di Luca Fumagalli

Lionel Pigot Johnson è uno dei tanti poeti della galassia fin de siècle ad essere stato dimenticato. Nonostante abbia esercitato una notevole influenza su W. B. Yeats, in pochi ricordano i versi di questo uomo elusivo, omosessuale represso, incline alla reclusione e attaccato alla Fede almeno tanto quanto lo era alla bottiglia. Persino l’amico Ernest Dowson – anch’egli autore decadente – ha goduto di un trattamento migliore del suo da parte degli studiosi, e se non fosse stato per l’opera del critico Ian Fletcher e, in tempi più recenti, di Nina Antonia, il suo nome continuerebbe a essere solamente quello del giovane che presentò Alfred Douglas a Oscar Wilde, dando così indirettamente inizio alla turbolenta relazione che causò la rovina dello scrittore irlandese.
Johnson era nato a Broadstairs, nel Kent, il 15 marzo 1867, quarto e ultimo figlio di un capitano dell’esercito in pensione. Dai tredici ai diciotto anni fu allievo al Winchester College, una delle scuole superiori più prestigiose d’Inghilterra. Nel 1888 dedicò ad essa la poesia “Winchester”, la commossa rievocazione di un’epoca felice e spensierata, segnata dagli amici e dai libri. Schivo e di fragile costituzione, abile nel mischiare bugie a verità, Johnson era uno strano esteta con velleità mistiche, interessato sia all’arte che alla spiritualità orientale: in una delle sue lettere dell’epoca scrisse di provare «un intenso amore per la bellezza, in tutte le sue forme». Per puro gusto della provocazione iniziò a bere, divenne forse amante del più giovane Lord Alfred Douglas – a cui avrebbe dedicato la poesia omoerotica “A Dream of Youth” – e grazie alla sua sapiente direzione il giornale della scuola, il «Wykehamist», si trasformò in una rivista letteraria di buona qualità.
Terminati gli studi, all’accademia militare che già frequentavano i fratelli maggiori Johnson preferì il New College di Oxford. La sua stanza era la quintessenza del dandismo: al centro, su un tavolino, facevano bella mostra di sé una bottiglia di whisky e due libri aperti, I fiori del male di Baudelaire e Foglie d’erba di Whitman, mentre alle pareti erano appesi i ritratti dei cardinali Wiseman e Newman. Prese a bere sempre più abbondantemente e pare che tentò pure alcuni esperimenti con l’hashish per combattere l’insonnia che lo stava debilitando. Il talento letterario e l’anticonformismo gli valsero la stima di Walter Pater e, tramite quest’ultimo, poté coronare il sogno di incontrare Wilde, il “divino Oscar” che tanto ammirava (ma da cui prese in seguito le distanze con la pubblicazione di una poesia dal titolo inequivocabile: “The Destroyer of a Soul”). Nonostante le distrazioni, si laureò infine nel 1890 con il massimo dei voti e l’anno successivo, precisamente il 22 giugno, divenne cattolico, ricevendo il battesimo da padre William Lockhart, un ex membro del Movimento di Oxford.

Si stabilì a Londra, in un piccolo appartamento, integrando il magro appannaggio che gli passava il padre con i guadagni derivatigli dall’attività giornalistica, firmando articoli per l’«Anti-Jacobin», la «Pall Mall Gazette», il «Daily Chronicle» e l’«Academy». Grazie alla recente amicizia con Yeats, che lo avvicinò alla cultura irlandese e che gli dedicò nel 1893 il volume The Rose and Other Poems, Johnson poté diventare membro del Rhymer’s Club, un gruppo poetico dalla vaga ispirazione simbolista. Suoi versi apparvero su entrambe le antologie del Club, che videro la luce rispettivamente nel 1892 e nel 1894. Lui stesso, dopo il saggio d’esordio The Art of Thomas Hardy (1891), pubblicò due raccolte poetiche, Poems (1895) e Ireland and Other Poems (1897), ottenendo tuttavia un successo limitato.
Fu davvero un peccato anche perché Johnson scrisse alcuni dei componimenti religiosi più belli del tardo Ottocento. “In Our Lady of France”, per esempio, è descritta quell’atmosfera unica che si respira in una piccola chiesa inglese, un tema che ritorna anche in “The Church of a Dream”, il racconto di un vecchio sacerdote che celebra Messa. “To a Passionist”, invece, è una vivida rappresentazione del contrasto tra le tentazioni terrene e la felicità eterna promessa dal Cielo, mentre in “A Burden of Easter Vigil” il poeta si dipinge accanto agli apostoli spaesati dopo la morte di Cristo, restituendo brillantemente il clima di incertezza e di paura che aleggiava su di loro.
Nelle migliori poesie di Johnson si incontrano, in un felice sodalizio, la modernità di Gerard Manley Hopkins, le atmosfere di Ernest Dowson e le espressioni ricercate di John Gray

Col tempo lo scrittore iniziò ad abdicare con sempre maggiore frequenza agli impegni mondani, preferendo la reclusione domestica. Sorseggiava assenzio a ogni ora del giorno, fumava copiosamente e usciva solamente alla mattina per andare a messa. Altra stranezza è che dopo l’università non volle mai più essere fotografato e declinò anche la gentile offerta di un ritratto da parte dell’artista William Rothenstein: il risultato fu che ai posteri consegnò di sé l’immagine di un eterno giovane, un folletto minuto, elegante, sorridente e autoironico. George Santayana lo definì «un ribelle spirituale […]. In parte Shelley, in parte Rimbaud, disprezzava il mondo e adorava l’irreale».
In verità per Johnson le cose non stavano andando affatto bene. Oltre a soffocare nell’alcol le proprie pulsioni sessuali – riconosciute come disordinate – continuava a essere tormentato dall’insonnia; soffriva anche di allucinazioni e pretendeva che la sua casa fosse infestata da presenze spettrali.
Dai tormenti degli ultimi anni di vita derivò “The Dark Angel” (1893), la sua poesia più famosa. Si tratta di un componimento singolarmente potente, un incubo ad occhi aperti in cui l’autore è costretto faccia a faccia con il proprio demone tentatore: «Angelo oscuro, con la tua lussuria dolente / per spazzare via dal mondo la penitenza: / Angelo maligno, che continui / a violentare sottilmente la mia anima!». Qualche critico ha voluto vedere nell’essere diabolico descritto nella lirica un riflesso dell’alcolismo di Johnson, ma è più probabile che l’inglese si riferisse al peccato tout court, in tutte le sue manifestazioni. “The Dark Angel” è quindi la storia del conflitto tra bene e male che attraversa l’anima di ogni uomo, una battaglia che non può essere vinta senza l’aiuto divino.
Johnson morì il 4 ottobre 1902, appena trentacinquenne, a causa di una frattura cranica riportata dopo essere rovinosamente caduto dallo sgabello di un bar. Già qualche tempo prima era stato trovato incosciente per strada, segno che la sua salute era ormai irrimediabilmente compromessa. Il corpo venne sepolto nel cimitero di St Mary, a Kensal Green, all’ombra di una semplice croce grigia.

Di tutti gli amici che piansero la sua scomparsa Yeats ne scrisse il memoriale più toccante, un elogio rivolto all’alto valore della sua opera: «Ha creato un mondo pieno di luci d’altare e di paramenti d’oro, di mormorii in latino e di nuvole d’incenso, di venti d’autunno e di foglie morte, in cui si vaga ricordando i martìri che i più hanno scordato».
Fonte: N. ANTONIA, Incurable. The Haunted Writings of Lionel Johnson, the Decadent Era’s Dark Angel, Strange Attractor Press, Londra, 2018.
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