di Luca Fumagalli
Al contrario di quello che sosteneva lo stesso Evelyn Waugh, Elena (Helena) non è affatto il suo romanzo migliore. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1950, è uno studio sulla vocazione, sulla misteriosa azione della grazia divina, un percorso tematico già iniziato dallo scrittore inglese con Ritorno a Brideshead e Il caro estinto, e che sarebbe proseguito negli anni successivi con la trilogia Uomini alle armi, Ufficiali e gentiluomini e Resa incondizionata. Waugh traccia la storia di Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino e colei a cui, secondo la tradizione, va il merito di avere ritrovato la Vera Croce di Cristo, come un percorso di crescita dal paganesimo della sua adolescenza in Britannia alla Fede dell’età matura, trascorsa a Roma e poi a Gerusalemme. In un’atmosfera da quadro preraffaelita, frutto della giustapposizione di una serie di scene iconiche, dove ogni persona si ritrova a essere pedina di un imperscrutabile progetto divino, si cerca, in altre parole, di dimostrare la verità storica che sta alla base della fondazione della Chiesa, un’idea che va ad innestarsi sul contesto, tipico in Waugh, del conflitto tra civiltà e follia selvaggia.
In Elena a mancare è soprattutto un’adeguata caratterizzazione psicologica dei personaggi principali e pure la trama soffre a causa di un ritmo ballerino e delle frequenti ellissi temporali tra un capitolo e l’altro, a volte di parecchi anni. Inoltre gli intenzionali anacronismi, pensati da Waugh con lo scopo di sottolineare come la vicenda narrata sia così significativa da risultare ancora attuale, raramente sono azzeccati (in questo senso l’esempio più illuminante è la profezia dedicata a Napoleone in esilio a Sant’Elena, intrigante nel proposito ma decisamente fuori luogo). Vi sono momenti ispirati – su tutti la morte di Fausta e il brillante epilogo – che rivelano il talento di un prosatore d’eccezione, ma, al pari della Vera Croce, troppo spesso sono sepolti sotto mucchi di prosa residuale, scorie di frasi piatte e monotone.
Qualche critico ha parlato del libro come di un esperimento di “postmodernismo” o di “metafiction”, e di certo, al netto della protagonista femminile e dell’ambientazione romana, Elena ha poco a che spartire con analoghi romanzi storici quali Fabiola di N. P. Wiseman e Callista di J. H. Newman. Il racconto di Waugh, oltre ad aver luogo in un’epoca successiva rispetto a quella dei martiri – un periodo frequentato dai romanzieri cattolici d’Inghilterra anche per le evidenti analogie con il XVI secolo – mostra il trionfo del cristianesimo in termini non così esaltanti, tanto che la sua amara ironia non risparmia nemmeno il grande imperatore Costantino, ritratto come un uomo pieno di sé e «dalla mente offuscata». Più in generale Elena dà l’impressione di risolversi in una strana amalgama delle convinzioni storiche e religiose del suo autore, una sintesi con grandi potenzialità, ma il cui risultato, quantunque interessante, non può lasciare pienamente soddisfatti.
A dispetto delle concessioni al pittoresco, il ritratto della Roma del IV secolo che ne emerge rimane comunque efficace, quasi fosse un’allegoria graffante e disincantata della condizione umana.
L’impero romano – come l’Inghilterra dei “Bright Young Things” che fa da sfondo ai romanzi più famosi di Waugh – è un mondo abitato da imbecilli, vigliacchi e perdigiorno che trascinano stancamente le loro vuote esistenze, inebriati dal vino e del tutto ignari del puzzo di decadenza che si respira a ogni angolo di strada. È disarmante la rapidità con cui i sovrani si succedono al trono, vittime di ribellioni o congiure di palazzo, e come il matrimonio sia ridotto a mero strumento politico, privo del benché minimo amore (e delle mogli, quando non servono più allo scopo, ci si disfa senza troppi complimenti). Le grandi imprese eroiche di cui ci si vanta intorno a tavole imbandite sono solo fantasiosi ricami della mente, ad uso e consumo del popolino, trucchi per imbellettare il volto cadaverico di uno stato vicino al collasso. Tra le righe è evidente la decisa antipatia che Waugh provava nei confronti della posizione illuminista di Edward Gibbon, lo storico che con grande influenza accreditò nei suoi scritti la rovina dell’Impero romano alla diffusione del cristianesimo. Vi è un passaggio, in particolare, in cui l’offesa si fa esplicita, quando il famoso retore Lattanzio parla degli studiosi apostati dall’anima ferina, «e accennò col capo al gibbone che tormentava la sua catena d’oro e schiamazzava per avere un frutto». Poi prosegue: «Un uomo del genere potrebbe prendersi il gusto di denigrare i martiri e scusare i persecutori. E anche se confutassero le sue tesi mille volte, la gente ricorderebbe i suoi scritti dopo che le confutazioni fossero dimenticate».
In un ambiente dai colori desaturati, dove a trionfare è il cinismo, Sant’Elena è l’unica a brillare. Se da giovane sognava un’esistenza eccezionale come quella dell’omonima regina omerica, con il passare degli anni e le delusioni di una vita amara l’Imperatrice matura in una donna umile, semplice, che ha poco a che spartire con le altezzose patrizie romane. Nella sua adesione al cristianesimo rivela una profonda esigenza di ragionevolezza, di concretezza storica, un atteggiamento che spiega pure la passione con cui darà il via alla campagna archeologica a Gerusalemme. Al marito Costanzo Cloro, che le racconta la storia di Mitra, Elena domanda: «Dove? Sì, dove è successo?». Stessa cosa accade col maestro gnostico, con il suo Demiurgo e i suoi Eoni: «Quello che vorrei sapere è: quando e dove è avvenuto tutto questo? E voi come lo sapete?». Come scrive Marta Sordi, «alle religioni cosmiche, fondate su simboli e su elucubrazioni teologiche, Elena oppone l’esigenza razionale […]; è l’esigenza da cui scaturisce la storia e a cui il cristianesimo, religione fondata su un avvenimento storico, […] risponde pienamente. Nel cristianesimo la storia ha una funzione affine a quella dei cosiddetti preambula fidei: l’esigenza storica rappresenta la preparazione dell’Elena del romanzo alla Fede».
Sant’Elena, la cui figura è modellata su quella di Penelope Betjeman – la dedicataria del romanzo – nella visione di Waugh diviene quindi una patrona per gli intellettuali e per i “ritardatari” della Fede, quegli ultimi venuti a cui è comunque concesso il Regno dei Cieli. La descrizione del suo percorso di conversione, lento e ponderato come quello dello scrittore, dal punto di vista narrativo è il punto più alto del romanzo, uno degli aspetti che anche mons. Ronald Knox apprezzò maggiormente.
Una volta conquistato, il cristianesimo va difeso sia dai nemici esterni, ovvero da quei barbari pagani che minacciano il limes, che da quelli interni, siano essi gli ariani o i modernisti del Novecento. La somiglianza tra questi è ravvisabile nel commento che una filoariana fa del Concilio di Nicea, trionfo della tradizione cattolica: «Nessun vescovo qui in Occidente ha idee nuove in testa. Si limitano a dire: “Questa è la Fede che ci è stata insegnata. È quello che si insegna da sempre. Punto e basta”. […] Non si rendono conto che bisogna camminare coi tempi. […] Quello che gli hanno insegnato poteva andare benissimo nelle catacombe, ma adesso abbiamo a che fare con un tipo di mentalità molto più sofisticata… Voglio dire, il progresso è inevitabile».
L’idea di scrivere un romanzo su Sant’Elena era venuta a Waugh durante un suo viaggio a Gerusalemme nel 1935, calpestando quei luoghi della Terra Santa che avevano conosciuto anche i passi di Gesù. Il cristianesimo, infatti, non è vuota retorica, ma una speranza di redenzione per l’umanità che affonda le proprie radici nella concretezza del quotidiano. Ecco che allora il ritrovamento della Vera Croce, per parafrasare il finale di Elena, diventa un’unica, netta affermazione sopra tutte le chiacchiere di ogni epoca: «E in quella sola è la Speranza».