San Gregorio VII morì esule a Salerno il 25 maggio 1085 e nel Duomo di quella città sono ancora oggi custodite le venerate sue spoglie. Dal 1578, quattro sono state le ricognizioni canoniche del corpo. In occasione di quella del 1954, cui presiedette come Legato Papale il Cardinale Schuster, Pio XII indirizzò ai fedeli il seguente radiomessaggio.
L’inclito nome di S. Gregorio VII, che voi, diletti figli, sotto la sapiente guida del vostro amatissimo Presule, con straordinaria ed opportuna solennità celebrate, risuona ormai da nove secoli nella. Chiesa di Dio come simbolo del perfetto ed indomito atleta di Cristo, ed insieme si contrappone agli avversari dei diritti della Sede Apostolica in tutti i tempi, come serio ammonimento che ogni assalto contro di essa è condannato ad infrangersi, perchè Dio è suo inoppugnabile scudo. Dal giorno in cui l’invitto Pontefice, quasi colpito a morte in pieno combattimento, si spense esule in cotesta vostra città di Salerno, che ne custodisce le venerate spoglie nella sua celebre Cattedrale, non vi è fedele, o sacerdote, o Pastore, veramente dedito alla causa di Dio e delle anime, che, pronunciando il nome di Gregorio VII, non senta un fremito di profonda ammirazione per le sue gesta, e non attinga dalla memoria del suo eroismo quell’intrepido coraggio, che è, in ogni epoca, indispensabile al milite di Cristo.
Con ragione voi glorificate Ildebrando, gloria dell’Ordine benedettino, infaticabile riformatore della Chiesa, che già il suo amico e collaboratore S. Pier Damiani chiamava «immobilis columna Sedis Apostolicae»: salda colonna della Sede Apostolica: (S. Petri Dam. Epp.l. 2, 9 – Migne PL, t. 144 col. 273 C); onorate il Papa Gregorio VII, alla cui morte, il 25 Maggio 1085, un cronista contemporaneo scriveva: «… graviter corpore infirmatus, sed in defensione iustitiae usque ad mortem firmissimus, Salerni diem clausit extremum; de cuius obitu omnes religiosi utriusque sexus, et maxime pauperes, doluerunt. Erat enim catholicae religionis ferventissimus institutor, et ecclesiasticae libertatis strenuissimus defensor»: gravemente infermo nel corpo, ma nella difesa della giustizia fermissimo fino alla morte; della cui dipartita si dolsero tutti i religiosi di ambedue i sessi, e soprattutto i poveri. Era infatti ferventissimo istitutore della religione cattolica, e strenuissimo difensore della libertà ecclesiastica : (Bernoldi Chronicon ad a. 1085 – Mon. Germ. Hist. SS. t. V, pag. 444 righe 2-6). Da questi brevi tratti, avvalorati da molteplici e indiscutibili testimonianze, balza la fulgida figura di Gregorio VII come gigante del Papato, sicché di lui si può dire con tranquilla verità, essere uno dei più grandi Pontefici, non solo del Medio Evo, ma di tutte le età. Se invero la grandezza di un Papa deve commisurarsi, oltre che dalla santità personale, dall’ampia ed esatta visione dei problemi dell’epoca, dall’altezza degli scopi proposti, dalle forze morali impiegate per conseguirli, non vi è dubbio che Gregorio VII fu grandissimo, e nel giudicare e nel volere e nell’operare.
Stupendo è ancor oggi il fatto che egli in tempi di convulse agitazioni, alternate con funesti rilassamenti, si sia elevato sulle meschinità delle personali cupidigie e degl’interessi di parte, ed abbia saputo determinare con sicura chiaroveggenza quali fossero le questioni e i bisogni essenziali, che si dovevano con adamantina risolutezza affrontare e definire. Ciò che appariva allora sommamente necessario, e che Gregorio VII tenacemente volle, era di ristabilire la Chiesa nella indipendenza, nella unità e nella santità, di cui il suo divino Fondatore l’aveva dotata.
Occorreva che la Chiesa fosse libera. Ecco quindi Gregorio VII accettare il conflitto impostogli per affrancarla, quasi corpo agile e sano, dalle catene e dagl’intralci mossi dalle potestà terrene, specialmente nella libertà di scelta dei suoi Pastori. Questo fu il senso della lotta delle Investiture, una delle più aspre e capitali che la Chiesa abbia combattute per la sua indipendenza, e la quale ha rafforzato nei Pontefici del secondo millennio, che allora si apriva, la coscienza del suo sommo valore e del dovere di difenderla con ogni sforzo.
Occorreva inoltre che la Chiesa fosse unita, di quella unione organica e viva, propria di un corpo nel suo perfetto sviluppo. Ed ecco Gregorio VII farsi indefesso promotore di frequenti ed intime relazioni coi Vescovi e, per mezzo loro, con tutta la Cristianità. La raccolta delle sue Lettere, nelle quali risuonano pressoché tutti i nomi delle antiche e giovani nazioni allora conosciute, sono la mirabile testimonianza della sua sollecitudine per l’unità della Chiesa e della vivida brama di sanare la scissione, allora già consumata, tra l’Oriente e l’Occidente cristiano.
Occorreva massimamente che la Chiesa fosse santa. Infatti, a quale altro fine dovrebbe mai servire il suo organismo, il quale nella origine e nella intima costituzione svela gl’ineffabili prodigi della sapienza, della santità e della carità di Dio? Ecco quindi l’ardente zelo di Gregorio VII per ripristinare le virtù sacerdotali e per rinnovare moralmente il popolo nei costumi cristiani. In questo modo, da una Chiesa. santa, unita e libera, egli si riprometteva un efficace, benefico influsso sulla « città terrena ». Nessun Papa forse ha più di lui compreso e perseguito con fervido ardore l’ufficio della Chiesa nel mondo e per il mondo.
Ben a ragione storici e studiosi, seguiti dall’opinione comune, hanno considerato come segno caratteristico della persona d’Ildebrando il suo culto verso la giustizia, per il cui trionfo egli incessantemente si adoperò, lottò e morì. Poche parole egli ha pronunziate con tanto rispetto e fervore quanto «iustitia», quasi avesse sempre viva nella mente l’immagine della sovrana maestà di essa, dinanzi alla quale ogni potestà creata deve inchinarsi. «Magis… mortem suscipere parati erimus, quam iustitiam relinquere» (Gregorii VII Registrum, IX, II. – ed. Caspar in Mon. Germ. Hist. Epp. sel. t. II fasc. I, p. 588): Piuttosto la morte che tradire la giustizia! scriveva nel 1081 di fronte all’esercito ostile di Enrico IV. La giustizia era per lui l’ordine di Dio nel mondo, importava cioè che tutte le cose umane, dalle più piccole alle più grandi, debbano essere ordinate secondo la volontà e la legge di Dio, e che l’uomo sia plasmato non secondo la forma del peccato, ma ad immagine di Dio: «imago Dei, quae est forma iustitiae» (Ph. Jaffé, Bibl. Rerum Germ. t. II, Monum. Gregor. pag. 534 – Gregor. VII ad Liprandum a. 1075). Illuminato da così alti concetti, Gregorio si colloca nel novero dei precursori, che dispiegano liberamente le intime forze della Chiesa per far prevalere nel mondo il piano di Dio. In questa impresa, che da Gregorio VII prende le mosse per continuare nei secoli successivi con azione sempre più concreta fino al presente, la memoria, non mai impallidita, del suo Pontificato fu ognora, ed è oggi, un’aperta incomparabile protesta contro la vile fuga di alcuni dinanzi alla responsabilità che spetta al fedele cristiano nell’intiero campo della vita pubblica.
In tal modo, mentre le aspirazioni e i propositi di Gregorio VII rivelano la straordinaria chiarezza della sua mente, le sue opere danno la misura della eccezionale vigoria del suo animo. Egli osò intraprendere la immane lotta per la libertà della Chiesa ed il giusto ordine, non solo sapendo di, sfidare le violente reazioni degli istinti inerenti alla natura umana, ma conscio altresì della resistenza che avrebbero opposto le inveterate tradizioni e le circostanze di fatto, già da lungo tempo divenute quasi diritto vigente. Al quale riguardo sembra opportuno anche oggi di notare che non risponde alla verità storica un ritratto di Gregorio VII dall’indole temeraria, incline cioè ai contrasti e quasi avido di seminarne sul suo cammino; al contrario, egli ha sofferto indicibilmente sotto il peso del suo Ufficio e della sua responsabilità. Non poche delle sue Lettere, che svelano con trasparenza commovente il fondo della sua anima – tale, per esempio, quella all’Abate Ugo di Cluny del 22 Gennaio 1075 (Reg. II, 49 – Caspar, op. cit. pag. 188-190) – ci fanno, per così dire, rivivere gl’intimi drammi del suo spirito, le lotte e le mortali tristezze che sovente lo angustiavano di fronte ai mali che lo circondavano, ai passi da compiere, alle risoluzioni da prendere. Certamente non dimostrerebbe di conoscerlo colui che, come talora è accaduto, lo figurasse e descrivesse quasi uomo duro e inaccessibile: egli era al contrario disposto ed aperto alla mitezza, che lasciava regnare, ogniqualvolta glielo consentiva il dovere. A Canossa, dove gli sarebbe stato facile di abbattere il suo avversario, Enrico IV, abbandonato quasi da tutti e ridotto a chiedere grazia ai suoi piedi, il grande Gregorio, con un atto che fu una prova luminosa della sua sovrana magnanimità, sacrificò invece i vantaggi politici, che erano nelle sue mani, al suo senso di buon Pastore e di Sacerdote di Cristo. Così a Canossa sfolgorarono una verità: cioè che nelle più ardue circostanze la Provvidenza divina sorregge e guida con straordinari aiuti l’opera del Vicario di Cristo; ed una grandezza: quella sovrumana di Gregorio VII. – Neppure è conforme al vero che egli a cuor legg-iero passasse sopra ad antichi usi o presunti diritti; ché anzi esaminò con particolare cura le tradizioni ecclesiastiche; ma scrisse anche le memorabili parole: «Dominus… non dixit: Ego sum consuetudo, sed: veritas » (Lettera, a Wimundo , vescovo di Aversa – Jaffé, op. cit. pag. 576 n. 50).
Queste considerazioni ci conducono a penetrare il segreto della sua intima forza Egli sostenne le lotte impostegli dal suo tempo con una purezza d’intenzione, quale non si potrebbe immaginare maggiore. Ebbe esclusivamente di mira la verità e la volontà di Dio. Far prevalere sopra ogni umano riguardo il divino volere: ecco quel che egli fece unica norma del suo operare, appena eletto al sommo Pontificato, come ebbe a dichiarare apertamente in una Lettera al duca Goffredo del 6 Maggio 1073: «Neque enim liberum nobis est alicuius personali gratia legem Dei postponere aut a tramite rectitudinis pro humano favore recedere»: Non siamo liberi di posporre la legge di Dio alla grazia personale di alcuno, né di recedere per umano favore dal sentiero della rettitudine: (Reg. I, 9 – Caspar op. cit. pag. 15). A questo nobile e santo programma rimase fedele fino all’ultimo respiro.
Dalla sicura coscienza di essere egli, in virtù del suo Ufficio, il difensore sulla terra della causa di Dio, scaturivano quella determinazione e quella fortezza, con cui restò immutabilmente fermo nel perseguire i fini proposti, senza ripiegamenti nè compromessi circa i diritti essenziali, anche allorquando, negli ultimi anni del suo Pontificato, piombarono da ogni parte su di lui avversità e disfatte. Di una tempra d’animo e di una rettissima condotta di vita, quali furono le sue, sono certamente degne le parole, che Gregorio VII sul letto di morte nell’esilio avrebbe pronunziate dinanzi ai Cardinali e ai Vescovi presenti che esaltavano l’opera sua: «Ego, fratres mei dilectissimi, nullos labores meos alicuius momenti facio, in hoc solummodo con fidens, quod semper dilexi iustitiam et odio habui iniquitatem»: Io, fratelli miei dilettissimi, non do importanza ad alcuna delle mie opere, confidando solamente in ciò che sempre ho amato la giustizia e odiato l’iniquità: (Greg. VII vita a Paulo Bernriedensi conscripta, n. 108 – W atterich, Pont. Rom. vitae, t. I, Lipsiae 1862, pag. 538-539). Ma ormai la maggiore obiettività che onora gli studi storici moderni, ha dissipato molti pregiudizi e riconosciuto la sincerità del cuore e la fermezza più che umana d’Ildebrando. Al presente, la sua memoria riscuote da amici, e anche da non pochi nemici, il rispetto che si addice alla eccelsa figura di così gran Papa.
Non vorremmo tuttavia congedarCi da voi, diletti figli, che certamente siete del numero degli ammiratori e devoti di S. Gregorio VII, senza indicarvi qualche luminosa lezione che egli, remoto nei secoli, ma presente con l’esempio, v’imparte dal suo glorioso sepolcro.
La prima è la esortazione alla fiducia nel divino intervento ogni volta che si tratta delle sorti della Chiesa. È stato più volte osservato come nelle lotte da questa sostenute nel corso dei secoli, spesso le potenze avverse riportarono sul principio clamorosi successi, mentre i suoi difensori sembrarono sommersi nelle procelle delle persecuzioni e dei travagli, quasi affinché essi non attribuissero a sé stessi e alla forza della prudenza umana il successivo trionfo, ma alla virtù divina (cfr. G. A. Bianchi, Della potestà e della politia della Chiesa, Roma 1745, t. i, pag. 211-212). E così un dì, ne siamo certi, porteranno frutti di bene anche le vostre sofferenze, o diletti Presuli, sacerdoti, religiosi, laici, ai giorni nostri, morti, imprigionati, torturati, espulsi, per la vostra fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Non altrimenti la Provvidenza permise che Gregorio VII terminasse la sua vita nell’esilio, umiliato, in veste di sconfitto, nel crollo apparente di tutta l’opera sua. Ma non passò molto tempo dalla sua morte, ed egli apparve il vero vincitore nella lotta per la libertà della Chiesa; si videro infranti gli ostacoli, e i suoi fini conseguiti e attuati, almeno nella loro parte essenziale.
Una seconda lezione, che volentieri vorremmo chiamare il testamento di Gregorio VII a voi e ai cristiani di tutti i tempi, è la sua stessa vita spesa per la grandezza della Chiesa, nella cui perfezione egli scorse inclusa la salvezza del mondo. Ascoltate docilmente il triplice monito, che a voi giunge col suo nome: Amate la Chiesa! perché merita il vostro amore, ella, Sposa di Cristo e depositaria degli eterni tesori. Vivete, tutti uniti, senza divisioni né discordie fra di voi, in conformità con la fede che professate, affinché il mondo riconosca la santità della Chiesa, non solo nella verità della sua dottrina e nelle sorgenti di grazia che dal suo seno zampillano, ma anche nei suoi membri vivi, che da lei attingono la loro perfezione. Prodigatevi per la salvezza del mondo! Ogni fedele cristiano non può non sentire, secondo l’esempio del divino Redentore e Maestro, immensa pietà per i fratelli. Siate dunque coscienti del vostro dovere di cooperare al miglioramento della umana società secondo l’ordine di Dio e la legge di Cristo.
Finalmente, Gregorio VII dà l’esempio della incrollabile fiducia, sulla quale deve fondarsi ogni opera di salute. Egli sperò e lavò, si può dire, contro ogni speranza, ben sapendo che la sua azione, intrapresa quasi come collaboratore di Dio, non sarebbe in nessun caso rimasta infruttuosa. Forse potrebbe anche a voi toccare, nel campo del Signore, di dover ricorrere all’incoraggiante suo esempio, per non abbandonare, sconfortati, l’aratro, e proseguire con instancabile costanza il vostro lavoro.
Con tale augurio, e raccomandando voi tutti alla potente intercessione del grande e santo Pontefice, v’impartiamo con effusione di cuore la Nostra Apostolica Benedizione.
(Radiomessaggio per la ricognizione delle venerate reliquie di San Gregorio VII, Domenica, 11 luglio 1954. da vatican.va)