
Sintesi della 588° conferenza di formazione militante a cura della Comunità Antagonista Padana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in Milano, non tenuta in seguito alla chiusura dell’Ateneo causa epidemia di coronavirus. Relatore: Silvio Andreucci (testo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso)
Al tramonto prossimo del “secolo dei lumi” René Chateaubriand si appropriò di alcune concezioni del Rousseau, dissociandole di fatto dall’illuminismo e inserendole decisamente nel protoromanticismo.
Lo storico Gianfranco de Turris si è con attenzione soffermato sul motivo di sorprendente continuità che lega il filosofo ginevrino all’artista di Saint_Malo; l’ utopia del”buon selvaggio” permea “I Natchez”, opera ripubblicata a cura dalla dottoressa Evanna Bosi e dal dottor Filippo Martellucci, edita per le Lettere. Aggiungerò qualche ulteriore nota storica sull’opera.
Il suo titolo originale era “Les Sauvages”, permeata di tutte le suggestioni che avevano ispirato il Chateaubriand, in seguito al suo viaggio in America del nord, nei pressi del Mississippi e dell’Ohio
Nel 1798 l’opera divenne”René et Celuta” con la forte influenza del “Saggio sulle Rivoluzione” scritto a Londra ove Chateaubriand era scampato alle persecuzioni giacobine
Una volta convertito al cattolicesimo, il romanzo acquisisce il titolo originale, sotto forma di grande epopea,”Les Sauvages” che apparirà solo nel 1826, a trenta anni dalla sua composizione, nell'”Opera Completa”, nei tomi XIX e XX, peraltro non presentando il romanzo”Atala et René” che era nel frattempo confluito nel “Genie du christianisme”.
La storia narrata in forma di epopea copre più di un secolo, svolgendosi dal 1653 al 1768; Natchez, che sarà anche il nome del protagonista René, era una tribù pellerossa scalzata e cacciata dal nativo territorio della Louisiana dalla colonizzazione Francese; i principali protagonisti sono René, naturalizzato pellerossa con il nome di Natchez, i suoi tre amici che con lui condivisero l’intera epopea, Outugamiz, Celuta e Mila.
Poco prima della pubblicazione del “Les Sauvages”, uscirono nel 1821 “La Spia” e “I Pionieri” da parte di un altro grande cultore della civiltà pellerossa, James Fenimore Cooper e, sempre ad opera dello stesso scrittore nel 1846 uscì “I Pellerosse”.
Jean Jacques Rousseau è un punto di riferimento fondamentale, un autore costantemente ascoltato nel sillabario filosofico di Chateaubriand; il “mito del buon selvaggio” offre alla prospettiva di “I Natchez” una suggestione notevole che si compenetra con le amare considerazioni del Chateaubriand,in merito al genocidio perpetrato dai coloni francesi verso i Pellerossa della Louisiana (tanto fu cruenta la colonizzazione Francese, al punto che in America del nord i pellerossa sono pressoché estinti, quanto la missione dei conquistadores spagnoli sotto la benedizione della Santa regina Isabella di Castiglia favorì una mirabile integrazione tra indios e spagnoli).
Nell’epopea dei “Natchez” traspare un “Rousseau reazionario”,nella misura in cui l’artista di Saint Malo e il filosofo ginevrino impugnano la salvaguardia delle etnie autoctone, dei loro costumi e tradizioni, contro le orde dei colonizzatori.
La colonizzazione è figlia dell’ illuminismo e dell'”Enciclopedia”, con le loro granitiche e astratte proclamazioni dei diritti universali dell’uomo e del cittadino, con la loro accattivante filantropia storicamente tradottasi in un orco mostruoso, livellatore e demolitore di localismi e radici extraeuropee.
Con la conversione al cattolicesimo di Chateaubriand comincia a configurarsi inoltre una simmetria tra il Pellerossa (sradicato dal colonizzatore francese) e il contadino vandeano cattolico e monarchico, che l’orda giacobina e mangiapreti volle opprimere; certo, è un’analogia da considerarsi con molta cautela e “cum granu salis”, e in ogni caso , tanto l’insorto vandeano che il pellerossa” Natchez” hanno per comun denominatore la difesa delle proprie tradizioni.
La valorizzazione dell’enorme forza evocativa e trasfigurativa posseduta dal sentimento, segnatamente dal sentimento religioso, contro l’astratta ragione del razionalismo moderno che crea opposizioni e sezioni ma in realtà è inadeguata a stabilire un’empatia con la datità, accomuna la filosofia protoromantica di Rousseau alla visione lirica di Chateaubriand, tanto più che sia l’artista di Saint Malo che il filosofo ginevrino non potrebbero essere considerati pensatori strictu sensu, ma al massimo temperamenti filosofici; chè nella loro impostazione l’esperienza filosofica antecede e primeggia sulla speculazione e nulla è più estraneo a dette impostazioni di un rigore dimostrativo per avvalorare una verità.
Al netto delle differenze tra i due autori, è inoltre possibile cogliere un modulo che li accomuna, ovvero la critica di una filosofia della storia, quella tipicamente illuminista, con la sua fede miope e incondizionata nel” progresso”, con l’apologetica enfasi dell’uomo “civilizzato” e della civiltà delle macchine (è un idea ricorrente in tutti gli “ideologi”, come Condorcet, D’Alembert, Helvetius e naturalmente nel padre fondatore dell’ideologia, Destutt de Tracy).
Man mano che la speculazione e le scienze si affinano, per Rousseau come per Chateaubriand, si traducono in “armi a doppio taglio”, potrebbero nuocere, anziché favorire il dispiegarsi di un’umanità moralmente integra, la stessa idea di progresso dispiega tutti i suoi effetti micidiali quando annienta tradizioni religiose e radici.
Per quanto Chateaubriand si sia posto costantemente all’ascolto dell’insegnamento del Rousseau, non gli ha risparmiato critiche severe; il vangelo dell’ autore dell'”Emilio” non è certo il Vangelo cattolico; Rousseau, pur rivendicando il dovere di mantenere il cuore “nella disposizione all’esistenza di Dio (contro le tendenze atee materialiste dell’illuminismo), è passato ad “occhi chiusi” davanti alla verità cattolica, non ha incontrato la Rivelazione soprannaturale, ha solo visto fanatismo e superstizione nella Chiesa istituzionale, insomma egli si è rivelato un “demi-chretien”
Chateaubriand si è mostrato benevolo nei confronti del ginevrino, pur non lesinandogli critiche ma in fondo riconoscendo che gli “aveva segnato più di ogni altro la strada della polemica antirazionalista e insieme del recupero delle ragioni del sentimento religioso attraverso il quale si attua il passaggio a Dio”(Gianfreda Marconi).
Invece benevolenza non riscosse il ginevrino presso i maggiori esponenti del tradizionalismo cattolico ultramontano,tronfie di livore critico furono le posizioni di De Maistre, De Bonald, Burke, Gerdil, Lamennais (il primo) verso il teorico del “contratto sociale”.
Essi considerano la concezione del Rousseau parente delle aberrazioni della filosofia dei lumi, dello spirito rivoluzionario del mondo moderno, del soggettivismo sovversivo contro tradizione e autorità.
In base a quali fondamenti Rousseau difenderebbe tradizione, religione, autorità contro l’empietà del mondo moderno?
In base all’effusione di un sentimentalismo religioso? In base a una commuovente critica del progresso scientifico? Sono motivazioni puramente risibili per un De Maistre, per un De Bonald… anche per Sainte_beuve, che ha accusato lo Chateaubriand di aver fatto troppo affidamento sul sentimento religioso dei Rousseau, troppo poco sulla difesa argomentata della verità
A giudizio di Joseph de Maistre, l’impostazione del Rousseau di far dipendere la costituzione sociale dalla volontà dell’uomo, anteponendo la materia allo spirito e l’individuale all’universale è un errore dominante e distintivo di quella temperie che ha professato tutti gli errori possibili e immaginabili, l’Illuminismo.
Leggiamo in”Essai sur le principe generateur des constitutions politiques”:
“Uno dei più grandi errori di un secolo che li professa tutti fu di credere che una costituzione politica potesse essere scritta e creata a priori, mentre la ragione e l’esperienza si uniscono per stabilire che una costituzione è opera divina, e che ciò che vi è di precisamente più fondamentale è di più essenzialmente costituzionale nelle leggi di una nazione non potrebbe essere scritto”.
La concezione giuridica del conte savoiardo è antipodale a quella del Rousseau; De Maistre afferma contro l’autore del “Contratto Sociale” la priorità dell’idea di ” comunità” su quella di “società”; l’idea di uno “stato di natura” di individui in spietata concorrenza fra di loro, contrapposto alla società, non solo non è praticabile ma è assolutamente fittizia, con alcun argomento può essere comprovata.
L’uomo (qui De Maistre concorda con Aristotele) è animale sociale, religioso, predisposto alla correlazione in una comunità, in un consorzio umano… l’ individuo è pura astrazione inconcepibile al di fuori della comunità.
Il conte savoiardo smonta così la teoria contrattualistica, contraria sia all’autorità divina che alla ragione umana; non vi sono infatti ragioni teoretiche valide per suffragare la dottrina del contratto sociale, dal momento che essa posa sulla pura arbitraria convinzione che possa darsi una natura umana isolata dalla comunità.
Il contrattualismo, per cui tutti gli individui deporebbero i propri particolari interessi subordinandosi alla “volontà della maggioranza” inoltre per il De Maistre è una visione massimamente tirannica, dal momento che non garantisce affatto la tutela dell’ individuo dall’arbitrio altrui, ma lo rende succube dell’arbitrio della ” maggioranza”, che altro non è che una somma di interessi particolari, non già il “bene comune”.
“Dire con Rousseau che il popolo ubbidendo alle disposizioni dello stato, ubbidisce a se stesso è una finzione: è la finzione del popolo sovrano, che in realtà cade mancipio dello stato, il quale assomma in se ogni potere, ogni diritto di fronte ai sudditi..(Gianfreda Marconi).
A giudizio dell’autore delle “Serate di San Pietroburgo”, proprio nel principio democratico permeato dalla volontà della maggioranza si realizzano il maggior arbitrio e dispotismo, mentre solo nella monarchia legittimata dal diritto divino (la chiesa è la monarchia universale cui tutte le altre monarchie nazionali sono subordinate). si realizza massima giustizia; il sovrano non potrà che essere responsabile davanti a Dio del proprio operato (a tal guisa che il suo dispotismo non sarà mai malvagio, perché è alla legge divina che deve conformarsi), invece il principio della”sovranità popolare” è fomite non solo di empietà, ma anche di arbitrio.
E che dire dello “stato di natura” teorizzato dal Rousseau, in cui il fanciullo non è buono ma nemmeno malvagio, è comunque innocente nella misura in cui non viene ancora corrotto dagli agi e dalle lusinghe del social vivere?
A giudizio del De Maistre, lo “stato nativo” roussoviano è una pura astrazione infondata, presuppone che uno status di individuo isolato anteceda la comunità.
Peraltro Rousseau confonde clamorosamente il concetto di “stato di natura” con quello di “natura” o “legge naturale”.
Per tutti gli illuministi la natura di un essere nella sua autosussistenza coincide con la perfezione, per se stessa la natura contiene “in nuce”il dispiegamento di una serie di virtualità positive…quei genuini istinti che rischiano di corrompersi nelle convenzioni artificiose che la società impone.
Al contrario, De Maistre sostiene (e su questo punto concorderà appieno con De Bonald) che innanzitutto,la “natura umana” e la “legge naturale” nulla hanno a che vedere con l’ipotesi e l’ ipostatizzazione di uno stato originario, brado e selvaggio. La natura umana è partecipazione della natura divina, la legge naturale è rispecchio della legge divina, pertanto l’uomo naturale ha già fatto uno sviluppo e progresso civile grazie all’intervento di Dio rivelatore. Può darsi natura umana soltanto tramite l’incontro di “naturale” e”sopranaturale”.
In secondo luogo, un percorso auto-paidetico del fanciullo tramite il libero dispiegamento di virtualità e inclinazioni naturali è un’ enormità; autorità e funzione sociali sono fattori necessari per l’educazione e qualsiasi autorità in ultima analisi mutuerà la propria autorevolezza dalla suprema e assoluta autorità divina.
La lettura, da parte di René Chateaubriand, dell’opera del Rousseau in chiave antilluminista e antiprogressista (Rousseau, “cristiano a metà”, sulla via della restaurazione della religione contro le “ragioni della ragione”) che Gianfranco de Turris ha documentato nelle sue approfondite ricerche su “Les Sauvages” non ha trovato dunque riscontro e consenso presso De Maistre; il conte savoiardo, come i maggiori rappresentanti della “filosofia della restaurazione”, non dissocia la concezione roussoviana dall’ illuminismo, inserendosi dottrine come lo”stato nativo” e il”contratto sociale” a pieno titolo nella sovversione che il mondo moderno, sia nella sua declinazione liberale come in quella socialista, ha proclamato contro Trono e Altare, contro la divina e l’umana autorità.
E’ palmare che De Maistre non si sia arrestato, a differenza del Chateaubriand, alle suggestioni liriche che la verità del Cattolicesimo dispiega; per la sua apologia della rivelazione cattolica si è invece affidato all’edificazione di una monumentale filosofia della storia.
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