di Luca Fumagalli

«Il vialetto serpeggiava tra gli alberi di arance e limoni, e al posto dei pacifici ciottoli rossi c’erano, ogni tanto, mattonelle con accorati appelli all’ispirazione. “Sogna” diceva uno, con la parola incisa dal laser nella pietra rossa. “Partecipa” diceva un altro. Ce n’erano a dozzine: “Socializza”, “Innova”, “Immagina”. Per poco non calpestò la mano di un giovanotto con una tuta grigia; stava installando un’altra mattonella che diceva: “Respira”».
È questa una delle prime immagini de Il Cerchio (2013) dell’americano Dave Eggers, romanzo che racchiude in un involucro da sogno, come quello di ogni utopia, un mulinello distopico di devastazione e annientamento.
Mae, la giovane protagonista, è appena entrata nel vastissimo campus della società che dà il titolo al libro, il cui logo – un cerchio intorno a un reticolo di maglia con una “c” minuscola al centro – è tra i più conosciuti al mondo. Screziati dalla luce della California, gli edifici sono un simbolo di modernità ed efficienza, rappresentano quel futuro che il caotico mondo circostante, una Babele disordinata, non può nemmeno immaginare. Dopo esperienze lavorative tutt’altro che appaganti, Mae può finalmente iniziare il suo nuovo impiego. Fondamentale per l’assunzione è stata la raccomandazione dell’amica Annie, ex compagna di college e ora parte della Gang dei 40, le menti migliori della società, al corrente dei piani e delle informazioni più segrete. Per Mae il Cerchio è sinonimo di sicurezza e di pace; tra l’altro i dipendenti godono di numerosi vantaggi quali uno stipendio da capogiro, un’assicurazione gratuita estesa all’intera famiglia e un’assistenza medica di livello. Inoltre le persone affidabili fanno carriera piuttosto in fretta, e i dirigenti sono scelti quasi esclusivamente dall’interno. Vi sono pure le feste serali, le rassegne culturali e le squadre sportive. È come essere in paradiso: «Chi poteva creare l’utopia se non degli utopisti?».

A fondare il Cerchio, solo qualche anno prima, sono stati i “tre saggi”: Ty Gospodinov, ragazzo prodigio al limite dell’Asperger, Tom Stenton, il travolgente amministratore delegato, e Eamon Bailey, la faccia pubblica e rassicurante della società. Ty, grazie al suo genio creativo, ha dato il la all’impresa con l’invenzione dello Unified Operation System e della modalità TruYou, il sistema d’account definitivo, che ha assommato in un’unica identità virtuale le password dei singoli utenti e i vari sistemi di pagamento online. Lo Unified Operation System e TruYou – dall’inglese true you, il “vero tu”, un nome ironico, che allude al tema centrale del romanzo di Eggers – sono stati la rivoluzione di internet, i traguardi inaugurali del Cerchio, il primo passo verso la creazione di un mondo migliore, efficiente, totalmente connesso e votato alla trasparenza più assoluta. Da quel momento si sono succedute a un ritmo incalzante nuove invenzioni che hanno invaso il mercato, decretando il successo della società su scala planetaria.
Ciononostante le avvisaglie di uno scenario perturbante non mancano fin dall’inizio: Mae viene subito dotata di un tablet e di un telefono cellulare nei quali vengono riversati i suoi dati, le sue canzoni, le sue foto e i suoi messaggi, tutte informazioni accessibili ai colleghi, che resteranno visibili pure nei decenni a venire (vale la pena notare come una situazione simile sia già parte del presente, una realtà in cui ciò che viene postato su un qualsiasi social network risulta fin da subito incancellabile e fruibile a chiunque possa o voglia trarne profitto).
Col passare del tempo, l’entusiasmo iniziale della protagonista non si estingue. Il lettore, al contrario, comincia a intuire che il Cerchio nasconde un oscuro segreto e che Mae sta lentamente scivolando verso una servitù volontaria. Sulla scrivania della ragazza, settimana dopo settimana, aumenta il numero degli schermi, ognuno dei quali è adibito a un compito preciso. Statistiche, numeri e rapporti si susseguono su di essi a un ritmo martellante. L’impiego alla Customer Experience è un continuo rispondere a domande, contattare i clienti e ottenere valutazioni del servizio. Mae passa sempre più tempo al lavoro; per la pausa pranzo c’è giusto qualche minuto, i genitori li vede di rado, e anche l’amato kayak – svago solitario e preziosa occasione per staccare la spina quando la settimana si fa pesante – è un lontano ricordo. Da qualche tempo ha poi preso l’abitudine di fermarsi per la notte al campus: il Cerchio mette a disposizione dei dipendenti dormitori puliti e attrezzati. Con tali comodità non ha senso fare ogni sera un lungo viaggio per tornare a casa.

Ma lo strappo più forte con la realtà si consuma con la crescente dipendenza di Mae nei confronti dei social network. Per aumentare il senso di comunità all’interno del Cerchio, la società incentiva i dipendenti a condividere in internet tutto ciò che fanno. Il PartiRank misura il grado di partecipazione di ciascun utente. Ogni volta che si posta qualcosa, che si fa un commento o si prende parte a un evento, si sale di livello, scalando la classifica interna della compagnia. Altri parametri come il Conversion Rate e il Retail Raw misurano invece la portata economica delle iterazioni sulla rete: l’acquisto provocato o suggerito da una raccomandazione dell’utente aumenta il punteggio di quest’ultimo. Stare dietro a tutto non è facile, e la protagonista sacrifica al miglioramento del suo PartiRank un numero crescente di ore al giorno. L’ambiente di lavoro “umano” di cui si fa un gran parlare nel campus è, in realtà, una prigione virtuale che non lascia scampo.
L’ansia di visibilità e condivisione, associata ai ritmi stressanti al computer, generano un cortocircuito fisico ed emozionale in Mae che non tarda a manifestarsi. La mente, ormai iperattiva, concede solo poche ore di sonno, e il carattere diviene fragile, esposto a ogni più lieve pungolatura. L’uomo trasparente, ideale del Cerchio, è un uomo inconsistente. Il potere ha ora in mano uno strumento di coercizione perfetto: dal momento che la panacea è soltanto il progresso tecnologico, la costante autodenuncia, il beato e sciocco consenso entusiastico alla confessione di tutto, si estrinseca nel disinvolto uso delle carte di credito, nei post e nelle dichiarazioni fatte sui social network. In sostanza, mentre prima la servitù, l’assoggettamento, era qualcosa di obbligato per non incorrere in una punizione, i nuovi mezzi fanno leva sull’instillazione irrazionale di una volontà presuntamente autonoma di andare proprio nella direzione che ci si lusinga di aver scelto.
Gli inventori del Cerchio aspirano all’onniveggenza, all’onniscienza, dando vita a una cupola di controllo capillare e diffusa. Attraverso minuscole telecamere denominate SeeChange, sparse in tutto il mondo e interconnesse affinché tutti possano vedere ogni cosa in tempo reale, desiderano che ciò che accada sia conosciuto. Tale obiettivo assume i connotati di una battaglia morale quando si estende al miglioramento del sistema democratico, permettendo all’elettorato di seguire, ventiquattr’ore su ventiquattro, la vita di ogni politico americano: niente più voltafaccia o accordi sottobanco, tutto è svolto alla luce del sole, nella massima onestà.

La prima voce che si leva fuori dal coro è quella dell’ex fidanzato di Mae, Mercer: «Non è che non socializzo. Io sono abbastanza socievole. Ma gli strumenti che create voi in realtà producono bisogni di socialità innaturalmente estremi. […] I tuoi strumenti hanno elevato le chiacchiere, le dicerie e le congetture al livello della valida comunicazione tradizionale». Mercer, fiero artigiano dal fisico appesantito, abituato a lavorare con le mani, è il perfetto anti-modello dell’universo virtuale e patinato di cui la protagonista è parte, e perciò denuncia apertamente le contraddizioni insite nel nuovo Illuminismo dell’interconnessione perenne. Per lui il Cerchio è una setta che vuole impadronirsi della terra, è l’ombra di un imminente totalitarismo, e fa notare come tutti coloro che abbiano provato a screditarlo siano diventati subito vittima di accuse giuridicamente rilevanti e in tal modo messi a tacere e annientati. In un mondo senza oppressori, Mae si sta lasciando spontaneamente mettere dei lacci. La voce del ragazzo, così come, più avanti, quella del misterioso hacker Kalden, cade però nel vuoto, inascoltata.
L’eroina del Cerchio continua infatti la sua scalata all’Olimpo senza rendersi conto che si tratta di una discesa negli inferi. Le asimmetrie della sua esistenza – i rapporti con la famiglia, con Annie e con il fidanzato Francis, che contribuiscono a tenerla ancorata a un presente di affetti che è doloroso, ma pur sempre vero, concretissimo – vengono livellate da un sistema autoreferenziale che non ammette intrusioni. Mae giunge addirittura a offrirsi alla più totale trasparenza indossando un dispositivo che la rende costantemente visibile al suo milione e mezzo di follower e a chiunque altro.
Eppure, al di là delle critiche di Mercer, i segnali inquietanti continuano a tornare, come dimostra il crollo nervoso di Annie, che finisce in coma. La ragazza, cavia per un nuovo progetto che permette di ricostruire, spingendosi indietro per secoli, il proprio albero genealogico, scopre dei dettagli così raccapriccianti sui suoi antenati da uscirne devastata: «Veramente, non so se dovremmo sapere tutto». La montante semplificazione del linguaggio nel mondo della rete, poi, è un’evoluzione informaticamente avanzata della neolingua di Orwell, un vocabolario stringato che raccoglie sigle e termini insensati. Mae percepisce che la realtà introno a lei si sta assottigliando, sta diventando “finta”, e ogni tanto nell’animo avverte come il riaprirsi di un’antica ferita. Rompe i rapporti persino con la famiglia, ma queste cose non fanno altro che alimentare in lei il desiderio di andare oltre, di “completare il cerchio” fino a rendere ogni cosa possibile. Essere visti, d’altronde, è prova sufficiente della propria esistenza. Perché, dunque, non migliorarsi continuamente, fino a poter osservare e controllare tutto come un dio? La distopia – che la ragazza scambia scioccamente per utopia – sta per dilagare.

In una scena posta poco prima della conclusione del romanzo, la visibilità degli spettatori del programma SeeChange e la cecità vorace dello squalo compaiono insieme. La costante esposizione in un universo depurato da qualunque problema è una sorta di inno alla morte. Viene a mancare il viaggio di scoperta, il rischio, la lenta formazione che compie chi vive sul serio. Quell’universo di luce perenne vagheggiato dai fondatori del Cerchio è l’inizio di una società massificata, dove chi non si adegua viene eliminato (sorte condivisa da Mercer e di chi, come lui, non accetta di arrendersi al mostro). Essere social non equivale, dunque, a essere liberi, e Mae, che infine accetta quasi senza combattere il nuovo stato di cose, più che una Wonder Woman dell’Era digitale, è un essere diventato abietto, a tratti subumano, inchiodato a una sedia con lo sguardo ebete rivolto a troppi monitor, pieno di tic e nevrosi, e un cervello in pappa per le molteplici informazioni che è costretto a gestire. La distopia di Eggers, similmente al Cerchio, non lascia scampo.
Nel romanzo – da cui è stato pure tratto un film nel 2017, The Circle, con Tom Hanks ed Emma Watson nei panni dei protagonisti – non vi è infatti spazio per alcuna conclusione consolatoria. Il Grande Fratello vince ancora senza neanche la fatica di dover imporre alcunché: la sottomissione, a differenza di quanto accade nel capolavoro di Orwell, è spontanea sin dall’inizio.
Per chi fosse interessato ad approfondire i temi trattati nell’articolo e, più in generale, la letteratura distopica, si consiglia il saggio “Non c’è altra via che la notte. Distopie, antiutopie e futuri da incubo in letteratura” (La Vela, 2018), disponibile sia su Amazon che al seguente link: https://www.edizionilavela.it/prodotto/non-ce-altra-via-che-la-notte-distopie-antiutopie-e-futuri-da-incubo-in-letteratura/

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