Come noto, l’ultima edizione dell’Annuario Pontificio ha fatto molto parlare di sé, per il fatto che i titoli di “Vicario di Gesù Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Primate d’Italia, Arcivescovo metropolita della Provincia Romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, Servo dei Servi di Dio” siano stati declassati a meri “titoli storici“. Per commentare quest’atto invero increscioso riprendiamo dal sito unavox.it un articolo di Don Jean-Michel Gleize, FSSPX pubblicato sul Courrier de Rome lo scorso aprile.

Paolo VI depone la tiara il 13 novembre 1964

1. «La Commissione Internazionale di Teologia, nella sua sessione dell’ottobre 1970, ha raccomandato, quasi all’unanimità, di evitare dei titoli che rischiano di essere compresi male, come Caput Ecclesiae [Capo della Chiesa], Vicarius Christi [Vicario di Cristo], Summus Pontifex [Sommo Pontefice], ed ha invece raccomandato di usare i titoli di Papa, Sanctus Pater [Santo Padre], Episcopus Romanus [Vescovo di Roma], Successor Petri [Successore di San Pietro], Supremus Ecclesiae Pastor [Pastore Supremo della Chiesa] (1)».
Queste righe risalgono a 45 anni fa. Esse ci danno la prova che la recente iniziativa dell’Annuario Pontificio, che relega al rango di curiosità storiche uno dei titoli fondamentali del Papato, quello di «Vicario di Cristo», rientra in un presupposto già vecchio. Si avrebbe torto a vedere in questa iniziativa una semplice disinvoltura imputabile alla stravaganza di Jorge Bergoglio. Perché dietro le parole e i titoli si nascondono sempre le definizioni. A forza di non chiamare il Papa col suo nome si è finito col non sapere più chi è. In questo senso, a coloro che non vorrebbero più saperlo, l’oblio del nome appare come il mezzo certo per farne dimenticare la definizione, per sostituirla con un’altra. Non è proprio quello che sta accadendo oggi, a mezzo secolo dal concilio Vaticano II?

2. Qui vorremmo cercare di comprendere quale rapporto ci sarebbe, se ce n’è uno, tra questa volontà di evitare il titolo di «Vicario di Cristo» e i princípi della nuova ecclesiologia, erede della Costituzione Lumen gentium. Per aiutarci a farlo, possiamo disporre delle spiegazioni proposte nell’immediato dopo-Concilio da un certo numero di partigiani di questa nuova teologia, tra i quali figura il Padre Congar (2). Ma egli non è il solo, e d’altronde rinvia lui stesso ad un numero speciale della rivista Concilum (3), che raccoglie diversi contributi, tra cui quella del Padre Hervé-Marie Legrand (4).

3. Il principio posto da Padre Congar è il seguente: «Non può aversi successore di Pietro a Roma se non il vescovo della Chiesa romana. E’ per questo che il titolo di vicario di Cristo deve essere valutato criticamente. Infatti, non gli si può dare un’autonomia  rispetto a quello di successore di Pietro in quanto occupante la sua cattedra» (5).
Il Padre Legrand precisa: «Eleggere il vescovo di Roma significa eleggere il Papa; tradizionalmente, il suo Primato non è dissociabile dal primato della sua Chiesa [particolare]. E’ eleggendo il vescovo di Roma che si elegge il Papa in quanto raccoglie la successione di Pietro. […] Questo ordine di ragioni  è molto importante: esso mostra che il Primate della Chiesa cattolica è anche il vescovo di una Chiesa concreta, inserito per ciò stesso nel collegio episcopale. L’elezione del Papa, dunque, non è in maniera immediata quella di capo del collegio e ancora meno solo l’elezione di questo capo, come se potesse esistere in sé e per sé, indipendentemente da una Chiesa [particolare]. D’altronde, sacramentalmente, il Papa è un vescovo come gli altri» (6).
A leggere queste spiegazioni, si comprende che il successore di San Pietro è prima di tutto e immediatamente (primo et per se direbbero i nostri scolastici) il vescovo di Roma: è necessario prima di tutto essere investiti in atto dell’episcopato della sede particolare della chiesa di Roma per poter succedere propriamente e veramente a San Pietro; occorre già essere vescovo di Roma prima di poter essere in seguito «vicario di Cristo» e capo della Chiesa o in ogni caso capo del collegio episcopale.
Il vescovo di Roma precede, dunque, insieme logicamente e cronologicamente il «vicario di Cristo», o quanto meno il titolare di Primate della Chiesa cattolica. Il Primato appare così come una determinazione supplementare, una qualificazione aggiunta all’episcopato romano.

4. Tuttavia, in teologia è tesi comune (7) che il Papa è prima di tutto e immediatamente investito del Primato, ed è in seguito che ottiene la giurisdizione particolare sulla Chiesa di Roma. Questo ordine circa l’investitura e l’attribuzione del potere corrisponde all’ordine che esiste tra i poteri, ordine ad un tempo logico e cronologico. Da un punto di vista logico, infatti,  il Primato precede l’episcopato romano, come il potere universale di giurisdizione, relativo a tutta la Chiesa, precede il potere particolare di giurisdizione, relativo a una parte della Chiesa. Infatti, da un punto di vista storico, San Pietro è prima di tutto investito del Primato, senza possedere alcuna sede particolare prima di stabilirsi provvisoriamente ad Antiochia e poi definitivamente a Roma. Tutti i teologi dicono che San Pietro ha collegato il suo Primato alla chiesa particolare di Roma, il che suppone un’anteriorità di quello su questa.

5. A partire da questo collegamento, il Primato e l’episcopato romano restano congiunti, ma distinti in potenza, e ordinati l’uno all’altro, poiché il potere di giurisdizione su Roma deriva dal Primato, come il particolare deriva dell’universale. In questo modo, è vero che il Papa come dotato in atto del Primato è più perfetto e quindi anteriore rispetto al Papa come dotato in atto dell’episcopato della Sede di Roma (8). Ma questo non impedisce che, da un altro punto di vista, che è quello della potenza, l’episcopato romano sia anteriore al Primato. Infatti, gli elettori designano prima il soggetto da investire nella sede di Roma, che egli accetta: ed è grazie all’accettazione di questa elezione che il futuro Papa è contemporaneamente al potere nell’episcopato romano e presto sarà disposto al Primato. E’ in seguito che egli è investito da Dio e provvisto in atto del Primato, rimanendo provvisto in potenza dell’episcopato romano. Infine egli è provvisto in atto della giurisdizione particolare su Roma, essendo questa non solo implicata nella giurisdizione universale (come ogni altra giurisdizione particolare), ma anche congiunta al Primato (9). Le tre operazioni si compiono nello stesso istante, ma si distinguono secondo una priorità di natura.
Questo significa che il successore di San Pietro è prima e innanzi tutto (primo et per se direbbero sempre i nostri scolastici), fondamentalmente e radicalmente, colui che succede a San Pietro nel Primato, come Pastore supremo e universale di tutto il gregge della Chiesa, cioè di tutto il gregge di agnelli e pecore di Cristo, giusta i versetti 15-17 del capitolo XXI di San Giovanni, e dunque propriamente come Vicario di Cristo (10). E’ solo in seguito, in forza della dipendenza da questa giurisdizione iniziale, che egli è anche vescovo di Roma.

6. D’altronde, è questo il significato preciso delle espressioni utilizzate dal concilio Vaticano I e comunemente recepite. Esse evitano di enunciare una identità formale per affermare solo una coincidenza (o simultaneità) nel divenire. Il vescovo di Roma è precisamente il successore di San Pietro nel Sommo Pontificato (11). L’identità tra vescovo di Roma e Papa o Sommo Pontefice è solo temporale: lo stesso soggetto diviene vescovo di Roma e Papa contemporaneamente, ma in sé non  è vescovo di Roma e Papa, poiché la giurisdizione particolare e quella suprema sono realmente distinte; e a maggior ragione non è vescovo di Roma prima di essere Papa, perché la giurisdizione universale precede  quella particolare. Di contro, in tanto che è designato come tale ed accetta tale designazione, in quanto vescovo di Roma, ancora in potenza nei confronti dell’episcopato romano, egli è sufficientemente disposto ad essere investito in atto del potere del Papa: diviene Papa nell’istante stesso in cui questa disposizione è realizzata in lui.

7. Certo, questo presuppone che la successione di San Pietro veicoli due realtà dello stesso ordine, entrambe acquisite con la stessa procedura: quella di una investitura condizionata da una elezione. Il Primato su tutta la Chiesa e l’episcopato romano sono entrambe delle giurisdizioni, con la differenza che il primo è il potere di governo di tutta la Chiesa, in quanto pastore supremo, mentre il secondo è il potere di governo di una chiesa locale particolare, in quanto pastore subordinato al pastore supremo di tutta la Chiesa.
Se si postula che l’episcopato romano è acquisito prima del Primato supremo e universale, per ciò stesso si postula che l’uno e l’altro non derivino dallo stesso ordine e siano acquisiti con la stessa procedura. In effetti, nello stesso ordine del potere di giurisdizione, il potere su tutta la Chiesa è necessariamente anteriore al potere su una parte della Chiesa, poiché ne è la fonte.
Le affermazioni citate prima di Padre Congar e di Padre Legrand, che invertono quest’ordine di priorità, suppongono quindi l’alterità di genere e la differenza di ordine.

8. Peraltro, il Padre Congar si spiega molto chiaramente: «Il successore di Pietro, vescovo di Roma, è innanzi tutto un vescovo come gli altri, il primo, membro del collegio dei vescovi come Pietro è stato membro del collegio degli Apostoli. Egli lo è per la sua ordinazione, nella comunione di fede. [Qui, in nota, il Padre Congar cita il n° 22 della Costituzione Lumen gentium, di cui parleremo]. Siamo qui sul piano sacramentale, al quale si attiene, ci sembra, la teologia ortodossa. Tuttavia, in seno al collegio, il vescovo di Roma, come successore di Pietro, riceve un carisma speciale: un carisma di funzione che lo costituisce erede dei privilegi di Pietro nel collegio e nella Chiesa universale. Che nome dare a questa funzione? A noi non piace impiegare quello di vicario di Cristo, poiché richiede una spiegazione e rischia di essere eccessivo … Ma vi sono i titoli di capo del collegiocapo della Chiesapastore universale. Il vescovo di Roma non è vescovo universale. L’espressione classica episcopus Ecclesiae catholicae, con la quale Paolo VI ha firmato gli atti del concilio Vaticano II, non ha questo significato, ma quello di  vescovo cattolico (ortodosso, vero). Noi apprezziamo molto la costanza con la quale Giovanni Paolo II si presenta come vescovo di Roma e pastore universale. Questa categoria di pastore universale potrebbe prendere il posto di quella di giurisdizione, senza con questo eliminarla; privilegiando la finalità spirituale del potere e cioè quella di riunire i fratelli nella professione fervente della fede e dell’amore del Signore Gesù. È infatti il servizio della comunione delle Chiese attraverso la comunione dei cristiani» (12). […] «E’ tramite questa comunione nella fede, valore universale, e cattolico per eccellenza, che la pluralità è condotta all’unità. La Chiesa è stata fondata sulla fede di Pietro in Cristo, Figlio del Dio vivente» (13).

9. Cosa significa? Il Papa è un vescovo tra gli altri, ed è prima di tutto e fondamentalmente il vescovo di una chiesa locale, la chiesa di Roma. E questo vale sul piano sacramentale, poiché il vescovo è tale in virtù della sua consacrazione. E il vescovo di Roma ha in particolare e in più, rispetto agli altri vescovi, che la fede espressa da San Pietro, a cui succede sulla cattedra di Roma, serve da fondamento alla comunione delle chiese. E’ in questo senso che il Papa può dirsi «pastore universale».

10. Tutto questo ha la sua radice nei princípi della nuova ecclesiologia, enunciati nel capitolo III della Costituzione Lumen gentium. Il Papa vi è presentato più come «capo del collegio» che come capo sella Chiesa. L’idea principale di questa nuova ecclesiologia sta infatti nella concezione che il Concilio ha della sacramentalità dell’episcopato: la consacrazione episcopale vi è presentata, non solo come un sacramento che imprime un nuovo carattere (cosa che si potrebbe discutere senza porre in questione i dati dell’ecclesiologia tradizionale (14)), ma come atto che conferisce anche un triplice munus: i tre poteri di santificare (il potere di ordine), di insegnare (il potere di magistero) e il potere di governo (il potere di giurisdizione). Al momento della consacrazione episcopale, questo triplice potere verrebbe comunicato direttamente da Cristo ad ogni vescovo, in quanto membro e parte del Collegio, e come tale relativo alla Chiesa universale. Il Collegio episcopale si troverebbe così posto al rango di «subjectum quoque», cioè di secondo soggetto del Primato oltre al Papa, considerato come distinto dal Collegio e non più come parte integrante di esso e capo di esso.
In ragione della sua consacrazione, il Papa sarebbe né più, né meno che un vescovo di una chiesa locale, la chiesa particolare di Roma, come gli altri vescovi lo sono delle loro chiese. Ora, il Papa è indubbiamente più del vescovo di una chiesa locale, la chiesa di Roma, ma egli non potrebbe essere ciò che è se non fosse prima e fondamentalmente, al pari degli altri vescovi, il vescovo di una chiesa locale. In quanto tale, e nella sua essenza, il Papato presuppone l’episcopato romano. Ciò che vi si aggiunge non rientra più nella linea sacramentale ed è acquisito con una elezione.
Al di là delle parole che servono ad esprimere questa «funzione» (oggi si parla più volentieri di «ministero petrino»), la realtà in questione è quella di un servitore della comunione, per riprendere i termini impiegati da Padre Congar. Si è costretti a riconoscere che una tale definizione si armonizzerebbe meno facilmente con gli insegnamenti magisteri ali del concilio Vaticano I e più facilmente con  la concezione ortodossa scismatica della Chiesa, in base alla quale « le chiese locali e i loro fedeli si trovano uniti nella stessa Chiesa cattolica, innanzi tutto per la confessione comune della stessa fede nella stessa Trinità e nello stesso Cristo» (15).
Il principio di unità non sarebbe tanto il governo monarchico del Papa quanto la confessione comune delle chiese, di cui il vescovo di Roma sarebbe garante. Se una delle chiese locali arriva a presiedere la comunione è solo a titolo di un servizio e di un pastoralità. Il cambiamento di orientamento della nuova ecclesiologia deriva da questo tutto il suo significato ecumenico.

11. Non stupisce molto, quindi, vedere il Padre Congar insorgere contro i presupposti dell’ecclesiologia tradizionale. «Fin dalla sua elezione come Papa, l’interessato è in possesso del titolo di vicario di Cristo, poiché egli riceve nella sua pienezza la giurisdizione universale. Egli può non essere ancora vescovo; potrebbe non esserlo del tutto. Questa spaventosa teologia dimostra come sia ambiguo il titolo di vicario di Cristo. Noi lo riteniamo discutibile anche per altre ragioni. Fortunatamente, la Costituzione Apostolica Romano Pontifici eligendo del 1 ottobre 1975, che regolamenta l’elezione del Pontefice Romano, stipula che se l’eletto non fosse già vescovo, egli dovrebbe essere ordinato immediatamente; l’omaggio dei cardinali e l’annuncio dell’elezione del Papa si farebbero solo dopo» (16).
La Costituzione Apostolica di Paolo VI regolamenta l’elezione del Papa in funzione dei nuovi presupposti di Lumen gentium: i quali saranno inoltre ratificati dal Nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983, al § 1 del canone 332: «Il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo».
Questo significa che ormai il Papato dipende dall’episcopato, poiché esso si definisce non più come pienezza del potere della giurisdizione suprema e universale, ma come carisma del pastore universale, proprio del vescovo di Roma.

12. Tuttavia, come spiega il Gaetano, la verità del Vangelo è che la Chiesa è fondata, non tanto sulla confessione comune della fede, quanto sulla stessa persona di San Pietro e dei suoi successori: «Nel Vangelo è detto, non sulla pietra, ma su questa pietra. Poiché la pietra è intesa in senso metaforico in maniera da designare un individuo, e diventa una determinata pietra, questa pietra; infatti essa è tale da venire indicata individualmente» (17). Il Papa è un vero principio di unità in quanto esercita a nome di Cristo il potere stesso di Cristo, il suo governo e la sua reggenza nell’assenza di Lui. E questo è esattamente il potere proprio di un vicario, del vicario di Cristo.

13. La denigrazione di questo titolo fondamentale è realmente radicato nella nuova ecclesiologia: è questa che si è liberata sia della lettera sia dello spirito del Vangelo. Ecco perché, lungi dall’essere l’espressione di una semplice disinvoltura passeggera, la revisione dell’Annuario Pontificio affonda le radici negli stessi testi dell’ultimo Concilio. E’ questa la ragione per la quale la reazione di un Mons. Viganò, quantunque forte e giustificata, ci lascia a disagio. Perché questo «gesto quasi provocatorio» di Papa Francesco non è solo l’atto di una tirannia personale. Esso è l’esito inevitabile dei germi di corruzione veicolati dalla nuova ecclesiologia. Molto più che le iniziative del Papa attuale, è questa ecclesiologia che merita di essere fondamentalmente denunciata come «il colpo da maestro di Satana» nella Chiesa.


NOTE
1 –Yves Congar, « Titres donnés au Pape » [Titoli dati al Papa] in Concilium, n° 108 (novembre 1975), p. 64.
2 – Yves Congar, « Le Pape, patriarche d’Occident »  [Il Papa, patriarca d’Occidente] in Eglise et Papauté, Cerf, 1994, p. 11-30. Citazione già abbreviata in 1.
3 – Concilium, n° 108 (novembre 1975).
4 – Hervé-Marie Legrand, « Ministère romain et minis¬tère universel du Pape. Le problème de son élection » [Ministero romano e ministero universale del Papa. Il problema della sua elezione] in Concilium, n° 108 (novembre 1975), p. 43-54. Citazione già abbreviata in 2.
5 – Congar, 1, p. 21.
6– Legrand, 2, p. 46.
7 – Giovanni di San Tommaso, Cursus theologicus, t. VII, Disputatio II « De auctoritate summi pontificis », art. 1, § IX-X.
8 – « Seipso quodammodo est major » (Giovanni di San Tommaso).
9 – « Episcopatus papae subjicitur pontificatui papae, non quasi pontifex faciat collationem episcopatus sibimetipsi sed quod ex subjectione ad potestatem papalem illum habet » (Giovanni di San Tommaso).
10 – Si veda sull’argomento l’articolo intitolato « Pasce oves meas » in questo stesso numero del Courrier de Rome.
11 – Chiunque succede a Pietro in questa cattedra [romana], per istituzione dello stesso Cristo, riceve il primato di Pietro su tutta la Chiesa (DS 3057); se dunque qualcuno dirà
 che … il romano pontefice non è successore del beato Pietro in questo primato: sia anatema (DS 3058); tutti i cristiani devono credere che la santa sede apostolica e il romano pontefice hanno il primato su tutta la terra e che lo stesso pontefice romano è successore del beato Pietro, principe degli apostoli e vero vicario di Cristo (DS 3059).
12 – Congar, 1, p. 24.
13 – Congar, 1, p. 26.
14 – I dati dell’ecclesiologia, diciamo noi, e non quelli della sacramentalità, poiché ci sembra (seguendo l’insegnamento del rimpianto canonico Berthod) che la definizione tomista del sacramento dell’ordine sia incompatibile con la sacramentalità dell’episcopato. Ma questo è un altro discorso.
15 – Jean-Claude Larchet, L’Eglise, corps du Christ, Cerf, 2012, t. II, p. 76-77. Si tratta dell’opera di un teologo ortodosso di riferimento. Cf. anche il t. I, p. 32-33.
16 – Yves Congar, 1, pp. 21-22.
17 – Cajetan, Le Successeur de Pierre, Courrier de Rome, 2° edizione, 2014, cap. II, n° 34, p. 18.