna sulla giusta strada, che impara ad accogliere le circostanze e il prossimo con totale libertà, capace inoltre di arrendersi alla volontà del Creatore e di affidarsi fiduciosamente al Lui, persino a costo della propria vita.
Il «prete spugna», a differenza del suo confratello, padre José, che si è sposato per evitare la prigione, e del luogotenente, uno spirito indubbiamente nobile ma capace solo di soffocare la vita, si dimostra fedele fino in fondo alla sua vocazione, a quell’ideale che in gioventù lo aveva portato ad abbracciare il sacerdozio. Ecco allora che il suo sacrificio, consumato al centro di un universo malvagio fatto di polarità irrisolvibili quali speranza e sconforto, bellezza e sofferenza, non è inutile ed è anzi destinato a portare grandi frutti: già la notte stessa dell’esecuzione un nuovo missionario, in incognito, fa la sua comparsa in città.