
di Giorgia Brambilla
Dalla fiera di “Men having babies” al video (https://www.youtube.com/watch?v=dXNTUn_v0yA&t=77s) degli ucraini che avvisa i committenti che le consegne della “cicogna” sono sospese a causa del COVID e li tranquillizza che però i “prodotti” sono in buone mani, passando per la proposta di Soros e Rockfeller di diffondere una “piena maternità surrogata”.
L’utero in affitto è un grosso affare che di “umanitario” non ha nulla, ma dove tutto è sacrificato al dio-denaro: i bambini, prodotti per essere venduti a coppie, singles o omosessuali; le donne, ridotte a “bioschiave”; la famiglia, di cui i “nuovi padroni del mondo” chiedono l’abolizione.
Proviamo a ripercorrere alcuni aspetti salienti della storia di questo nuovo “settore industriale”, perché la denuncia si accompagni a una presa di coscienza sempre più profonda di esso, in un tempo dove, invece, ci si mette a “dialogare” con il male morale, spesso presentato come bene tollerabile se non addirittura indifferente.
Nel 2010, uscì sul “Wall Street Journal” un articolo (Tamara Audi – Arlene Chang, Assembling the global baby, in “Wall Street Journal”, 10.12.2010) che riguardava una coppia italiana recatasi a Creta, per “assumere” una madre surrogata bulgara per inseminarla con gli ovuli di una donatrice anonima e con lo sperma dell’uomo italiano. L’affare era stato dato in gestione ad un’agenzia con sede a Los Angeles (PlanetHospital.com) di proprietà di un canadese di origini indiane, il Signor Rudy Rupak. Quest’ultimo era un vero self made man: ex produttore cinematografico, ex scrittore di sceneggiature per il cinema, ex titolare di una ditta di software, approdato alla maternità surrogata nel 2002, dopo aver maturato esperienza nel campo del “turismo medico”.
Grazie alla delocalizzazione, il prezzo che PlanetHospital praticava nel 2010 per assemblare un figlio era assai concorrenziale, specialmente se raffrontato ai prezzi praticati sul mercato statunitense: si partiva da circa 32.000 $Usa fino a circa 68.000 $Usa (tra i 26.000 euro ed i 55.000 euro del 2010). D’altro canto, l’idea di aprire una succursale in Grecia era nata proprio per attirare, con maggior facilità, clienti europei, diminuendo le incognite burocratiche legate alla trascrizione delle nascite e ai documenti d’identità.
Come è ovvio, se un cliente decide di sborsare cifre di questa portata, pretende che la procedura abbia il massimo delle possibilità di successo. Accade dunque, con frequenza, che vengano prodotti più feti di quanti ne avrebbero desiderati i genitori. In tali casi le soluzioni sono due: o i futuri genitori radunano il denaro extra necessario per mantenere i figli non pianificati, oppure si propone loro l’aborto dei feti soprannumerari. Ma tanto i collaboratori di PlanetHospital «non giudicano». E, comunque, gli affari sono affari e chi li gestisce – a detta dello stesso Rupak – «è eticamente agnostico».
Per le esigenze della “clientela” sono ovviamente disponibili molti pacchetti tutto incluso: per coloro che decidono per una madre surrogata indiana, vi è possibilità di aggiungere al prezzo anche un’automobile ed un autista locale per alleviare i problemi logistici. Ovviamente del nascituro si può selezionare il sesso, si possono ordinare dei gemelli (probabilmente più convenienti, come quando al supermercato compri un barattolo di miele più grande: al kg costa meno!), si possono perfino fecondare gli ovociti della donatrice con lo sperma di più donatori (tecnica in voga tra le coppie omosessuali).
Per chi può permettersi di spendere di più per avere un figlio dai tratti somatici europei e di pelle bianca, gli ovuli vengono forniti o da donatrici statunitensi o dell’Europa dell’est (le donatrici rimangono ovviamente anonime). Chi bada invece al risparmio può sempre rivolgersi al mercato latino-americano. Lo sperma, qualora non fornito dai futuri padri, è acquistabile sul mercato delle bio-banche europee o statunitensi.
Facciamo un ulteriore salto indietro nel tempo, stavolta nel 2008. Sempre il Wall Street Journal (Thomas Frank, Rent-a-womb is where market logic leads, in “The Wall Street Journal”, 10.12.2008), commentando un lunghissimo articolo scritto per il New York Times da una signora benestante, la quale aveva avuto un figlio per mezzo di una madre surrogata, metteva il dito sulla piaga: la povera bioschiava era completamente scomparsa dalla storia. In pratica, l’Autrice dell’articolo pubblicato sul New York Times, mentre descriveva, paragrafo dopo paragrafo, tutti i suoi stati d’animo, dedicava alla surrogata solo pochi cenni: in fondo era solo un utero affittato e, si sa, gli uteri non parlano.
Ma del resto, lo stesso trattamento viene riservato al nascituro, trasformato in un prodotto che esiste solo nella misura in cui si decide di farlo esistere per mezzo di una transazione commerciale. Nei fatti l’intera procedura di affitto dell’utero è incentrata sui desideri e le aspettative dei committenti. Con la “maternità surrogata”, si “fabbrica” intenzionalmente un figlio che viene poi sottratto alla madre e, nei fatti, venduto ad un’altra coppia in cambio di una cospicua somma di denaro, da ripartire tra tutti coloro che partecipano alla “transazione” (madre surrogata, agenzie, avvocati, intermediari, biobanche, donatori, ecc.).
È scontato che, nel caso di un mercato come quello dell’affitto dell’utero che, solo in India, vale più di due miliardi di $Usa, le considerazioni di tipo etico non figurino certo all’ordine del giorno. Ma, in fondo, anche su quelle puramente mediche si può sempre transigere per motivi di efficienza. Ad esempio, in India le madri surrogate, oltre a vivere confinate nelle cliniche fino al momento della nascita, partoriscono con il cesareo, più sbrigativo, specialmente nel caso di nosocomi con maggior volume d’affari. In India il reddito medio stimato è circa 5.800 $Usa all’anno (meno di 5.500 euro) e, di conseguenza, una maternità surrogata che consente ad una donna che vive in una baraccopoli di intascare (salvo imprevisti) circa 9.500 $Usa (circa 9.000 euro) per una gravidanza semplice, e circa 12.000 $Usa (poco più di 11.000 euro) per una gemellare, rappresenta un richiamo irresistibile. Proprio per l’enorme giro d’affari, «i grandi operatori nel campo della maternità surrogata, tendono a preferire Stati con governi deboli, mancanza di regole e assenza di leggi che definiscano il quadro degli accordi in tema di maternità surrogata» (Justine Drennan, The future of wombs for rent, in “Foreign Policy”, 2.3.2015).
Ovviamente, le tecnologie nel tempo diventano sempre più sofisticate e superano quanto un po’ di tempo fa sarebbe rientrato nel campo della fantascienza. È già stato effettuato il primo trapianto di utero (Università di Goteborg-Svezia, settembre 2015), sono iniziate le ricerche per un utero prodotto in laboratorio partendo da cellule staminali (Katherine Don, The high-tech future of the uterus, in “The Atlantic”, 5.1.2015), e si sta cercando di creare sperma e ovociti artificiali partendo da cellule della pelle (Cambridge, 2015). Tali esperimenti hanno fatto diminuire l’interesse per la cosiddetta ectogenesi, la cui originaria idea apparve, nel 1924, grazie ad un genetista inglese, John Haldane, il quale immaginava un futuro nel quale, grazie a degli uteri artificiali, fosse possibile far nascere degli esseri umani utilizzando solo sperma ed ovociti di qualità geneticamente superiore.
Ci troviamo quindi, fin dagli inizi, in un ambito – guarda caso – squisitamente eugenetico, poi rielaborato dal femminismo più radicale (Shulamith Firestone, The dialectict of sex) che ambiva a liberarsi dalla “tirannia” della maternità. E che l’eugenismo legato all’affitto dell’uteri sia tuttora ben presente, è deducibile dal fatto che i contratti statunitensi che la regolano (o cercano di regolarla) prevedono sempre la clausola che consente l’aborto (“riduzione”) in caso di gravi anomalie del feto o di gravidanze multiple. Insomma, il prodotto non deve presentare difetti ma solo assecondare i desiderata degli “intended parents” perché, in caso contrario, può essere legittimamente scartato.
Molto importante, in questo contesto in cui si mescolano affarismo, presunti diritti di alcuni a fronte dello spietato sfruttamento di altri, è il ruolo che i media svolgono nel normalizzare pratiche che sconfinano nella riduzione in schiavitù. Nel 1998, ad esempio, la ben nota serie Tv “Friends” ha presentato la maternità surrogata al pubblico televisivo USA tramite il personaggio di Phoebe (Lisa Kudrow) la quale, in forma “altruistica”, concepiva un figlio per conto del fratello e della cognata. A ciò è seguita, in altre serie TV statunitensi, la normalizzazione della maternità surrogata a pagamento sia per eterosessuali che per omosessuali (es. “Modern Family”, “Rules of Engagement”, “Sisters”, “Glee”, “Army Wives”, “The New Normal”).
D’altro canto, se la pratica della maternità surrogata – che, in ultimissima analisi, consiste nella compravendita di un essere umano appositamente prodotto per tale scopo in laboratorio – viene considerata parte della quotidianità, non è più chiaro, dal punto di vista logico, perché invece dovrebbe essere vietata la medesima compravendita qualora riguardi esseri umani già nati o, addirittura, “pezzi” dei medesimi (Alana Newman, Children’s Rights, or Rights to Children?, in “Public Discourse”, 10.11.2014).
Il linguaggio è indicativo di quanto si realizza. In ambito medico, dove talvolta sorge qualche dubbio su tale pratica. Si legge che «il mercato internazionale della riproduzione industrializzata ha bisogno che l’utero venga considerato una merce (commodity), quindi “staccato” dall’interezza della figura femminile. All’interno di questa mentalità orientata al mercato, il grembo diventa fungibile…le madri surrogate (carriers, espressione traducibile come “vettori” o “portarici”) diventano merci (commodities)…nessun essere umano (o parti di esso) dovrebbe essere considerato merce (commodity) proprio perché l’essere umano forma un “intero” e non è un composto di meri organi frammentati. Quando gli esseri umani vengono considerati oggetti di divertimento, sperimentazione o manipolazione, sono state sempre commesse delle atrocità….la maternità surrogata …riflette una modalità per realizzare sogni riproduttivi consumistici a basso costo» (Jonathan Knoche, Health concerns and ethical considerations regarding international surrogacy, in “International Journal of Gynecology and Obstetrics”, 2 (2014), pp.183–186).
Per convincersi che il mercato domina su tutto, basti sapere che la ben nota rivista femminile “Elle”, ha pubblicato un articolo sulla cosiddetta “designer surrogacy”, ossia la maternità surrogata che non viene ricercata per motivi medici (l’infertilità) ma per motivi sociali, professionali o di preferenza personale: si va così dall’attrice che non può permettersi una gravidanza perché ciò le creerebbe ostacoli nei ruoli da interpretare, alla maratoneta che non può perdere la forma, passando per il medico in carriera che non ha tempo per una gravidanza, per finire con la donna che, semplicemente, non se la sente di ingrassare.
Gilbert Chesterton in “Eugenics and other Evils” scriveva: «Gli eugenisti sono semplicemente dei giocatori d’azzardo: non hanno idee in testa, ma soltanto denaro in tasca. E pensano che se potessero usare il denaro per comprare una grossa associazione su cui fare esperimenti, qualcosa di simile a un’idea alla fine gli verrebbe. Questa è l’eugenetica». È innegabile che ci troviamo proprio in questo scenario.
*I dati riportati nell’articolo sono stati pubblicati in G.Brambilla-F.Faggioli, Uova d’oro. L’eugenetica, il grande affare della salute riproduttiva e la nuova bioschiavitù femminile, Editori Riuniti University Press, Roma, 2016.
Per quanto riguarda la maternità surrogata, ho trovato una legge ucraina tradotta in italiano. Consiglio a tutti di leggerlo. https://maternita-surrogata-centro.it/maternita_surrogata.pdf