di Luca Fumagalli

Ernest Christopher Dowson è uno dei tanti poeti dimenticati di quel milieu decadente che W. B. Yeats ribattezzò “la generazione tragica”.

Nato il 2 agosto 1867, dopo aver abbandonato Oxford senza una laurea in mano, lavorò per un periodo presso la fabbrica di spedizioni del padre frequentando nel frattempo il bel mondo artistico di Londra. Fu amico di Oscar Wilde e un fervente ammiratore dei simbolisti francesi, soprattutto di Verlaine – di cui tradusse i più famosi componimenti e a cui si ispirò ampiamente per i suoi – motivo per cui visse diversi anni a Parigi.

Nel 1892 venne ricevuto nella Chiesa cattolica e da allora prese a scrivere vari componimenti a tema religioso. Al pari di quasi tutti i convertiti dell’epoca, almeno di quelli provenienti dal mondo letterario fin de siècle, Dowson era particolarmente attratto dalla bellezza estetica del rituale cattolico (ma ciò non sta per forza a significa che le sue intenzioni spirituali non fossero serie, anzi). Nella poesia “Extreme Unction”, ispiratagli da una scena di Madame Bovary, i gesti del sacerdote sono narrati con estrema precisione e lo sguardo del poeta non manca di indugiare sugli occhi, le labbra e i piedi del malato, segnati con l’olio sacro.

Anche le suore e i monaci esercitarono su Dowson un misto di fascino e ammirazione per la loro coraggiosa scelta di dedicare la vita a Dio, rinunciando alle lusinghe del mondo. Lo dimostrano, ad esempio, le poesie “Nuns of the Perpetual Adoration” e “Carthusians”. La Fede era per lui un’oasi di pace, una parentesi di felicità in un’esistenza dominata dal peccato, e ai religiosi invidiava i loro chiostri dove «nessun rumore penetra e nessuna tentazione», e quell’altare presso il quale «vi è la pace».

Dowson era considerato, insieme a Lionel Johnson e a John Davidson, uno dei membri più talentuosi del Rhymers’Club, un collettivo di poeti fondato da W. B. Yeats ed Ernest Rhys nel 1890. Fu anche un autore molto prolifico e oltre ai volumi Verses (1896) e Decorations in Verse and Prose (1899), pubblicò uno spettacolo in poesia, The Pierrot of the Minute (1897), e due romanzi, Comedy of Masks (1893) e Adrian Rome (1899), entrambi scritti in collaborazione con Arthur Moore. Peccato, però, che le sue liriche cristiane non possano competere, per qualità, con il resto della sua produzione.

Tuttavia c’è un componimento, “Benedictio Domini”, che emerge, come eccezione, per la singolare bellezza che sfugge ai triti canoni dell’estetismo cattolico in versi: in una chiesetta male illuminata – forse Notre Dame de France, nei pressi di Leicester Square, dove l’autore si recava abitualmente a messa – un vecchio sacerdote benedice con mano tremante i fedeli, mente fuori un vociare indistinto descrive l’indifferenza di un’umanità che ha rinunciato a Cristo.

Quando Wilde seppe della morte prematura di Dowson, avvenuta il 23 febbraio 1900 a causa della tubercolosi, scrisse: «Era un compagno ferito, povero e meraviglioso, una tragica riproduzione di tutta la tragica poesia, come un simbolo o una scena. Spero che le foglie di alloro vengano poste sulla sua tomba, e anche di ruta e di mirto, perché sapeva cos’è l’amore».


Fonte: R. GRIFFITHS, The Pen and the Cross, Continuum, Londra, 2010.