di Giuliano Zoroddu

Questa nostra rubrica è nata come appendice della fortunata serie Glorie del Cardinalato con lo scopo di raccogliere quelle figure di porporati meno gloriose della storia ecclesiastica, anzi alla Chiesa, ciascuna a suo modo, nocive. Non potevamo quindi non omettere Niccolò Cosci, un cardinale che trascorse nelle carceri di Castel Sant’Angelo buona parte del suo cardinalato.
Nato a Pietradefusi (Avellino) il 25 gennaio 1682, veniva ad appartenere per parte di padre alla famiglia Coscia o Cossa che, nel suo ramo più nobile, annoverava anche un antipapa nella persona di quel Baldassarre Cossa eletto a Pisa nel 1410 col come di Giovanni XXIII.
Entrò giovanissimo nel seminario di Benevento e qui ebbe la ventura di esser notato per la sua vivacità dall’allora Cardinale Arcivescovo Vincenzo Maria Orsini. Questi se lo prese per segretario e maestro di camera e lo annoverò prima fra i beneficiati poi fra i canonici della sua Cattedrale, oltre ad assegnargli varie altre incombenze di prim’ordine.
Grande era la fiducia che l’Orsini riponeva nel suo segretario che, una volta diventato Benedetto XIII, nel 1724 lo elesse e consacrò personalmente Arcivescovo di Traianopoli in partibus; e, al netto dell’opposizione della maggioranza del Sacro Collegio, nel 1725 lo decorò della porpora cardinalizia e del diaconia di Santa Maria in Domnica elevata pro hac vice a titolo presbiterale. Oltre a ciò fu costituito Protettore degli Ordini dei Minori Conventuali e di Malta, posto a capo della Congregazione di Avignone con poteri più larghi del solito, e nominato ausiliare con diritto di successione dell’Arcivescovo di Benevento che in quel momento era ancora Benedetto XIII, il quale l’aveva ritenuto anche dopo l’ascesa al soglio petrino.
Non pago di tanta gloria e potenza personale, volle farne partecipi i suoi parenti ed amici. Non era tuttavia un fenomeno isolato poiché, come testimoniato dai contemporanei, grande era in quegli anni il potere gestionale dei “beneventani” in seno alla corte romana.
Tuttavia la morte di Benedetto XIII nel 1730 fu anche la morte dello strapotere del Coscia. Fuggito da Roma subito dopo il trapasso del suo protettore, si rifugiò a Cisterna. Dopo un’accordo sulla sua sicurezza, potè rientrare a Roma e partecipare al conclave. Ma già iniziavano ad affluire a Roma le accuse contro il Coscia, accuse di frode, malversazioni e abusi e ruberie in genere.
Su questi fatti il nuovo papa Clemente XII Corsini, intenzionato ad usurpare che quegli abusi che avessero dato o avrebbero potuto mettere in cattiva luce la Curia, dispose che si facesse un’inchiesta.
Già rinunciatario obtorto collo della sede beneventana, senza autorizzazione pontificia, fuggì a Napoli. Qui lo raggiunsero l’interdetto fulminato contro di lui dal Pontefice ed il conseguente sequestro dei beni. In compensazione poteva dirsi soddisfatto dalla protezione accordatagli dalle autorità napoletane. Intanto faceva gran pubblicità alla gotta che lo tormentava, causa, a suo dire, dell’impossibilità di rientrare a Roma.
Vi rientrò tuttavia agli inizi di aprile del 1732 e prese residenza a Santa Prassede che si trasformò subito nel suo carcere.
Un anno dopo, il 9 maggio 1733, arrivava la sentenza: per le sue ruberie e gli abusi, per la carpita fiducia del defunto Benedetto XIII e per la fuga gli venivano inflitti: la scomunica maggiore, dieci anni di reclusione a Castel Sant’Angelo, la privazione di ogni dignità e beneficio. Solo l’imperatore Carlo VI levò qualche tenue critica. Data la severità della sentenza e soprattutto la severità del Pontefice che l’aveva fortemente voluta, frenò gli amici del Coscia, che tuttavia non erano molti.
Tuttavia il papa non volle mostrarsi indegno del suo nome e nel 1734, supplicato, gli rimise la scomunica. L’anno successivo gli permise di lasciare temporaneamente la prigionia per curarsi la gotta ai bagni San Casciano. Infine nel 1738 firmò un breve, da leggersi dopo la sua morte (cosa che fu fatta), col quale reintegrava il prigioniero nella sua dignità cardinalizia privandolo però della voce passiva in conclave.
Alla morte di Clemente XII, nel 1740, entrò in conclave e collaborò all’elezione di Benedetto XIV Lambertini. Questi anche se non rivide il processo, restituì le sue dignità al Coscia, ma nulla fece per appagarne il più grande desiderio: essere nuovamente Arcivescovo di Benevento.
Gli fu infine permesso di andare a vivere a Napoli dove condusse una vita relativamente ritirata ed oscura fino alla morte che lo colse “carico d’oro e di pubblica indignazione” (Moroni) l’8 febbraio 1755.


Figure già trattate sul sito (sono escluse le innumerevoli figure trattate sulla pagina Facebook)
Alfonso Petrucci, un cardinale congiurato alla corte di Leone X
Odet de Coligny de Châtillon, il cardinale ugonotto
Carlo Carafa, il terribile nipote di Paolo IV
Ippolito d’Este, Cardinal di Ferrara.