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L’ANTIVANGELO: UNA CRITICA (SIMPATICA)  ALLA CRITICA

di M. Sambruna

A proposito della recensione del dottor Lusetti riguardo “L’Antivangelo”  desidero svolgere qualche considerazione. Innanzitutto lo ringrazio dell’impegno: una recensione esaustiva come la sua indica una accurata lettura integrale del libro che richiede tempo ed energie e di questo gli sono grato. Peraltro questo è possibile solo se la lettura è stata coinvolgente per cui suppongo che il libro lo abbia interessato

Desidero poi svolgere quattro ordini di osservazioni riguardo tre aspetti distinti del libro più una breve digressione:

  • La forma in cui è stato scritto;
  • La prospettiva da cui leggerlo;
  • Cosa si deve intendere per esperienza cristiana;
  • Una digressione su cosa è auspicabile in un immediato futuro.

Circa la prima osservazione riguardo la forma e cioè la scelta di un certo tipo di linguaggio sono a favore di una “filosofia friendly” equidistante dagli estremi dell’ermetismo per iniziati da un lato e dallo psicologismo commerciale alla Osho dall’altro così come da un certo “centrismo” di orientamento “democristiano” calibrato da una serie di pesi e contrappesi che può risultare irritante. Per “friendly” quindi intendo una filosofia leggibile, intelligibile, che non richieda necessariamente una cultura specialistica e che, soprattutto, non induca il lettore a lasciare un libro di filosofia o materie affini dopo 20 pagine.

In questa prospettiva mi ispiro al metodo storiografico della “storia delle idee” che ha il vantaggio volendo di centrare il focus sul tema in questione nella sua forma interamente compiuta marginalizzando l’inessenziale. In sostanza con tale metodo si riduce il rischio di fare dell’ “onanismo filosofico” cioè scrivere un narrativamente obeso “mappazzone” che può ammorbare il lettore.

La seconda osservazione riguardo sia “L’Antivangelo” che il precedente “Il declino del sacro” inerisce la prospettiva da cui vanno letti. Sarebbe un errore credere di misurarne le conclusioni in base al desiderio di creare delle condizioni, o di scambiare il libro per una specie di promotore culturale che vuole organizzare un dibattito.

La prospettiva corretta è invece quella di considerare “L’Antivangelo” come un libro controrivoluzionario nel senso che Plinio Correa de Oliveira conferisce a questo termine: significa che non ho avuto alcuna intenzione di rappresentare le diverse posizioni pro o contro il nichilismo e la religione lasciando poi al lettore facoltà di decidere democraticamente per chi propendere. “L’Antivangelo” è invece un’opera militante che in quanto tale si prefigge un obiettivo preciso: rivolgersi a un pubblico in qualche modo già engagé (o che sta maturando la decisione di diventarlo) con lo scopo di raggiungere il fine, a mio avviso indispensabile, di erigere o di rafforzare, come avvisa Ernst Junger, quella “linea di difesa interna” in grado di impedire nel controrivoluzionario la penetrazione di ideologie secolariste e secolarizzanti e in quanto tali di matrice rivoluzionaria, la cui massima espressione patogena è il nichilismo. Questa finalità risponde al precetto secondo cui un nemico tanto meglio lo si combatte quanto più lo si conosce.

Ho ritenuto quindi superfluo affollare il testo di voci polarizzate pro o contro il tema del nichilismo, come forse auspicava il recensore, per tre motivi: in primo luogo farlo significava istituire una sorta di dibattito o di “tavola rotonda” che come tutti i dibattiti non può, per sua natura, che configurarsi come un contradditorio che rende negoziabile l’argomento in discussione. Ma un tema come quello relativo alla penetrazione di istanze nichilistiche nell’esistenza di tanti credenti non può essere oggetto di una trattativa come fosse un affare commerciale. In altri termini in confronti di questo genere una sorta di rendez vous in nome, ad esempio dell’unità o del “bene comune” rischia di diventare l’anticamera di un orientamento finalizzata al compromesso.

In secondo luogo istituire un confronto polifonico radicalizzato fra opposte fazioni nel libro chiamando in causa pensatori che confutassero le posizioni di Feuerbach, Marx-Engels, Nietzsche, Freud poteva trasmettere l’impressione che il mio ruolo in quanto autore fosse quello di assolvere un compito di mediazione o di moderazione fra opposte fazioni; si tratta però di un ruolo che non ho nessuna intenzione di assumere, dal momento che, come già accennato non mi considero un promotore culturale, ma un autore controrivoluzionario.

In terzo luogo un dibattito polifonico è utile se, in un certo senso, gli interlocutori militano sotto la stessa bandiera o, per essere più espliciti, costituiscono due correnti dello stesso partito al fine di far uscire da un cono d’ombra una posizione ambigua o meritevole di essere circoscritta e isolata in quanto eterodossa. Ma un dialogo fra, per semplificare, paladini del nichilismo o dell’ontologia cristiana non ha bisogno di chiarificare ciò che è già di per se evidente: le idee dei filosofi citati nel libro non hanno bisogno di alcuna dibattito interpretativo per chiarirne i contenuti dal momento che i loro teoremi appaiono già inconfondibilmente nichilisti nell’accezione che ho illustrato ne “L’Antivangelo” ossia anticristiane e anticristiche. Non si tratta di una questione di metodo o di criteri secondo cui condurre un dibattito per cui si può affermare che un dibattito è buono o pessimo a seconda della sua impostazione. Il confronto fra alfieri del nichilismo e credenti è un errore tout court indipendentemente dal metodo con cui è condotto perché finisce inevitabilmente per sfociare in dialogo in cui l’errore anziché essere rigettato viene discusso e quindi considerato.

Più in generale un’ opera che si proponga di essere controrivoluzionaria è per definizione schierata e a mio avviso deve molto più cercare di risvegliare che mettere in gioco, molto più provocare una riemersione che non ricercare dei punti di contatto “interessanti” o “originali” e ancor meno deve porre “problemi“ o domande più che fotografare la realtà. Allestire verbose “tavole rotonde” a più voci con la cultura rivoluzionaria è operazione pericolosa; la storia recente ci mostra che spesso la rivoluzione con i suoi addentellati culturali finisce per diluire e istituzionalizzare qualsiasi cosa gli si opponga con approcci troppo fiduciosi.

Dunque per evitare di trasformare il libro in un dibattito in cui ogni cosa diventa, perché è questa la natura del dibattito, inevitabilmente negoziabile ho volutamente rappresentato i padri filosofici del nichilismo moderno per metterne in luce quell’estremismo anti cristiano che sconsiglia assolutamente ogni confronto di con loro.

Riguardo il terzo punto, quello dell’esperienza cristiana, occorre valutare il libro da una prospettiva diversa, cioè massimalista: il testo osserva il fenomeno per cui l’istituzione di una metafisica cristiana che in quanto tale é impegnativa e valevole per tutti i credenti, diventa “religione” ossia legami con determinati principi. Ma qui occorre dissipare una forma di ambiguità che colgo spesso: si tende cioè a identificare l’esperienza religiosa con un’autentica metafisica cristiana quando la prima si esprime in ambiti quali l’impegno sociale nelle forme mass mediaticamente dettate, mentre l’esperienza cristiana viene distinta dalla metafisica cristiana come se ne fosse una manifestazione spuria meritevole di correzione quando tale esperienza religiosa si esprime tramite forme tradizionali. In altre parole: se l’esperienza religiosa si traduce in impegno collettivo nulla osta, ma se l’esperienza religiosa si traduce in un rapporto individuale col divino scattano in modo quasi pavloviano una serie di reprimende. Proprio di queste reprimende parla “L’Antivangelo” nella sua ultima parte: qui occorre non barare con se stessi e riconoscere che nella quotidianità specie lavorativa in contesti secolarizzati (ormai quasi tutti) c’è un prezzo da pagare qualora un credente faccia outing in termini di isolamento, derisione, indifferente imbarazzo o scissioni intime. Questo meccanismo scatta a tutti i livelli: basta osservare quanto accaduto in occasione della crisi virale: non appena qualche vescovo o per una volta la C.E.I. sono usciti allo scoperto denunciando la mancata concessione alle messe col popolo (=esperienza religiosa non legata alla produzione sociale) immediatamente è scattata la reprimenda: quel vescovo è caduto nell’oblio e la C.E.I. è stata indotta a un precipitoso (e poco dignitoso) dietrofront. Il cristiano oggi vive una condizione simile: se esce allo scoperto si espone. La storia collettiva e individuale del credente è governata da Cristo, certo:  questa certezza consolante erige la “linea di difesa interna” già evocata, ma non sposta di una virgola l’atteggiamento cui il cristiano è sottoposto.  

Riguardo il quarto punto mi permetto anch’io una digressione: la tendenza odierna è quella di conferire valore di essenza alla religione solo se la metafisica cristiana o supposta tale si propone quale organizzazione del tempo e dello spazio finalizzate alla produzione nel sociale. La questione deve essere esaminata meglio: l’istituzione della religione è di origine divina e perciò prescinde sempre dalla validazione che gli vorrebbe conferire una gerarchia piuttosto che una “pratica religiosa” così come il Papa non ha bisogno dei concili per istituire un dogma come insegna de Maistre. Penso però che occorra una metafisica compiutamente cristiana anche nei suoi aspetti più scandalosamente profetici, escatologici e perfino teofanici: al centro del cristianesimo c’è la Croce come afferma il dottor Lusetti, ma il fine del cristiano è la Resurrezione che è, non dimentichiamolo il pieno compimento del cristiano ed il suo fine supremo. Non è un caso che le correnti laiciste anche in seno alla Chiesa siano meno propense a parlare di Resurrezione che non di Croce: infatti mentre la Croce può essere facilmente trasformata strumentalmente in un mero simbolo di debolezza, la Resurrezione è molto meno riducibile a categorie umane ed è molto più eversiva perché evoca l’idea di potenza. Per questo spero che la metafisica di cui parlavo abbia il suo aspetto visibile in una gerarchia che non solo sia  teocratica, ma sia anche e soprattutto, come osserva Mircea Eliade,, ierocratica ossia in grado di rendere manifesto l’evento del sacro ivi compreso della Resurrezione della società dal sepolcro nichilista in cui ora giace.

In questo senso l’organizzazione del tempo e dello spazio del cattolicesimo moderno, che corrisponde alla heideggeriana “immagine del mondo”, ossia il suo inserimento nel dominio del provvisorio e quindi la segmentazione del tempo stesso in attività sociali, partitiche, associative in una prospettiva collettiva è controproducente in quanto incapace di manifestare il sacro che accade.  Ma come rendere manifesto il sacro?  Già un buon inizio sarebbe a) cessare l’atteggiamento che tende a duplicare l’organizzazione del tempo secolare e b) confermare i credenti nella fede tramite  quella “linea di difesa interna” cui accennavo sopra.

Una gerarchia religiosa che oggi non sia in grado di essere anche ierocratica e che quindi non promuova un incontro individuale fra l’uomo e Dio non è in grado di aprire lo spazio del sacro ossia quell’”area di conforto” di cui nessun uomo può fare a meno: l’esperienza religiosa è autentica solo se è personale: i programmi (e in quanto “programmi” collettivi o precostituiti da altri) di vita cristiana fondati solo sulla produzione sociale e privati dei loro simboli eterni (i quali, è bene sottolinearlo, sono significanti che indicano un significato e non semplici segni) sono oggi solo una mera contraffazione del sacro.

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