Una possente disamina della omelia pronunziata dal Predicatore Apostolico Raniero Cantalamessa. lo scorso Venerdì Santo coram Francisco uscita dalla tagliente e sempre mirata penna di Cesare Baronio.

Leggere gli scritti di Cantalamessa è come metter la mano in una teca di serpenti e scorpioni. Ogni parola, ogni citazione – anche la più apparentemente innocua – nascondono un morso velenoso. Né potrebbe essere altrimenti: è nella natura dello scorpione usare l’aculeo e in quella della serpe mordere coi suoi denti avvelenati. Sono decenni che il Predicatore della Casa Pontificia semina eresie, più o meno dissimulate dietro una prosa melliflua e seducente; i suoi errori si propagano nei libri e nelle conferenze, nelle omelie e nelle lezioni universitarie e a loro volta derivano dall’elaborazione delle dottrine di eretici notori, di ultraprogressisti oggi portati in palma di mano dai cortigiani di Santa Marta, di settari d’ogni specie. Tutti accomunati da un disegno ben preciso, che ormai coinvolge la sfera civile e quella religiosa nell’apostasia e nell’asservimento più sfrontato al pensiero unico. 
L’incauto che alla funzione papale in Passione et Morte Domini (qui)ascolta Cantalamessa per la prima volta è distratto dall’incipit dell’omelia (qui). Una citazione di San Gregorio Magno – peraltro volutamente imprecisa – sembra garantire l’ortodossia del contenuto: «Scriptura aliquo modo cum legentibus crescit», dice San Gregorio, in un contesto che non dà adito ad alcun fraintendimento; altrettanto non si può dire della medesima citazione, se si comprende che essa costituisce uno dei mille ammiccamenti non al Padre della Chiesa, ma all’opera di Antonio Marangon e di Michele Marcato, noti biblisti contemporanei di altrettanto noti Istituti di Scienze Religiose italiani (cfr. Michele Marcato, Scriptura sacra cum legentibus crescit, Scritti in onore di Antonio Marangon, Ed. Messaggero Padova, 2012). Non voglio tediare il Lettore, quanto piuttosto far comprendere la sottile e perversa abilità del Predicatore nel lanciare messaggi criptici ai suoi, orecchiando con malizia temi e concetti ideologicamente connotati. 
Le parole di San Gregorio dovrebbero in qualche maniera legittimare l’interpretazione della pericope evangelica della Passione di Nostro Signore, consentendo di interpretarla alla luce delle sciagure che colpiscono l’umanità durante la pandemia. «E noi quest’anno leggiamo il racconto della Passione con una domanda – anzi con un grido – nel cuore che si leva da tutta la terra. Dobbiamo cercare di cogliere la risposta che la parola di Dio dà ad esso».
Soffermiamoci un momento ad analizzare il grossolano travisamento delle cause e degli effetti della Passione, col quale Cantalamessa nega il senso stesso del Sacrificio di Cristo. «La croce si comprende meglio dai suoi effetti che dalle sue cause», afferma. Ma gli effetti non possono esser compresi se non sulla base delle cause prime, ossia il Peccato Originale, che invece padre Raniero tace, sviando l’attenzione sulle cause seconde: la condanna a morte pronunciata dal Sinedrio e ratificata da Pilato. Sappiamo che il motivo per cui Nostro Signore ha accettato di incarnarSi e di morire in croce risiede nella riparazione che solo Lui poteva offrire al Padre: la gravità della caduta di Adamo – infinita rispetto all’offesa a Dio – viene espiata dal nuovo Adamo grazie ad una riparazione infinita data dal Suo essere Dio, a nome dell’umanità peccatrice che Egli rappresenta in quanto uomo. Questa è la causa della Redenzione, che si è realizzata secondariamente per il tramite della infedeltà della Sinagoga, accecata nonostante le chiarissime profezie di cui essa era custode. 
Questo caposaldo della nostra Fede è negato da Cantalamessa: «Forse che Dio Padre ha voluto lui la morte del suo Figlio sulla croce, a fine di ricavarne del bene? No, ha semplicemente permesso che la libertà umana facesse il suo corso, facendola però servire al suo piano, non a quello degli uomini». Questa frase riecheggia la recente affermazione di un altro eretico, mons. Heiner Wilmer, che ha definito «terribilmente non cristiano» affermare che il Coronavirus sia una punizione di Dio (qui), e che il Signore «non è qualcuno che possiamo placare con dei sacrifici» (qui)  
La sconfessione di questo blasfemo sproposito ci viene dal responsorio che la liturgia ci fa intonare durante il Triduo Sacro: «Christus factus est pro nobis obediens usque ad mortem, mortem autem crucis; propter quod et Deus exaltavit illum, et dedit illi nomen, quod est super omne nomen» (Fil 2, 8-9). Obbediente fino alla morte, dice la Scrittura, e quella obbedienza è stata il motivo – «propter quod» – dell’esaltazione di Cristo nella Resurrezione. La libertà umana – o meglio: il libero arbitrio – ha consentito ad Adamo e consente oggi a ciascuno di noi di conformarci alla volontà di Dio o di violarla, meritando il premio per la nostra fedeltà o la pena per il volerci sostituire a Lui nel decidere cosa è giusto e cosa non lo è. Non c’è nessuna libertà in questo, nel senso che oggi si vuol dare a questa parola: l’uomo non è moralmente libero di peccare, perché le conseguenze della sua scelta sono stabilite dal sommo Legislatore (cfr. Leone XIII, Enc. Libertas praestantissimum). La caduta di Adamo ha reso necessaria la Redenzione sin dall’eternità, e a questo atto di amore supremo Nostro Signore ha risposto al Padre: «Ecce, venio», eccomi. Inutile ricordare che gli errori di Cantalamessa rivelano anche un’altra eresia, ossia la negazione della divinità di Gesù Cristo, poiché l’offerta del Figlio al Padre nello Spirito Santo è intima alla Santissima Trinità, e solo chi non accetta con fede questo mistero può considerare Nostro Signore come la vittima di una divinità sanguinaria, e quindi ritenere impossibile la sola idea del Sacrificio. 
Alla base del pensiero di padre Raniero c’è il rifiuto di riconoscere la colpa del Progenitore, e con esso l’offesa alla Maestà divina. Il non serviam di Lucifero, sulla bocca del Predicatore della Casa Pontificia, proclamato con orgoglio durante la celebrazione della Passione del Signore. E se non c’è colpa, non c’è punizione: né per Adamo e la sua discendenza, né per l’uomo che pecca ancor oggi: «Se questi flagelli fossero castighi di Dio, non si spiegherebbe perché essi colpiscono ugualmente buoni e cattivi, e perché, di solito, sono i poveri a portarne le conseguenze maggiori. Sono forse essi più peccatori degli altri? No! Colui che un giorno pianse per la morte di Lazzaro, piange oggi per il flagello che si è abbattuto sull’umanità». 
La perfidia di Cantalamessa giunge ad insinuare come legittima l’obiezione dell’empio: le guerre, le pestilenze, la carestia e tutti i mali che affliggono il mondo colpiscono anche gli innocenti, quindi o Dio è ingiusto, o questi flagelli sono sono una punizione, perché non c’è nessuno da punire. Nessuna colpa per Adamo e per tutti gli uomini; nessuna espiazione del novello Adamo e men che meno per i peccatori, in unione col Salvatore, nell’unico Battesimo per il perdono dei peccati. 
Secondo padre Raniero, «la sofferenza è diventata anch’essa, a modo suo, una specie “sacramento universale di salvezza” per il genere umano», senza che sia necessario, da parte dell’uomo, l’atto di Fede e l’osservanza della Legge di Dio nel vincolo della Carità. «Questo vale anche per i mali naturali, terremoti ed epidemie. Non le suscita lui [sic]. Egli ha dato anche alla natura una sorta di libertà, qualitativamente diversa, certo, da quella morale dell’uomo, ma pur sempre una forma di libertà. Libertà di evolversi secondo le sue leggi di sviluppo. Non ha creato il mondo come un orologio programmato in anticipo in ogni suo minimo movimento. È quello che alcuni chiamano il caso, e che la Bibbia chiama invece “sapienza di Dio”». L’intervento della Provvidenza è spazzato via in nome di quella pericolosissima personalizzazione della Natura che allude complice alla Madre Terra, sempre in agguato nei discorsi di costoro: «Egli ha dato anche alla natura una sorta di libertà». E da questo comprendiamo le parole di Bergoglio di alcuni giorni fa: «Incendi, terremoti… la natura sta mostrando la sua collera in modo che ci prendiamo cura di lei». 
La conclusione dell’omelia di Cantalamessa è l’apoteosi dell’umanesimo più abbietto, del pacifismo senza Cristo e senza Chiesa, promulgato dal Nuovo Ordine Mondiale e benedetto dalla neo-chiesa: «L’altro frutto positivo della presente crisi sanitaria è il sentimento di solidarietà. Quando mai, a nostra memoria, gli uomini di tutte le nazioni si sono sentiti così uniti, così uguali, così poco litigiosi, come in questo momento di dolore? […] Ci siamo dimenticati dei muri da costruire. Il virus non conosce frontiere. In un attimo ha abbattuto tutte le barriere e le distinzioni: di razza, di religione, di ricchezza, di potere. Non dobbiamo tornare indietro, quando sarà passato questo momento». E ancora, in un delirio parossistico: «È il momento di realizzare qualcosa di questa profezia di Isaia, di cui da sempre l’umanità attende il compimento. Diciamo basta alla tragica corsa verso gli armamenti. Gridatelo con tutta la forza, voi giovani, perché è soprattutto il vostro destino che si gioca. Destiniamo le sconfinate risorse impiegate per gli armamenti agli scopi di cui, in queste situazioni, vediamo l’urgenza: la salute, l’igiene, l’alimentazione, la lotta contro la povertà, la cura del creato. Lasciamo alla generazione che verrà un mondo, se necessario, più povero di cose e di denaro, ma più ricco di umanità».
Un mondo che il quotidiano della CEI, Avvenire, proprio ieri (qui) preconizzava: «È il momento di gettare le basi per un nuovo ordine mondiale», sotto l’egida della più criminale organizzazione massonica internazionale, l’ONU, e del suo profeta Bergoglio. 
Che Iddio ci salvi da questa infernale congiura.