“Tristis est anima mea usque ad mortem“. Queste le parole tremende che rivolse Gesù Cristo agli Apostoli nell’Orto del Getsemani la notte del suo arresto. Vediamo di capire, riprendendo la rivelazione private fatte dallo stesso Signore a santa Camilla Battista Varano (1458-1524) badessa del monastero delle Clarisse di Camerino, le cause di tale mortale tristezza.

Anima mia, quattro furono le cause di questa tristezza mortale del tuo Gesù, come Egli rivelò alla Beata Battista Varani.
I. La dannazione d’innumerevoli anime, malgrado l’acerbissima sua morte. «Considera, figlia mia, – diceva Gesù alla Beata – che martirio e dolore fu il mio, nel vedere che tante membra furono da me separate, quante anime si sarebbero dannate! e ogni membro si separava tante volte, quante un’anima mortalmente pecca». La grandezza e la quasi infinita moltitudine dei peccati del mondo erano dunque tutti distintamente presenti al suo spirito con una chiara visione della Maestà divina offesa da tanti delitti, resi più gravi dal disprezzo del suo amore. Oltre a ciò ben pochi uomini avrebbero profittato di quel rimedio preparato dal suo amore per tutti. Su ciò non trovava altra consolazione, che nella perfetta uniformità agli immutabili decreti di suo Padre, il quale voleva che Egli soffrisse anche per quelli, che per nulla profitterebbero dei suoi patimenti.
II. I peccati e le pene di tutti gli eletti. «Tutte le membra degli eletti che mortalmente avrebbero peccato – diceva il benignissimo Gesù – mi afflissero e crucciarono nella loro separazione da me. Ancora, io sentii e gustai tutte le loro amarezze, i martirii, le penitenze, le tentazioni, le infamie della loro vita ed anche le pene del loro Purgatorio, come altrettante membra del corpo mio».
III. La SS. Vergine sua Madre, che Egli amava d’amore infinito; i suoi cari e amati discepoli ed Apostoli, che Egli amava più che un padre i suoi figliuoli; e la discepola Maddalena, la quale, benché sapesse di Gesù meno di Giovanni, nondimeno più di tutti si addolorò della Passione e Morte di lui.
IV. L’ingratitudine sia del popolo Giudaico, tanto da Dio beneficato e prediletto con mille prodigi, come quella del suo amato discepolo, Giuda traditore. Gesù inginocchiato avanti a questo traditore, gli aveva lavato i piedi, li aveva abbracciati e baciati con massima tenerezza, dicendogli col cuore parole di ineffabile amore. Finalmente, l’ingratitudine di tutte le creature, che, peggio di Giuda, l’avrebbero tradito per vili piaceri, per più vili interessi.
Signore, quanta parte ho avuto io alla tua tristezza! Quale impressione dovettero fare sul tuo purissimo e innocente cuore i miei peccati, le mie ricadute, le mie infedeltà, le mie pusillanimità? Sventurato che sono! Non sarò io dunque mai per te un soggetto di gioia e di consolazione? Quanto è diverso l’oggetto delle mie pene nel mondo da quello che causa la tua mortale tristezza! O Cuore amareggiato del mio Dio, Tu volesti con questa tristezza e sudore di sangue espiare la folle sicurezza degli empi, e la insensata tranquillità in cui tanti peccatori dormono sul loro peccato senza temere le sorprese della morte temporale ed eterna. Tu volesti espiare quelle allegrezze, quei gusti, quei piaceri, quei desideri della vita, quelle speranze alle quali io abbandono il mio cuore anche quando sono contrarie alla legge tua. Tu volesti satisfare per le false contraddizioni del mio cuore e per le mie confessioni senza dolore interno. Tu volesti santificare in me e in tutti queste medesime passioni della tristezza, del timore, della noia, del disgusto e della malinconia che io provo nel cammino della vita spirituale, e consolarmi quando le soffro, e meritarmi la grazia di sopportarle con pazienza, con rassegnazione, con gioia. Tu volesti fortificarmi, siccome hai fortificato tanti Martiri a sfidare la morte , ed animarmi alla penitenza cosi come hai ispirato tanti altri fedeli a esercitarsi in aspre penitenze. Quanto il tuo amore è soave, buono, pietoso! Cuore dolcissimo di Gesù, quanto ti ringrazio di aver tanto sofferto!
(Bartolo Longo, I Quindici Sabati del Santissimo Rosario, Pompei, 1950 (77a edizione), pp. 201-204)
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