di Guliano Zoroddu

“Vi salutano tutti i santi, e principalmente quelli che sono della casa di Cesare”. Così scriveva san Paolo ai Filippesi: lo faceva da Roma mentre era prigioniero (si tratta della prima prigionia del 60-63). Nell’Urbe già da sei anni regnava Nerone che già aveva assassinato sua madre, ma già vi regnava anche Gesù Cristo.
Tertulliano ci dice che il nome di Cristo fu introdotto nella capitale della Gentilità già al tempo di Tiberio, nell’anno 35 ci dicono Eusebio di Cesarea e san Girolamo (vedi qui); ma certamente la vera Fede vi fu ufficialmente propalata da san Pietro che, secondo la tradizione dei Padri, vi si recò durante il regno di Claudio, nel 42. E non pochi erano i Cristiani in quegli anni Sessanta se Tacito parla di “multitudo ingens” riferendosi a coloro che Nerone fece sadicamente uccidere nel circo dopo l’incendio del 64 e fra di essi, secondo i Padri, anche i principi degli Apostoli (vedi qui).
Nondimeno il Vangelo era già stato annunziato, già seminato e vi avrebbe portato un frutto tale che l’albero della Chiesa gettò la sua ombra sulla capitale dell’impero pagano che divenne, come già era stabilito dalla Provvidenza, sede dell’impero pacifico di Cristo.
E la predicazione fu fatta “coram quibusdam Caesarianis equitibus” [1] da san Pietro e ancora oggi noi la possediamo: si tratta secondo l’unanime e antichissimo consenso dei Padri, del Vangelo secondo Marco, che era appunto suo interprete presso l’uditorio; ed arrivò, vendendo in certi casi anche accolta, alla corte stessa del Principe.
Ce lo conferma l’epistola paolina ai Filippesi con cui abbiamo aperto questo nostro articolo; ce lo conferma l’archeologia quando ci mostra l’epigrafe funeraria di un membro della gens Annea (quella di Seneca) chiamato Petrus Paulus, databile non oltre la seconda metà del secolo II [2]; e ce lo conferma anche un testo come il Satyricon di Petronio, l’arbiter elegantiarum del princeps e poi vittima della sua persecuzione.
In questo testo, o meglio nei frammenti di esso che sono in nostro possesso, alcuni passaggi possono essere letti in chiave cristiana o meglio anti-cristiana.
Prendiamo per esempio la famosissima coena Trimalchionis: la cena di un volgare liberto che ad un certo punto si fa portare una “ampullam nardi” []3 e con essa si unse, prefigurando i suoi funerali, anzi caratterizzando come cena funebre il banchetto in corso. Banchetto da cui egli si fa portar via in un bianco lenzuolo, “strungulam albam“, auspicando che il suo corpo non subisca corruzione.
Troppo ardito far dipendere questo testo dal Vangelo di Marco? Nient’affatto se consideriamo il testo petroniano come una parodia: una parodia dell’ultima cena; una parodia dell’unzione di Betania, quando “trovandosi Gesù a Betania in casa di Simone il lebbroso, ed essendo a mensa, venne una donna, che aveva un alabastro d’unguento di nardo puro di gran pregio, e rotto l’alabastro, glielo sparse sulla testa … E Gesù disse: …. ella ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura” [4]: tanto più che se un antichissimo codice latino, il Codex Cantabrigiensis, fosse realmente del I secolo come affermano alcuni, l’espressione “ampullam nardi” del Satyricon corrisponderebbe alla “ampullam nardi” del detto codice che rende in latino il greco “albastron myrou nardou” del testo evangelico.
Ancora meno peregrina appare la dipendenza di Petronio da Marco – il cui Vangelo quindi sarebbe stato già composto negli anni Sessanta – se consideriamo che l’autore romano inserisce nel contesto della coena Trimalchionis anche un nefasto canto di gallo [6] e sappiamo l’importanza di questo canto per san Pietro e per il suo discepolo Marco.
Per di più non solo questi pochi (se vogliamo considerarli tali!) sono i segnali di una conoscenza da parte di Petronio dell’oggetto della fede cristiana: beffe verso di essa sono disseminate nel corso di tutta l’opera e sono l’eco non solo di diceria popolari ma anche di azioni imperiali nei confronti di quella che veniva ancora considerata una setta di Giudei.
Così la crocifissione di Cristo tra due altri condannati, la sua sepoltura e la sua resurrezione vengono parodiati nella fabula della matrona di Efeso [6] – città dove predicò san Paolo e dove fissarono la loro residenza anche Maria e san Giovanni, che qui probabilmente compose il suo Vangelo – richiamando anche l’accusa di trafugamento del corpo e la conseguente diceria messa in circolazione dei Giudei [7] e di cui si occupò anche il famoso Editto di Nazareth di età neroniana che appunto puniva i violatori di tombe.
E la stessa Eucaristia, sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, è fatta oggetto di parodia. Il truffatore Eumolpo infatti promette di dare la sua eredità a coloro che alla sua morte ne mangeranno le sue carni [8]. Petronio usa la parola “testamentum“, lo stesso termine che è usato nei Vangeli e nelle Lettere paoline per indicare l’Eucaristia. E anche laddove non si voglia accettare tale comunanza, rimane l’inequivocabile allusione al cannibalismo dei cristiani, diffusa credenza presso i pagani che non avevano una comprensione evidentemente deformata della Messa.
Petronio quindi non solo conosceva le pratiche cristiane, ovviamente nella loro versione macabra, ma molto probabilmente aveva pure avuto modo di venire a conoscenza di alcuni particolari che solo la predicazione e la sua messa per iscritto potevano fornire. Tanto più che il suo non è certo un caso isolato, ma si inserisce in una invero fitta schiera di allusione alla nuova religione presente in vari autori latini come greci, come dimostrato dalla illustre Professoressa Ilaria Ramelli alle cui opere abbiamo attinto.


Note:
[1] Euseb., Hist. Eccl. II, 15.
[2] CIL XIV, 566.
[3] Petr., Sat. 77, 7 – 78, 4.
[4] Marc. XIV, 3-9.
[5] Petr., Sat. 74, 1-3.
[6] Ivi, 111-112.
[7] “Alcune delle guardie andarono in città, e riferirono aiI principi dei sacerdoti tutto quello, che era accaduto [la resurrezione, ndr]. E questi radunatisi con gli anziani, e fatta consulta, dettero buona somma di denaro ai soldati, dicendo loro: Dite: I discepoli di lui sono venuti di notte tempo, e mentre noi dormivamo, lo hanno rubato. E ove ciò venga a notizia del preside, noi lo placheremo, e vi libereremo d’ogni molestia. Ed essi, preso il denaro, fecero, come era stato loro insegnato. E questa voce si è divulgata tra gli Ebrei sino al dì d’oggi” (Matth. XXVIII, 11-15).
[8] Petr., Sat. 141, 2.



Bibliografia di riferimento:
Ilaria Ramelli, I cristiani e l’impero romano, Genova-Milano, 2011
Eadem, I romanzi antichi e il Cristianesimo, Eugene (Oregon), 2012