di Luca Fumagalli
Il benedettino Bede Griffiths fu uno dei più importanti pionieri dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. Spese buona parte della sua vita in India, sollecitando la collaborazione tra cristiani e induisti e predicando l’unità di tutte le fedi. Se indubitabilmente fu un punto di riferimento per chi, nella seconda metà del Novecento, si sentiva a disagio all’interno della Chiesa istituzionale, allo stesso tempo incarnò alla perfezione lo spirito profondo del Concilio Vaticano II, quello più rivoluzionario e antidogmatico. Inoltre, caso rarissimo per un religioso britannico, sono diversi i suoi libri ad essere stati tradotti in italiano, alcuni dei quali vantano anche edizioni piuttosto recenti.
Alan Richard Griffiths era nato il 17 dicembre 1906 in una tipica famiglia anglicana della middle-class. Ultimo di quattro figli, sin dalla tenera età si ritrovò a fare i conti con le scarse disponibilità economiche dei genitori determinate dal tracollo dell’impresa paterna.
Nel 1919 venne mandato al Christ’s Hospital, una delle tre scuole fondate nel XVI secolo da Edoardo VI a fini caritatevoli, pensate per dare una mano agli studenti poveri ma capaci. Lì iniziò ad avvicinarsi alla religione, leggendo molto – amava in particolare i poeti romantici – e frequentando le funzioni della High Church.
Dopo il diploma, nel 1925, si iscrisse ai corsi di letteratura inglese del Magdalen College di Oxford. Il giovane Alan, che non impiegò molto a stringere nuove amicizie, fu catturato da quell’atmosfera decadente che ancora si respirava in università e militò per un breve periodo anche tra le fila dei socialisti. In qualità di tutor gli venne assegnato quel C. S. Lewis che negli anni seguenti sarebbe diventato famoso come romanziere e apologeta cristiano. Tra i due nacque subito una bella intesa che col tempo si tramutò in un’amicizia destinata a durare fino al 1963, anno della morte di Lewis. Su consiglio di quest’ultimo, che all’amico dedicò la sua autobiografia Sorpreso dalla gioia (1955), Griffiths approfondì la filosofia, scoprendo i profondi legami esistenti tra il pensiero classico e quello cristiano. Divenne pure un entusiasta ammiratore delle opere di Sant’Agostino e di Dante.
Inseguendo il sogno di una vita semplice, lontana dal trambusto della modernità e a contatto con la terra, una volta terminati gli studi, nel 1930, diede il via con un paio di amici a una piccola comunità autosufficiente, basata sulla mutua assistenza. L’esperimento durò solamente pochi mesi, dopo i quali Griffiths si trovò per la prima volta a fare seriamente i conti con la religione in cui era cresciuto. Grazie ai libri di Newman si avvicinò poco alla volta al cattolicesimo, venendo infine battezzato nel 1932. L’anno seguente decise di entrare nel monastero benedettino di Prinknash, nel Gloucestershire, e dopo la vestizione assunse il nome di Bede, un omaggio a Beda il Venerabile, il celebre monaco e storico anglosassone vissuto nell’VIII secolo. A Prinknash Griffiths visse forse i quindici anni più felici della sua vita, trascorsi tra il lavoro e la preghiera. Ordinato sacerdote nel 1940, collaborò attivamente alla costruzione dei nuovi edifici dell’abbazia e dal 1947 al 1955 fu prima priore a Farnborough, un monastero di recente fondazione, per poi venire trasferito in Scozia, a Pluscarden.
Qui scrisse il suo primo e più famoso libro, l’autobiografico Il filo d’oro (The Golden String), pubblicato nel 1954. Il volume, il cui titolo è tratto da un verso di William Blake, fu un immediato bestseller e ancora oggi è considerato uno dei classici della saggistica cattolica inglese dell’ultimo secolo. La brillante prosa di Griffiths, esito di una pluriennale esperienza come collaboratore di varie testate religiose, dà corpo a una narrazione convincente, mai noiosa, in cui l’autore, impegnato a raccontare retrospettivamente il proprio cammino di conversione, dà prova di una non comune capacità di penetrazione psicologica e spirituale. Prima di morire scrisse molti altri libri, perlopiù di carattere teologico-ecumenico – ad esempio Ritorno al centro (Return to the Center), Una nuova visione della realtà (A New Vision of Reality) e Fiume di compassione (River of Compassion) – ma nessuno di questi fu in grado di bissare il successo della sua opera d’esordio.
Nel frattempo lo studio della spiritualità orientale convinse Griffiths a partire missionario per l’India. A un amico confidò per lettera: «Sto per scoprire l’altra metà della mia anima». Giunto a destinazione nel 1955, gli bastarono poche settimane per capire che, se la sua impresa voleva avere successo, era necessario trovare un modo per rendere comprensibile il messaggio cristiano alla popolazione locale, parecchio distante dal modello culturale dell’Occidente. Si diede allora da fare per imparare la lingua e per studiare i testi sacri dell’induismo. Prese pure a indossare le vesti color zafferano di un sannyasi, cioè di un asceta, e adottò il nome sanscrito di Swami Dayananda (“beatitudine della compassione”). Griffiths aveva l’ambizioso obiettivo di fondere la teologia cattolica con le tradizioni asiatiche – induista, buddista, taoista e confuciana – dando vita a una sintesi originale, a un “matrimonio tra opposti”. Se all’inizio voleva semplicemente creare una Chiesa indiana che, pur rimanendo cristiana, non avesse timore di aprirsi ai valori delle altre culture religiose, col passare del tempo imboccò sempre più convintamente la via del sincretismo. A suo parere nessun credo poteva ritenersi migliore degli altri, ma tutti erano vie differenti per giungere al medesimo Dio.
Non stupisce perciò scoprire che il benedettino fu uno dei più entusiasti sostenitori delle riforme promosse dal Concilio Vaticano II. Rimangono celebri le sue esternazioni a proposito del piglio inquisitoriale della curia romana e non c’è da dubitare che, se fosse stato per lui, il processo di “aggiornamento” della Chiesa si sarebbe spinto molto più in là, seguendo le idee di Karl Rahner, del cardinale Suenens e di Hans Kung, i suoi teologi preferiti.
In India Griffths fu attivissimo anche in campo sociale e volentieri aiutava i poveri che venivano a bussare alla sua porta. Smussando gli estremismi giovanili, arrivò a riconoscere all’industrializzazione alcuni meriti – così come alla scienza – dimostrandosi invece molto critico nei confronti di quei cristiani affascinati dal marxismo.
Nel 1968 si trasferì nel monastero di Shantivanam, nella parte meridionale del paese, che era stato fondato diciotto anni prima dal francese Dom Henri Le Saux. A partire dalla metà degli anni ’70 Shantivanam – entrato alle dipendenze dell’ordine dei camaldolesi – divenne famoso in tutto il mondo come luogo di aggregazione e meditazione, una meta per chi cercava nella spiritualità orientale ciò che non trovava in quella occidentale e una piccola comunità in cui poter fare esperienza di un autentico ecumenismo. Griffiths iniziò a essere considerato un guru internazionale, ricevendo inviti per incontri e conferenze in ogni angolo del globo. Di conseguenza negli ultimi anni di vita viaggiò moltissimo, toccando praticamente tutti i continenti.
Stanco e ammalato, morì il 13 maggio 1993 a ottantasei anni, salutato dalla stampa internazionale come «uno dei grandi profeti della modernità» da lodare per «la sua santità personale e per la sua ispirata visione sul futuro della religione». Ai posteri Griffiths ha lasciato una dozzina di libri e centinaia di articoli, per non parlare poi delle numerose registrazioni audio e video. Il suo “cristianesimo cosmico”, inclusivo, convinto assertore dell’esistenza di una realtà divina al di là delle singole religioni, se all’epoca scandalizzò molti, conservatori e progressisti, oggi purtroppo pare acqua fresca. Il caso della Pachamama, solo per fare l’ultimo e più clamoroso esempio, sta lì a dimostrarlo.
Fonte: S. DU BOULAY, Beyond the Darkness. A Biography of Bede Griffiths, Rider, Londra, 1998.
Il suo “cristianesimo cosmico”, inclusivo, convinto assertore dell’esistenza di una realtà divina al di là delle singole religioni, se all’epoca scandalizzò molti, conservatori e progressisti, oggi purtroppo pare acqua fresca. Il caso della Pachamama, solo per fare l’ultimo e più clamoroso esempio, sta lì a dimostrarlo.
Come avrebbe giudicato il caso della Pachamama?