Il napoletano Gian Pietro Carafa, uomo di rigidissimi costumi e fondatore assieme a San Gaetano Thiene dell’Ordine dei Teatini (il nome deriva dalla sede vescovile del Carafa, Teate appunto, ossia Chieti nel suo nome latino) fu eletto al supremo fastigio del Romano Pontificato il 23 maggio 1555 e regnò fino al 18 agosto 1558. Vediamo quale fu il suo programma di governo.

Domenico Passignano, Michelangelo mostra a Paolo IV il modello della Basilica di San Pietro.

Paolo IV aveva sempre avuto un’idea molto alta del ministero sacerdotale ed un’ancora più alta della dignità papale: ora che sedeva sulla sedia di san Pietro crebbe in modo considerevole la consapevolezza di sé, che gli avevano procurata il ricordo d’una condotta sacerdotale ognora irreprensibile e continua attività rigidamente ecclesiastica come pure l’esperienza di molti anni. Ripetutamente diceva che amava lasciarsi mettere in pezzi vivo piuttosto che fare cosa alcuna indegna del suo alto posto. Tutti quanti lo conobbero attestano che non erano parole vuote.
In un momento decisivo il Cardinal Pacheco fece avvertito il duca d’Alba che mai Paolo IV si sarebbe lasciato piegare dalla paura, giacché era un uomo da sostenere piuttosto la distruzione della città di Roma e la morte stessa anzi che fare cosa alcuna, la quale non convenisse alla sua papale dignità. In modo affatto simile s’esprime anche il Cardinal Morone in una lettera all’amico Pole, in cui rileva che il papa subirebbe il martirio prima di sacrificare anche solo nel minimo affare la dignità e l’onore della Santa Sede, per i quali sentivasi responsabile a Dio ed alla cristianità: secondo il pensiero del Morone egli era così penetrato dall’idea d’essere vicario di Cristo da considerare un’offesa di Dio una lesione alla sua dignità.
La coscienza, che nella qualità di vicario di Cristo egli stava sopra tutti, facevasi notare specialmente nel contegno di Paolo IV coi principi. Nella piena coscienza della sua dignità unica egli abbassava su di essi il ¡suo sguardo non come su figli, ma come sopra sudditi suoi. L’uomo, che soleva giudicare anche gli affari politici in modo sommamente unilaterale e brusco, era talmente alienato dal mondo da dire agli inviati, che i re ed imperatori avevano il loro seggio ai piedi del papa, dal quale a guisa di scolari dovevano ricevere le loro leggi. II suo sentimento rigidamente ecclesiastico impenna vasi contro la tendenza di governare le cose interne ecclesiastiche fortemente spiccante anche presso i governi cattolici. Egli dichiarò che intendeva di porre fine alla vergognosa accondiscendenza dei suoi predecessori verso i principi.
Reputava quindi giusto non nascondere la sua profonda diffidenza di fronte ai principi e di trattarli con crescente irritabilità ed estremo rigore e durezza. È evidente in quali conflitti dovessero coinvolgere quel vecchio di giovanile freschezza tali sentimenti uniti alla vivacità e violenza del suo naturale.
Da genuino napoletano Paolo IV era molto suscettibile di impressioni improvvise, spesso precipitoso ed a salti nelle sue risoluzioni, non di rado imprudente e per lo più di non necessaria mordacità e bruschezza nelle sue espressioni. Come nella sua vita quotidiana non vincolavasi ad alcuna regola fìssa, così anche nel resto seguiva volentieri le suggestioni del momento; dava la sua fiducia colla stessa facilità con cui la sottraeva. Improvvise come le eruzioni del Vesuvio erano le sue risoluzioni, erano le manifestazioni della sua vulcanica natura. Al pari di tutti i suoi compatrioti
parlava volentieri molto e a lungo: dalle sua labbra il discorso fluiva come un tumultuoso ruscello. Appena un avvenimento faceva circolare più rapidamente il suo sangue, egli secondo l’indole dell’ italiano del Sud usciva nelle più violente e crude parole, che accompagnava con gesti sommamente caratteristici.
Talvolta dimenticava tanto la sua dignità che lasciavasi trascinare ad atti di violenza. Tutto il suo ascetismo non era stato in grado di insegnargli moderazione nell’esprimere le sue appassionate sensazioni e calma riflessione nelle sue azioni. Per ciò da cardinale era venuto in conflitto con molti e s’era urtato anche con uomini che, come Ignazio di Loyola, miravano allo stesso fine, la rigenerazione della Chiesa. Con ferrea energia, con fuoco di passione egli mettevasi ad ogni ufficio, ma nulla di falso, nulla di ipocrita era in quest’uomo d’un solo getto; genuina era la sua pietà, genuino il suo amore alla Chiesa e alla patria, la sua elevata concezione del mondo, il suo idealismo, genuina anche la sua turbinosa facondia e le sue molteplici cognizioni. Nelle più varie scienze, specialmente nella teologia, era ben versato; parlava correntemente l’italiano, il greco e lo spagnuolo. Straordinariamente erudito, riteneva tutto con fedele memoria, i classici latini e greci aveva correnti: sapeva quasi tutte a memoria le sacre scritture: fra i teologi l’autore suo prediletto era san Tommaso d’Aquino.
Colla vigoria di una volontà ferrea e colla fermezza di un carattere intollerante di qualsiasi opposizione, Gian Pietro Carafa aveva da sessant’anni diretto tutte le doti del suo spirito ad uno scopo: quello di far rivivere l’autorità e la potenza, la purezza e la dignità della Chiesa fortemente tribolata da nemici interni ed esterni.
Tale scopo aveva aleggiato dinanzi alla mente di lui come vescovo di Chieti, come nunzio in Inghilterra e Spagna, come membro dell’Oratorio del Divino Amore, come capo dell’Ordine dei Teatini, da lui fondato con san Gaetano di Tiene, come membro della congregazione riformativa di Paolo III e come cardinale. In tutte queste posizioni egli comprovossi un carattere grande fortemente espresso, un instancabile propugnatore di tutti gli interessi ecclesiastici, il rigidissimo dei rigidi, specialmente in tutte le faccende che riguardassero la purezza dei costumi e della fede. Nessuna autorità della persona poteva impedire la sua franchezza; dinanzi ai cardinali come dinanzi al papa egli esponeva sempre apertamente e senza riguardi la sua opinione. La storia di Paolo III come quella di Giulio II a più riprese ci riferiscono casi, nei quali persino dal più alto luogo dovettero attuarsi cose non compatibili cogli interessi e la dignità della Santa Sede. In tali occasioni
il cardinale Carafa o assolutamente si opponeva, oppure protestava almeno, qualora ulteriore resistenza fosse senza speranza coll’astenersi dal concistoro. Se in tali casi il Carafa s’attirava la perdita della grazia papale, ciò davagli sì poco pensiero come sensibili svantaggi materiali, che doveva patire. In silenzio e con animo calmo egli tollerava tutto, attenendosi inflessibilmente ai suoi rigidi principii.
Mentre la massima parte degli uomini nella vecchiaia s’affraliscono e cominciano ad inclinare alla quiete, nel Carafa erasi ad ogni anno aumentato il suo ardore, la sua attività, la sua energia e la forza della sua volontà. II papa – scrive l’inviato fiorentino – è un uomo d’acciaio, e le pietre che tocca, schizzano scintille generatrici d’incendio, se non si fa quant’ei vuole.
Si capisce come un uomo simile non avesse che pochi amici e fautori. La sua vita pura, la sua incorruttibile rettitudine, la sua dottrina venivano riconosciute, ma altrettanto tutti biasimavano e temevano il suo stragrande rigore, la sua bruschezza e ostinatezza. Non erano mancati titoli e uffici onorifici a lui ch’era salito fino al decanato del Sacro Collegio, ma soltanto presso pochissimi egli godeva affezione ed amore.
Il nuovo papa sei sapeva molto bene: egli sentì la necessità di fare un piccolo sacrificio alla pubblica opinione per non rendersi odiato a tutta prima e precludersi ogni influenza. Quanto più avevano temuto il rigore dell’ascetico Teatino, tanto più gradevolmente sorpresi vennero i romani quando Paolo IV mise in mostra anche il lato splendido, principesco del papato. Con soddisfazione appresero come l’uomo, che da cardinale aveva vissuto ritirato e molto parcamente subito all’inizio del suo governo agli ufficiali di palazzo, che chiedevano come dovessero regolarsi nell’amministrazione, aveva dato l’istruzione: con tutto lo splendore come si conviene a un gran principe.
Per la festa dell’incoronazione, che ebbe luogo il 26 maggio, non si risparmiò spesa alcuna. Il banchetto dato in tal dì ai cardinali e inviati fu oltremodo splendido. Sebbene siano scorsi soli quattro giorni dall’elezione papale – scrisse Angelo Massarelli nel suo diario – il nuovo capo della Chiesa ha tuttavia dato già tante prove della sua liberalità, munificenza, magnanimità e alto lignaggio, che facilmente può tirarsi una conclusione circa il suo futuro governo. In modo affatto uguale giudicò l’inviato bolognese in una lettera del 29 maggio 1555 : Sua Santità sarà un eccellente papa, tutto magnanimità e bontà. Quando ai 4 di giugno Paolo IV passò da Castel S. Angelo alla sua residenza estiva, il palazzo di S. Marco, fu svolto tale sfarzo, che poté credersi d’essere trasportati nei giorni di Leone X.
Questo contegno, che nessuno s’era atteso dal rigido asceta, fu fuor di dubbio determinato da riguardo ai romani, presso i quali imponeva più che tutto l’esterno splendore e la liberalità cooperandovi però anche l’alto concetto della dignità papale, che animava Paolo IV. Egli non aveva cercato la posizione più elevata, che ambiziosi possono sognare. Il fatto sorprendente che egli, il temuto e l’odiato, il quale sempre aveva manifestato estrema rigidità e mai aveva dimostrato ad alcuno la minima condiscendenza, a malgrado dell’esclusiva imperiale aveva ottenuto la tiara, egli non sapeva spiegarselo che in virtù dell’ intervento d’un potere superiore. Fu e rimase sua ferma convinzione che non i cardinali, ma Dio stesso lo avesse eletto per la esecuzione dei suoi disegni. 1 Altrettanto egli era penetrato dall’idea che questi disegni non potessero essere altri da quelli, ai quali fino allora erano stati diretti tutti i suoi pensieri : la difesa e il ravvivamento della Chiesa, la sua liberazione da qualunque preponderanza statale, la sua vittoria sopra le eresie. Da queste idee egli era tutto penetrato.
Elevato al supremo ufficio, egli intendeva proseguirle con tutto l’idealismo senza riguardi, ch’eragli sempre stato proprio, impiegare tutte le sue forze per ridare alla religione cattolica il suo antico splendore e la sua antica potenza.
Per una generazione la Chiesa, e principalmente il suo centro, la Santa Sede, aveva subito attacchi inauditi e gravi umiliazioni. In possesso della suprema dignità, Paolo IV voleva con un possente colpo invertire questo rapporto e restituire alla Santa Sede l’antica posizione di potenza tutto dominante. In tutte le sue vedute figgendo le radici nel medio evo, egli vedeva l’ideale ecclesiastico nel secolo d’Innocenzo III, che segnò nello stesso tempo il culmine dell’influenza della podestà papale; in conseguenza nulla era più lontano dalla sua concezione della maggior divisione, facentesi strada colla nuova età, dello spirituale e del temporale: tutto sembravagli in pari tempo affare ecclesiastico. Ritenevasi quindi obbligato a ritornare in valore senza riguardi e fino alle estreme conseguenze, anche sul terreno politico, la posizione, che in quel tempo la Santa Sede aveva preso verso i principi, e i popoli, sfuggendogli nel suo ardente entusiasmo completamente, che non tutti i diritti pretesi dai papi nel corso dei secoli derivano dal diritto divino o dalla natura del primato, ma molti, specialmente i politici, erano il risultato dell’evoluzione storica, quindi di diritto umano e perciò potevano anche andare perduti. Né meno fuggì all’idealista, per il quale aveva valore soltanto ciò che doveva essere, l’enorme cambiamento nelle condizioni ecclesiastiche e politiche d’Europa, che rendeva del tutto impossibile far valere l’autorità pontificia di fronte ai principi cristiani nel modo che era avvenuto nei grandi secoli del medio evo. Senza curarsi dell’apostasia di un mezzo mondo, senza curarsi del profondo mutamento compiutosi anche negli stati rimasti cattolici, viveva e muovevasi Paolo IV nel pensiero di quei tempi, nei quali i papi quali padri e reggitori della cristianità possedettero ed esercitarono anche sul campo politico un’estesa attività. Sebbene non esistesse alcuna definizione ecclesiastica sul potere della Santa Sede nelle cose temporali, egli tenne tuttavia inflessibilmente ferme tutte le pretese, che con tutt’altre premesse e condizioni avevano elevate i suoi predecessori.

(Ludwing von Pastor, Storia dei Papi,Versione italiana di Mons. Prof. Angelo Mercati, Roma, 1927, Vol. VI, pp. 348-354)