di Luca Fumagalli

Le letteratura di Herbert George Wells (1866-1946) è uno specchio della Gran Bretagna del primo Novecento, un periodo in cui la cieca fiducia nel progresso che aveva caratterizzato il secolo precedente iniziava ad essere messa seriamente in discussione da un numero crescente di intellettuali.

Due cose ossessionarono lo scrittore inglese per tutta la vita: la legge dell’entropia enunciata da Thomson – che oscurò per sempre la visione di un’umanità che avanza lungo un sentiero indefinito ma in continua ascesa – e le teorie sull’evoluzione di T. H. Huxley. Questi aveva infatti mostrato come cambiamenti anche limitati implicassero necessariamente perdita e dolore, e come la sopravvivenza dei più adatti non significasse per forza la sopravvivenza dei migliori. Veniva così messa in discussione l’interpretazione ottimistica della selezione naturale, anche se Huxley offriva qualche elemento di conforto sostenendo l’esistenza di uno sforzo umano potenzialmente costruttivo. Non è azzardato affermare che questi assunti divennero fondamentali nella filosofia di Wells, che nelle sue opere alternò sempre visioni luminose a momenti di profondo pessimismo.

Già in uno dei suoi primi lavori, The Man of the Year Million (1893), fuse ironicamente utopia e antiutopia, descrivendo un futuro nel quale la forma umana è ridotta a un cervello senza corpo. Di proposito l’immagine non è affatto attraente dal punto di vista estetico, eppure si fa largo un’inquietante domanda: perché no? Cosa c’è di male nel liberarsi di corpi problematici per la serenità del puro regno della mente?

In un articolo semi-serio dell’anno seguente, The Extinction of Man, Wells dipinse una prospettiva ancor più minacciosa: come da titolo, l’uomo scompare dalla faccia della terra, sostituito da improbabili animali di dimensioni spaventose.  

Lo scrittore inglese utilizzò efficacemente tutti questi temi nei sui primi scientific-romances, generalmente caratterizzati da un incalzante senso apocalittico del disastro e della fine, in cui l’umanità è punita per la propria arroganza e per l’autocompiacimento. Fortunatamente una tenue traccia di attesa speranzosa non scompare mai, nemmeno nei romanzi più foschi.

Il protagonista de La macchina del tempo (1895) è un curioso scienziato che, grazie alla sua invenzione, è in grado di viaggiare nel tempo. Fermatosi nell’anno 802.701, trova una civiltà degenerata: ci sono gli aristocratici Eloi del mondo superiore, che conducono una vita agiata e decadente, e i Morlock del mondo inferiore, gli abbruttiti discendenti del proletariato industriale. La mitica Età dell’oro è raggiunta e la natura è sottomessa ma, nonostante ciò, la completa realizzazione umana è del tutto assente. Anzi, lo scenario si fa ancora più allarmante quando il viaggiatore scopre che i Morlock si vendicano sugli Eloi predandoli come cannibali. Decide così di fare un balzo in avanti nel tempo di altri tre milioni di anni per assistere sgomento alla morte del pianeta, con lo spegnersi del sole e la discesa delle tenebre verso l’involuzione nel nulla. Solo l’ottimismo dell’amico narratore stempera, almeno in parte, l’epilogo angosciante: «So che lui aveva un’idea sconsolata del progresso del genere umano, e nel crescente edificio della civiltà vedeva solo un ammasso scriteriato destinato inevitabilmente a crollare e distruggere i propri artefici. Se è così, non ci rimane che vivere come se così non fosse».

Già prima de Il risveglio del dormiente (1899), una variante in salsa totalitaria de La macchina del tempo, in L’isola del dottor Moreau, l’agghiacciante fiaba evoluzionistica del 1896, Wells si era scagliato contro la cieca fiducia nei confronti del progresso e della scienza, considerate alla stregua di divinità (in seguito lo scrittore definì la sua storia «un grottesco teologico»).

Il dottor Moreau, un malvagio chirurgo, usa le sue abilità nella vivisezione per creare esseri antropomorfi assemblando pezzi di animali. La narrazione, che verte sulle responsabilità dello scienziato di fronte al bivio tra esigenze di ricerca e morale, rivela in Moreau l’ “umanista” moderno, paragonabile a Prometeo o a Frankenstein, così disgustato da qualsiasi forma di dipendenza che si immagina (illudendosi) artefice di se stesso; è un inguaribile egocentrico, un folle che gioca pericolosamente a fare Dio. Moreau vuole cambiare l’ordine naturale delle cose, ma finisce per soccombere a quel lato oscuro che credeva di aver estirpato nelle sue creature a colpi di operazioni chirurgiche e iniezioni. Il pessimismo di Wells raggiunge qui il suo apice nel descrivere l’inevitabile trionfo del lato animale su quello umano.

Sulla medesima scia si situa L’uomo invisibile (1897), la storia di uno scienziato brillante ma perverso, Griffin, che la scoperta del segreto dell’invisibilità porta gradualmente alla ricerca paranoica del potere. Al culmine della carriera, il protagonista, un novello Faust, istituisce il suo regno dispotico sull’Inghilterra meridionale, finendo ammazzato nell’epilogo da una folla terrorizzata e irata.

Il racconto Storia dei giorni futuri (1899) narra invece la vicenda di due giovani innamorati in un futuro stravolto dall’urbanizzazione e dal progresso incontrollato della scienza. Wells trasporta nel XXII secolo le problematiche della Londra vittoriana, prefigurandone gli aspetti più inquietanti. La disparità sociale si è accentuata e milioni di persone sono costrette ad abitare nei sovraffollati grattacieli di poche megalopoli, attraversate da trafficate vie aeree; la zona rurale giace in uno stato di abbandono; poche compagnie governano l’economia mondiale e l’ipnosi è diventata il miglior strumento di controllo sulle menti umane. Da questo scenario ributtante i due protagonisti cercano invano di fuggire, ingannandosi di poter ricreare il fascino perduto di una vita agreste e semplice, fatta di piccole cose.  

Il pericolo rappresentato dall’intelligenza disincarnata riecheggia come tema centrale sia ne La guerra dei mondi (1898) che ne I Primi uomini sulla luna (1901). Si tratta ancora di storie apocalittiche, antiutopiche: nel primo romanzo i Marziani invadono la Terra con violenza terrificante per imperscrutabili propositi, mentre nel secondo viene descritta la civiltà-formicaio dei Seleniti con la sua grottesca gerarchia. I Marziani e i Seleniti sono versioni appena modificate di quell’uomo futuro, ridotto a mera razionalità, che Wells aveva abbozzato nei precedenti lavori.

Negli anni successivi lo scrittore inglese approfondì le figure di Platone e di Thomas More, e con rinnovato spirito di fiducia pubblicò, nel 1905, Un’utopia moderna, in cui è descritto un ideale Stato Mondiale dove socialismo e scienza viaggiano a braccetto, organizzando al meglio anche la vita matrimoniale e i processi di riproduzione. Il cammino del libro, intrapreso all’insegna della ragione, si conclude comunque con un irrazionale atto di fede, tra dubbi e speranze. Un’utopia moderna non mancò di scatenare un nugolo di polemiche e in molti accusarono Wells di aver dato forma a uno stato servile più che a uno stato auspicabile. In realtà il volume si preoccupa solamente di mostrare un mondo in cui è stata eliminata la sofferenza fisica e quella mentale, e in cui alle persone è consentito svilupparsi fino alla pienezza del loro statuto umano, in anima e corpo (questione riproposta in The Shape of Things to Come, del 1933).

La fantascienza di Wells è dunque un tentativo di colonizzare razionalmente l’ignoto, di esorcizzare il buio tenendo alta la torcia della mente, per poi ripiombare, di fronte alle inquietanti prospettive che essa illumina, in un senso di impotente cecità. Di conseguenza, secondo lo scrittore, non rimane altro da fare se non convivere con il mostro in gestazione e cercare, per quanto possibile, di migliorarlo, una lezione che sarà ripresa e sviluppata nel Novecento da svariati autori tra cui Aldous Huxley, William Golding e Anthony Burgess.


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