di Cirano Barfaziosi

Dopo sette lunghi anni è uscito The Last of Us 2, il secondo capitolo del videogioco tanto atteso dagli appassionati. Questo action-adventure sviluppato dalla Naughty Dog nel 2013 è ambientato in un mondo post-apocalittico in cui un fungo parassita, il Cordyceps, ha cominciato ad infettare gli umani rendendoli simili a degli zombie aggressivi e pericolosi.

Non mi soffermerò sulla trama per evitare il più possibile qualunque forma di spoiler (anche se non vi prometto nulla…). Premetto che dal punto di vista tecnico e scenografico il gioco in questione è senza dubbio un capolavoro ma vorrei soffermarmi su due aspetti che ho osservato seguendo i vari gameplay su Youtube.


Gli autori sono riusciti, in modo geniale, a far leva sulla natura empatica dell’uomo. Lo sviluppo dello storyboard genera prima nel giocatore sentimenti di odio verso l’antagonista di cui vengono mostranti però successivamente i retroscena emotivi che lo hanno portato a diventare il cattivo di turno. Il gioco, sviluppandosi, riesce a trasformare l’odio iniziale in comprensione e gioca con i sentimenti più profondi del giocatore, destabilizzandolo e sgretolando le sue certezze etiche.

L’aspetto più interessante è però costituito da un personaggio secondario di nome Lev, o meglio Lily (qui purtroppo sarò costretto a fare qualche spoiler…).

Questa ragazza, anche se durante tutto il gioco ci si rivolgerà a lei come ad un lui, fa parte di una setta religiosa a gerarchia matriarcale di nome “Serafiti”, nella quale donne dal volto sfregiato portano i capelli lunghi mentre gli uomini hanno la testa rasata. Lily, dopo un tentativo di matrimonio forzato con uno degli anziani del gruppo, decide di fare “coming out”, di rasarsi la testa e di farsi chiamare Lev.

La setta si getta allora sulle sue tracce per ucciderla: l’unica a restare dalla parte di Lily è sua sorella, che cercherà di proteggerla.

Durante tutto il percorso svolto in compagnia di Lev il gioco ci conduce a provare profonda empatia per lei.

Ad un certo punto della storia la ragazza ci fa notare come in realtà gli scritti della Martire (a cui è rivolto il culto dalla setta) siano stati interpretati male (una storia assai familiare questa e che genera immediatamente nella mente del giocatore un’associazione immediata con una certa religione a noi ben nota).

Quindi il gioco, sfruttando aspetti di natura profondamente psicologica, vuole inizialmente farci condannare il cattivo antipatico di turno per poi farci provare empatia verso di lui in modo da distruggere ogni forma di pregiudizio ed esponendoci così, come già detto, al sentimentalismo empatico, per poi far breccia promuovendo un messaggio “educativo” di apertura verso il gender (che non esiste, giusto?) bollando come discriminazione qualsiasi forma di non accettazione del diverso.

L’abilità di influenzare una generazione non passa solo dalle serie tv e dai fumetti ma anche dai videogiochi, che oltre l’aspetto puramente ludico nascondono una struttura di pensiero ben definita e che si può infiltrare con molta meno resistenza nella mente del giocatore, immerso e concentrato sul gameplay che è lui stesso a condurre.

Tutto ciò che guardiamo, tutto ciò che leggiamo e tutto ciò che giochiamo è cibo per la nostra mente: come ogni forma di nutrimento queste cose possono essere buone o cattive e dobbiamo per questo fare attenzione a ciò che scegliamo.

Come disse Napoleone in punto di morte, lui che di battaglie se ne intendeva: “Testa armata”, perché la battaglia è appena iniziata…