Una pagina di storia, la peste che investì Roma nel 1656, che ci fa vedere come a differenza dell’attualità, l’autorità ecclesiastica e quella civile combatterono il ferale contagio senza opprimere del tutto il culto e la cura delle anime.

Mentre era in Castel Gandolfo Alessandro VII nel 1656 gli giunse l’infausta notizia che in Napoli era comparsa la peste bubonica proveniente dalla Sardegna, onde subito si recò in Roma per salvare possibilmente il proprio confinante stato.
Deputò alle relative provvidenze il fratello Mario Chigi generale di s. Chiesa, come commissario della sanità, poiché con somma lode avea salvato Siena sua patria dal contagio quando era giunto alle sue porte. Incaricò 4 idonei prelati, cui poi aggiunse due altri per guardare d’ogni parte lo stato dal commercio co’ regnicoli infetti o sospetti; aumentò di 6 cardinali quella ordinaria della sanità, aggiunti ai 4 che la formavano; quindi istituì una congregazione de’ più attivi ed energici cardinali e prelati di esperienza ed altri uomini di valore onde con maturo consiglio ed opera efficace si dedicassero alla salvezza universale e comune preservazione. Alla congregazione assegnò per capo il cardinal Giulio Sacchetti prefetto della Congregazione della s. Consulta acciocché di concerto con questa e con amplissime facoltà deliberasse quanto di più conveniente reputasse opportuno.
Di questa congregazione di sanità il Papa volle che facessero parte i prelati di fiocchetti governatore di Roma, uditore della camera, tesoriere e maggiordomo; il segretario di stato mgr. Rospigliosi poi Clemente IX il 1° conservatore di Roma, il medico archiatro pontificio, il dotto e bravo Mattia Naldi intimo amico del Papa, il fiscale ed alcuni egregi cavalieri riputati per senno: di questa congregazione di sanità fu segretario Cesare Rasponi come prelato segretario di consulta, poi cardinale.
Inoltre il Papa, per le altre cautele usate in Roma, ogni giorno adunava in palazzo e talvolta avanti di sé i ministri a ciò destinati col fratello ed il nipote cardinal Antonio Barberini. La congregazione si riuniva periodicamente nel palazzo apostolico emanando i più savi provvedimenti che servirono poi di modello agli altri regni e nazioni a salvamento delle pestilenze. Si distinsero ancora nella desolante epidemia i prelati commissari Agostino Franciotti arcivescovo di Trebisonda e lucchese, Lorenzo Corsi fiorentino, Carlo Roberti romano, Claudio Marazzani piacentino (che avendo a sorvegliare l’Umbria ebbe la ventura che il morbo non vi penetrò), i quali prelati che dopo aver esercitati molti governi appartenevano al tribunale e congregazione della consulta, furono dichiarati commissari ad impedire il commercio coi luoghi infetti del regno di Napoli, i cui confini si guardarono con soldatesche come le spiagge. Per morte del Corsi gli fu surrogato Annibale Bentivoglio arcivescovo di Tebe, il vescovo di Terracina Ghislieri per Sezze, sostituendogli a Terracina Ottavio Roncione romano; altro commissario fu destinato per Rieti.
Sopra tutti il genovese Girolamo Gastaldi, poi celebre cardinale, merita i più grandi encomi quale commissario generale della sanità poiché si acquistò gloria immortale confermata dal suo applaudito trattato sulla peste e preservativi di essa che citai alla biografia ed a tutte le nazioni servì di guida per garantirsi e governarsi nel micidial flagello. Non si debbono preterire di lode per lo stesso grave argomento e loro prestazioni i cardinali Azzolini e Astalli, i prelati Negroni, Barbadigo e Cenci, poi cardinali, tutti destinati con particolari incarichi alla cura degl’infelici appestati ed al regolamento per frenare il morbo ed arrestarne i fatali progressi.
Adunque la peste uccidendo in Napoli per ben 2000 persone al giorno per cui dall’aprile alla metà di agosto 1656 si contarono circa 400.200 vittime, per qualche bastimento si comunicò alle spiagge del litorale pontificio vicino a Roma cioè in Civitavecchia e Nettuno. Nel primo porto si riparò il male per tempo restringendolo nel lazzaretto, ma in Nettuno per errore di medici imperiti divenne il contagio talmente irremediabile che ridusse spopolata quella terra e si propagò al borgo s. Lorenzo. Ciò che pose Roma in sommo spavento fu un pescatore napoletano morto nell’ospedale del ss. Salvatore al Laterano con segni epidemici, per aver praticato a Ripagrande con qualche compatriotto già infetto prima che fossero poste in opera le decretate cautele.
Il male si attaccò ad altre persone del Trastevere onde si adoprarono le maggiori industrie per limitarne la diffusione e le conseguenze anche per riguardo alle provincie dello stato. Quindi tutta l’isola di s. Bartolomeo fu destinata a lazzaretto per gli appestati, distribuendosi per altri conventi que’ francescani che l’abitavano, anzi venne ampliata d’un terzo. Per superare le difficoltà che avea il popolo di Trastevere di restringersi senza comunicazione, improvvisamente furono mandati nella regione tre autorevoli cardinali, cioè Barberini, Imperiali ed Assia, il quale espose la sua vita a benefizio degli appestati come particolarmente deputato a vegliare sulla salute del popolo romano. I cardinali con soldati per nove ore continue assisterono all’erezione delle mura e cinta, per segregare la contrada dal resto della città e come i rinchiusi non potevano procacciarsi il sostentamento Alessandro VII somministrò ogni giorno 160 scudi.
Deve notarsi che prima come dirò si formarono due lazzaretti fuori di Roma uno pei forestieri che si tenevano in prova di sanità, l’altro per quegl’infermi su cui cadeva dubbio di peste. Prese tali misure pel rione Trastevere, le provvidenze adottate nel resto di Roma non si possono abbastanza congetturare pei severissimi editti promulgati e per la sorveglianza rigorosa d’ogni rione fu impedito uscir da Roma ai medici e chirurghi e fu loro imposto il modo di regolarsi, come agli speziali, deputandosi apposite levatrici per le appestate o sospette. Ogni rione ebbe i suoi deputati, chi non denunciava il proprio o l’altrui contagio era condannato alla pena capitale, commutata col servizio de’lazzaretti, i preposti a questi incedevano con bastone sovrastato da croce onde essere evitati nel contatto.
Non pochi del volgo si querelavano di siffatte misure, ma i più esaltarono il Papa che lungi dal nascondere la realtà del contagio, quasi tolse Roma dalle fauci di morte, principalmente secondato dal fratello e dal nipote e rivolgendosi di frequente con pubbliche orazioni ad implorare la divina misericordia, se non congiunti nelle preghiere ne’ luoghi bensì nell’intenzione. Prima dello sviluppo del morbo si arrivò ad incolpare Alessandro VII di artifizio politico nel supporre l’esistenza della peste ostinatamente negata: così veniva corrisposto il benemerito e zelante Pontefice, tanto è ingiusto e ingrato il giudizio della moltitudine quando abbandonata la ragione si fa trascinare dalla passione anche a suo danno!
Nel vol. XLV, p. 236 rammentai la congiura in questo tempo ordita contro Alessandro VII.
Allorché minacciava il morbo Alessandro VII promulgò amplissimo giubileo universale senza imporre processioni e visite di poche determinate basiliche per non accumularvi gente, ordinò in tutte le chiese collegiali e conventuali analoghe orazioni e vietò il concorso dei fedeli per l’ottavario de’ defunti alla chiesa di s. Gregorio, supplendo all’acquisto di quella indulgenza con private opere. In suffragio poi degli estinti fece celebrare infinite messe ed in sulle due ore di notte o meglio ad un ora ordinò che col suono delle campane maggiori si recitasse pei morti di peste, con indulgenza plenaria in forma di giubileo, certe orazioni e il De profundis, dovendosi ricevere la ss. Eucaristia; grazia che fu comunicata a diverse città dello stato ecclesiastico.
Si statuirono le disinfettazioni per mantener vivo il commercio di lettere ed altro, il tutto profumandosi alle porte di Roma: pei grossi pieghi dei diplomatici assisteva un loro addetto ed il denaro si gettava nell’aceto per sicurezza. Due vigne suburbane si destinarono a disinfettar le robe cioè la Sannesio e la Colonna. I lazzaretti furono 5: quello nominato di s. Bartolomeo per la cura dei colpiti dal morbo; i due fuori di porta s. Pancrazio in luoghi elevati, vale a dire uno presso la chiesa di detto nome, l’altro propinquo alla chiesina già di s. Pio V, ora proprietà della prelatura Pacca, pei convalescenti. Il 4° venne collocato nel magnifico edifizio delle carceri nuove fabbricato da Innocenzo X e compito con grossa spesa da Alessandro VII, il quale si guardò bene di dargli il suo nome lasciandone l’intiero onore al predecessore nell’iscrizione eziaudio e stemma, modestia che assai più onore gli acquistò di quello che lasciava non essendo l’edilizio ancora abitato dai delinquenti, vi passavano i detti convalescenti per prova ulteriore di sicura guarigione. Il 5° lazzaretto si formò nel monastero di s. Eusebio de’ celestini che furono trasferiti altrove qui: si ponevano i sospetti con qualche fondamento di pestilenza sotto la direzione del cardinal Azzolini. Di tutti i 5 lazzaretti poi era soprintendente generale con ampi poteri il lodato Gastaldi. Imperversando la peste nell’interno della città a fronte di quanto erasi operato per impedirne la diffusione a questi cinque ricetti furono aggiunti pegl’infermi dubbi di contagio gli ospedali della Consolazione sotto la vigilanza del cardinal Astalli e quello del ss. Salvatore al Laterano. In tutti gli altri ospedali si ordinò un quartiere particolare pei malati che ingerissero timore di essere infetti, benché crescendo poi il numero de’ convalescenti fu sostituito per 6° lazzaretto l’ospedale della Consolazione ed all’uso di questo fu surrogato quello di s. Spirito.
Tutti questi utili aveano per iscopo il fermo principio di Alessandro VII onde vincere l’infezione, cioè la separazione de’ contaminati dai sani e risanare con cura gl’infetti. Pel medesimo principio si sospese il foro e le congregazioni tranne qualche urgente eccezione solo lasciandosi in attività quelle della consulta e del s. offizio; si tralasciarono le visite anche diplomatiche; raramente il Papa adunò il concistoro; bensì si fece vedere per Roma recandosi a benedire i convalescenti e ricevendo all’udienza secondo le occorrenze i suoi ministri e quelli de’ principi.
Per precauzione fu interdetto ai privati l’accesso al suo palazzo apostolico, importando sempre e massime in sì tremendo frangente l’incolumità del principe; ma avendo Alessandro VII osservato su ciò poco rigore, molti della famiglia bassa ed alcuni della media morirono di contagio.
Tutta volta si usarono grandi precauzioni con quei che appartenevano agl’infetti e toccò non solo al segretario di stato, al maestro di camera, al medico lo star chiusi perché alcuni loro domestici si scuoprirono infetti, ma eziandio ad Agostino Chigi, nipote del Papa, il tenersi discosto alcun tempo da esso per un simile sospetto. Né solamente furono sospese le comunanze geniali, civili e letterarie, ma anche le sacre come le cappelle pontificie, le processioni, le pie adunanze, le solennità della chiesa, per impedire le numerose riunioni in cui è facile lo sviluppo del contagio in tempi epidemici.
Non minore fu la sollecitudine di Alessandro VII per la cura spirituale degli appestati, pei quali assai si prestarono i regolari: il Papa volle che fossero scelti i robusti, ma molti ne perirono. Molto pure si fece per le qualità de’ cibi, per la nettezza delle vie, delle case e di ogni luogo, delle carceri, del ghetto a cui fu assegnato soprintendente il Negroni, che ne restò contento per l ubbidienza che mostrarono i giudei alle prescrizioni e perché vollero restar chiusi, ad onta della loro ristrettezza, ebbero poche vittime.
Come ho notato altrove i cadaveri degli appestati con carri e barchette si tumulavano in fosse nel campo che s’incontra prima di giungere alla basilica di s. Paolo fuori le mura, distinguendosi i cristiani dagli ebrei.
Per qualche tempo bisognò alimentare ne’ lazzaretti 4.000 infermi e salariare circa 500 uffiziali, oltre alle straordinarie limosine che si distribuivano giornalmente a quelli cui la clausura impediva guadagnarsi il vitto. Il Papa per impiegare artisti fece dipingere e abbellire le gallerie del Palazzo Quirinale, ed i prelati furono larghi di cure e soccorsi.
Per tante sollecitudini il contagio cominciò a cedere in attività e sembrando che non restasse che nell’apprensione della moltitudine impaurita dalle stesse diligenze, quindi si diminuirono i riguardi, fu allargato il commercio, riaperti i tribunali e ripristinate le funzioni sacre con molta letizia della città. Cessate per molti giorni le morti e le infermità di contagio, nel sabbato in Albis a’ 7 aprile 1657, ricorrendo l’anniversario dell’elezione del magnanimo Pontefice, si cantò il solenne Te Deum nella cappella pontificia, i cardinali ripresero i loro numerosi corteggi e carrozze, avendo prima usate quelle coperte di cuoio e generale fu l’allegrezza e i rendimenti di grazie a Dio.
Ma al riscaldarsi della stagione, o fosse il mutamento degli abiti, forse contaminati d’infezione o per altra ignota cagione, dopo 40 e più giorni illesi, s’incominciò a sentire alcun segno di nuova peste prima nelle vigne suburbane quindi nella stessa città, il che mosse il Papa a rinnovare i rimedi usati, i lazzaretti, le congregazioni ed i bandi con meno rigori. Andò continuando il male con tenue progresso e poi con lenta declinazione quando nell’agosto in Monte Fiascone ripigliò vigore e si comunicò a Viterbo ed avrebbe ivi e in tutta la provincia fatto macello se non vi fosse stato spedito Buonaccorso Buonaccorsi, poi cardinale, il quale era stato deputato a presiedere ai luoghi infetti propinqui a Roma con pronto e felice risultato.
Intanto in Roma. essendo di nuovo cessata l’infezione, il Papa nell’ottava della Natività di Maria tenne cappella nella chiesa del Popolo a rendimento di grazie, poscia a’ 24 settembre fu riattivato il commercio con le legazioni di Romagna, Bologna e Ferrara.
Il Novaes, dotto storiografo de’ Papi, principalmente d’Alessandro VII, dice che in Roma morirono 22.000 persone e nel resto dello stato 160.000 ed il Pallavicino, contemporaneo, narra che essendo allora Roma abitata da 100.000 anime, ne furono vittime circa 8.000, quasi tutti del popolo basso, pochi del ceto civile e niuno illustre. Si calcola che questa peste abbia rapito all’Italia un milione di abitanti, inasprita nel 1656 verso la metà di dicembre avea principiato a rallentare e diminuire di forza, parlando in generale.
Alessandro VII consentì al senato e popolo romano che si votasse di collocare con maggior ornamento la miracolosa immagine di s. Maria in Portico, oggetto della generale divozione cui aveano ricorso nelle pestilenze più Papi, massime Leone X e Adriano VI. Effettuato il voto nel dì della Concezione lo eseguì poi con edificare la Chiesa di s Maria in Campitelli, ove Alessandro VII solennemente trasportò la prodigiosa immagine alla cui intercessione erasi attribuita la cessazione della peste. Inoltre lo stesso senato e popolo romano decretò d’unanime consenso che in Campidoglio si erigesse una statua al Pontefice come a pubblico liberatore.
I conservatori di Roma significarono al Papa il decreto pregandolo a consentirne l’esecuzione, avendo derogato Urbano VIII e Innocenzo X alla proibizione del senato che in Campidoglio niuno, sotto pena d infamia, osasse proporre innalzamento di statua a Papa vivente. Avea mosso a questo divieto il popolo romano gli esempi di Paolo IV la cui effigie fu spezzata e oltraggiata in sede vacante dal furore popolare, non come d’un successore di s. Pietro ma quasi d’un Giuda; e poscia del gran Sisto V la cui statua dopo la sua morte pericolava se i capi delle famiglie Orsini e Colonna, stretti d’affinità con la sua, non vi fossero accorsi. Alessandro VII, ancorché trovasse simili onoranze fatte ai suddetti suoi immediati predecessori senza verun effetto sinistro come ai due antecessori di quelli era avvenuto, e ancorché il benefizio per cui la voleva rendere a lui questa gratitudine fosse così manifesto e insigne che assolveva quell’atto da ogni nota d’adulazione, tuttavia dissentì con modestia e ringraziando dell’amorevole pensiero, significò non volere altro simulacro che quello il quale i romani gli conservassero ne’ loro cuori.
I cittadini, più meravigliati che soddisfatti della risposta, richiesero che almeno fosse loro conceduto lasciar di tutto memoria in un iscrizione, ma eziandio in ciò diè loro il Pontefice ripulsa con modi cortesi. Malgrado sì doppia ripugnanza eroica, il senato a’ 25 marzo 1668 gli eresse in Campidoglio una statua di bronzo con iscrizione, in cui si legge come a siffatta gloria egli si opponesse.
Dobbiamo alle cure del dotto gesuita Tito Cicconi la preziosa pubblicazione della Descrizione del contagio da Napoli si comunicò a Roma nel 1656 e de’ saggi provvedimenti ordinati da Alessandro VII, estratta dalla vita del medesimo Pontefice che conservasi mss nella biblioteca Albani, opera inedita del cardinale Sforza Pallavicino gesuita, Roma 1837.
Nella zecca pontificia vi sono 3 diversi conii di medaglie coniate ad Alessandro VII colla sua effigie: la 1° coll’epigrafe Ut Umbra Illius Liberarentur e con allusione alla cessazione della peste è inciso un angelo fuggente che tiene nella destra la spada, nella sinistra un teschio umano, con molti infermi giacenti avanti la basilica Vaticana, ed in aria appare s. Pietro con le chiavi; nella 2a medaglia si legge Populum Religione Tuetur e si esprime un angelo appoggiato alla croce con freno nella destra, reggendo con la sinistra il vangelo ed ha sotto i piedi la morte; la 3a medaglia dell’anno 8° ha l’iscrizione Immaculatae Virgini Vot. Romae col prospetto della chiesa di s Maria in Campitelli.


(Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Venezia, 1851, Vol. LII, pp. 2287-232. )