di Giulia Bianco

Raccontare le bambine “reazionarie” è raccontare anche esistenze come quella della scrittrice O’ Connor, protagonista di una vita ritirata e metodica nella sua casa di campagna, circondata da pavoni e sorretta da due stampelle. Flannery è una bambina precoce e orgogliosa, che scrive fin da ragazzina, mettendo nella scrittura il suo dolore per la prematura perdita del padre, affetto da lupus, stessa malattia che stroncherà lei molto giovane. La sua vita così a stretto contatto con la malattia, vissuta in compagnia della madre, è una vita interessante, è il cammino di un’anima indomabile che non si lamenta del duro lavoro, ma ne fa un vanto, occasione d’oro per riprendere quella libertà che la malattia le va progressivamente togliendo. Americana, figlia di quel sud difficile e contorto, passa da un ospedale all’altro, mantenendo sempre un approccio metodico alla scrittura che sembra essere la sua via di fuga, assieme ai volatili che alleva in campagna. Flannery è ancora adolescente quando le diagnosticano la malattia, malattia che viene accolta come un dono celeste, una “pallottola nel fianco” indispensabile però per sentirsi benedetta e considerata da quel Dio che ama e che cerca soprattutto nella lettura della Summa Teologica di san Tommaso, piacere serale che non lascerà mai, nemmeno nei momenti peggiori. Flannery è una “bambina reazionaria” perché è un’artista ispirata e sfrigolante, crepita, agisce, lavora, scrive divorata da una passione insaziabile che la porterà a dare alle stampe due romanzi: “La saggezza del sangue” e “Il cielo è dei violenti” e
numerosissimi racconti che l’hanno consacrata rappresentante della letteratura del sud degli Stati Uniti. Ben felice di non avere quella popolarità che non avrebbe potuto davvero vivere, intrattiene però una fiorente corrispondenza con amici, colleghi e lettori e che è forse il suo vero io. Nelle sue lettere, raccolte nel volumetto “Sola a presidiare la fortezza”, troviamo una donna illuminata, che scardina la fisicità del suo essere menomata, dal suo spirito pieno e quasi violento, farcito di gioia di vivere ed entusiasmo; sembra la “Giovanna d’Arco” della Georgia, vorace per ogni aspetto della realtà, racconta dei suoi pavoni, che paragona all’occhio materno della Chiesa, che ama e che insegue, ossessionata dalla liturgia e dai suoi cerimoniali. Visionaria impenitente quando si tratta di raccontare il suo rapporto con Dio, piena di compassione per i destini dei suoi corrispondenti, credenti o meno, con cui tra le righe delle sue lunghe lettere, intavola tentativi di conversione e di richiamo alla Grazia. E’ la Grazia motore di tutto per Flannery, la Grazia che la assiste, la sostiene che non ne fa una persona con una malattia, bensì una donna che si rapporta con un male e che proprio perché sostenuta dalla preghiera, dalla liturgia, dall’appartenenza strettissima alla madre Chiesa, ne esce vittoriosa e benedetta senza alienarsi e senza rinunciare a nulla, bensì donando la sua forza passionale a chi incontra sul cammino di cristiana e scrittrice. Flannery O’ Connor ci racconta del mestiere di scrivere come di un’esigenza improrogabile, un momento creativo eterno, che affronta giorno per giorno coniugando metodicità con forza di estrarre, con desiderio di dire quel che sa per sapere
quel che dice; per sempre nubile, attratta dal mistero della disperazione che però rifugge sempre, disperazione che accenna nei suoi racconti ma che risolve inserendo sempre una figura salvifica, ossessionata come è dal mistero dell’Incarnazione. Lei che è avviata alla vita per crucem, prende le sue stampelle, puntello quotidiano come luce che squarcia il buio affinché la Grazia abbondi; la sua vita sfida perenne a restare in piedi, è vissuta in ginocchio al servizio del mestiere di scrivere e della volontà divina che la vuole a rapportarsi con il Male e non necessariamente con la malattia. Integra, amante dell’ordine sociale, della terra da cui proviene è convinta che non si possa essere scrittore senza essere intrinsecamente scrittore cattolico, perché “anche i ciechi possano vedere”. Flannery O’ Connor è consapevole del tesoro nascosto che le è stato dischiuso e preferisce rimanere una voce fuori dal coro nel panorama culturale di Atlanta, lei ha scelto di essere la voce del Verbo per quanto possibile, combattendo contro la greve americanata del periodo e contro il fondamentalismo protestante della salvezza per tutti a costo zero. La sua religione è la religione di chi è sfidato e spesso battuto, ma mai domo, scrivere è sacrificare a quell’altare che chiama incessantemente e necessita di continue offerte. Compie un viaggio in Europa con la madre per recarsi a Roma e Lourdes, alle piscine per gli ammalati, dove in un primo tempo non vuole nemmeno immergersi, per non perdere la sua occasione di Grazia; porta in giro il corpo crocifisso tra i suoi pavoni eleganti e sembra che sia una sfilata di vanità estetiche. La cultura cattolica è il suo unico orientamento, il suo essere autore è il punto di partenza per scavare e limare, estrarre,
dare alla luce, riconnettersi ogni giorno al Crocifisso per eccellenza. Non si arrende nemmeno sul letto di semidolore , come ama definire il tempo dei ricoveri e delle pesanti cure, non può permettere alla sua malattia di avere la meglio sul suo destino, non può riposare, prende il suo tempo fermo a denti stretti, ne dosa gli effetti, lo trasforma in ulteriore benedizione. Racconta che è proprio il profondissimo mare a tenerla a galla, avanzando nel giardino della sua campagna, tra i volatili come se avanzasse in una terra estrema. Scrive pagine e pagine intorno alla necessità delle Redenzione, critica il tempo che vive (siamo tra gli anni cinquanta e sessanta del novecento) e lo definisce tempo della caduta, tempo dell’uomo che si sbarazza di Dio e lo fa per libera scelta, ben comprendendo gli infausti eventi che seguiranno. Critica chi vuole un Cristo senza Chiesa, ben sapendo che senza la Chiesa non avrà la Madre che la porta per mano e la salva; crede fortemente nella rassegnazione come dono dello Spirito Santo, ammette di non aver considerato mai la sua vita come una tragedia, anzi sottolinea quanto sia molto più facile da cattolici vivere le sofferenze, poiché la Chiesa e Dio non pretendono da noi che sacrifici proporzionati a ciò che promettono. La sua vita breve appassionata è intrisa di reazione all’ateismo che cominciava ad imperare, reazione all’autocommiserazione, al peccato; trova la libertà nella preghiera e nel gioire, nello scrivere e nel sentirsi parte di quel corpo di Cristo che è la sua Chiesa, da cui trae nutrimento. Resiste al peccato rispondendo con l’asciuttezza della liturgia, legge e rilegge il “suo” san Tommaso, prega San Giovanni
della Croce, eroicamente sfida tutto ciò che non può fare fisicamente in un duello che conduce con la testa e la macchina da scrivere. Flannery O’ Connor parla dell’oggettività della religione, del male, della necessità di correggere fino ad abbandonare il gregge che è preda del male qualora si presentasse l’occasione e sembra acuta precorritrice dei tempi attuali, risponde convinta “mettiamo che il gregge sia nel giusto, chi lo abbandona fa il male, ma se il gregge è preda del male, chi lo abbandona non fa il male, fa bene”. Alla sua malattia si aggiunge un tumore, risultato delle cure aggressive fatte negli anni per contrastare il lupus; anche in clinica scrive e corregge, segue fino all’ultimo le bozze del suo racconto “Rivelazione”; chiede e ottiene con gioia gli ultimi conforti religiosi, muore nel 1964 ad appena trentanove anni. Flannery O’ Connor è la guerriera dell’accettazione e non della sottomissione stucchevole dei tempi odierni, la sua guerra di accettazione e passione è vinta con gioia, benché sola e malata, ha presidiato la sua fortezza