Dal sito dell’autore (marcelloveneziani.com) riprendiamo questo interessantissimo articolo di Marcello Veneziani.

Il santuario laico della nostra Italia progressista e antifascista venera santi politici come Pertini e Berlinguer, santi sociali come don Lorenzo Milani, patrono della scuola e Mario Mieli, patrono degli omosessuali (ma anche dei pedofili). E santi medici come lo psichiatra Franco Basaglia, di cui si ricorda il 29 agosto il quarantennale della morte. Basaglia fu l’apostolo della follia liberata, manicomi chiusi e pazzi a piede libero. La follia non esiste, la malattia mentale è una malattia sociale, frutto delle costrizioni sociali fu il messaggio dedotto dalla sua lezione. Abolire la pazzia fu il sogno del ’68 e diventò legge dieci anni dopo con la famosa legge 180, nel nome dell’antipsichiatria e della psichiatria democratica. Ricordiamo la tragedia sociale prodotta dalla legge 180, cosa volle dire il “liberi tutti” alla follia; quali drammi scatenò, quanti abbandoni e solitudini, malati allo sbando, incapacità delle strutture ospedaliere di accogliere i dementi in crisi, tormenti delle famiglie, spesso in condizioni di povertà e di ignoranza, nel gestire da sole il famigliare demente. Quanti dolori esplosero allora e non trovarono strutture pronte ad aiutarli; Mario Tobino visse da medico queste esperienze e poi le raccontò da scrittore. Sarebbe pazzia rimpiangere i manicomi così com’erano; ce n’erano alcuni che erano diventati veri lager; era necessario trasformarli radicalmente.
Nessuno rimpiange la segregazione punitiva della follia, frutto perverso del razionalismo scientista, perché i manicomi sono figli dei lumi e della scienza positivista. Sappiamo quanti maltrattamenti e abusi, anche sessuali, quante speculazioni sulla pelle dei malati e sulle loro rette. Ma l’abolizione degli ospedali psichiatrici in base all’assurda teoria che la malattia mentale non esiste ma è frutto dei rapporti di classe e delle condizioni socio-culturali, come sostenevano i seguaci sessantottini di Lang, Basaglia e l’antipsichiatria, produsse ferite e traumi giganteschi. Basterebbe pensare al movimento Psichiatria Democratica, aberrante già nella denominazione, e soprattutto al sottinteso ideologico e politico che l’etichetta democratico in quegli anni evocava, alludendo a un collettivismo militante di tipo marxista e comunista. Immaginate l’estensione grottesca di quella definizione: odontoiatria democratica, cardiologia democratica, cancerologia democratica, per finire magari in un bell’obitorio democratico… La lotta di classe combattuta sulla testa dei malati di mente, l’idea di liberazione applicata anche a chi aveva al contrario bisogno di assistenza e protezione, non di liberazione.
Di tutto questo non c’è traccia nella lirica epopea di Basaglia, celebrato nei decenni come un Liberatore e un Apostolo dei Matti. L’idea che si potesse abolire la realtà e con la realtà la pazzia, fu l’aberrazione ideologica di questa perniciosa filantropia. Fu l’egualitarismo in camice, il neuro-comunismo applicato ai territori delicati della psiche. Il delirio dell’antipsichiatria al potere e la riduzione a carnefice di chiunque criticasse la loro posizione: chi si opponeva alla scuola democratica scadeva al rango di aguzzino dei lager per malati di mente, o sostenitore autoritario dell’uso di farmaci ed elettrochoc, letti di contenzione e camicie di forza.
Ne parlo per esperienza diretta, non in veste di psichiatra né di matto, come forse alcuni di voi sospettano, perché sono nato e cresciuto nella città dei pazzi, Bisceglie. Un centro che aveva quasi in centro un grande manicomio, il più grande del sud diceva qualcuno forse malato di mitomania. Un manicomio, la casa della Divina Provvidenza, che accoglieva migliaia di malati, dava lavoro a migliaia di infermieri e medici e aveva diramazioni in mezzo sud.
Proprio il fondatore della Casa della Divina Provvidenza aveva indicato una via diversa. Si chiamava don Pasquale Uva, era un prete e al paese lo chiamavano Zì’ Terrone perché proveniva dalla terra e si definiva “operaio nella vigna del Signore”. Il suo modello fu Cottolengo. Dobbiamo pensare cos’era l’Italia e in particolare il sud prima che lui fondasse quei ricoveri. I dementi vagavano per le strade, ridotti alla fame e agli stracci, derisi e aggrediti o a loro volta aggressivi e pericolosi. Benemeriti come don Uva e le suore che lo affiancarono, li raccolsero dalle strade e dettero loro cure, cibi, assistenza. Ma don Uva capì quanta sofferenza covava dietro quelle grate. Così, dopo trent’anni di gestione degli ospedali psichiatrici, progettò il villaggio post-manicomiale per i malati di mente: avrebbe avuto al suo interno azienda agricola, pascoli, stalle, orti, vigneti e frutteti, laboratori, mulini e pastifici, cinema-teatro e caffè, circoli e sale di bigliardi, impianti sportivi. Pensò cioè all’integrazione graduale dei malati tramite l’ergoterapia e la ludoterapia, il lavoro e il gioco. Non casermoni cupi e ospedali-carceri ma agili strutture di cura, come avrebbero dovuto essere i centri d’igiene mentale. Aveva previsto un piano di spesa e individuato i siti idonei. Ma la sua età avanzava coi primi malanni, non trovò adeguati sostegni e poco dopo morì.
Nessuno raccolse l’eredità di quel progetto. Fu così che alla degenerazione degli istituti psichiatrici si oppose la follia di chiuderli e si dichiarò cessata per legge e ideologia la malattia mentale. Ma se la verità conta qualcosa, avrebbe giovato ai dementi più l’opera e poi l’idea di don Pasquale Uva che la generosa ma nociva utopia di Basaglia. Però don Uva fu beatificato in Chiesa, Basaglia fu santificato in società, dai media, le fiction e la cultura dominante. A Basaglia vanno riconosciuti il fervore ideale e la passione umanitaria ma non si possono cancellare i danni della legge 180 ancora perduranti.
MV, La Verità 28 agosto 2020
Sono d’accordo con Veneziani che l’abolizione del manicomio non ha provocato la fine della malattia mentale ed è frutto della contestazione del ’68 e l’antipsichiatria è più una corrente culturale che scientifica, medica o clinica. Voglio ricordare che per il disagio psichico (che non è la demenza che è una patologia neurologica), per i più abbienti c’erano e ci sono le cliniche private dove le condizioni di vita e di cura erano decisamente migliori, ma le malattie psichiatriche più gravi (come la schizofrenia dalla quale non si guarisce ma con le terapie farmacologiche e psicologiche attuali può essere curata e il paziente può condurre una vita quasi normale lavorando e avendo relazioni sociali e affettive) erano trattate allo stesso modo. A una persona con una diagnosi psichiatrica deve essere riconosciuta la sua dignità di essere umano e non discriminata sul posto di lavoro o dalle altre persone con cui il paziente entra in contatto nella sua vita e vorrebbe instaurare relazioni amicali e affettive. Se le persone “normali” hanno dei pregiudizi e sono ignoranti sulle malattie mentali la colpa è anche nel mondo dell’informazione che mette in rilievo le tragedie e non le guarigioni. La pazzia, come la chiama Marcello Veneziani, può assumere varie forme (depressione, ansia e fobia sociali, disturbo bipolare, disturbi della personalità, ecc.) e nel mondo moderno è e sarà sempre più diffusa per via dei tagli alla sanità pubblica, e per la più bassa percentuale che essa spende per la psichiatria rispetto ad altre nazioni europee che non hanno avuto la Legge Basaglia, considerata dall’OMS all’avanguardia. Inoltre la crisi economica non aiuta di certo all’inserimento lavorativo di queste persone. Non è vero però che tutto è sulle spalle delle famiglie, perchè esistono i centri di salute mentale, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, le comunità riabilitative dove il paziente sperimenta l’autonomia e la responsabilità sia verso se stesso che verso gli altri. Poi è pericolo affermare come ha fatto Salvini che i malati psichiatrici commettono reati anche di natura violenta: sono solo una piccola parte ed è più probabile che ne siano le vittime come ha ricordato il presidente della Società Italiana di Psichiatria in risposta alle incaute affermazione dell’ex ministro dell’Interno. Secondo la mia opinione, l’assistenza psichiatrica pubblica in Italia è a macchia di leopardo, nel senso che funziona meglio al Nord e peggio al Sud, ma non ne faccio un discorso campanilistico, sono i dati a dirlo. Infine, credo che Veneziani sia d’accordo con me, per i migrati che arrivano in Italia dovrebbero essere predisposte delle visite psichiatriche obbligatorie, oltre che fisiche (se non lo siano già in atto) perchè i vari Kabobo o il killer dei poliziotti di Trieste non siano in grado di nuocere.
Basterebbe gettare lo sguardo al di fuori dell’Italia per accorgersi che a quarant’anni di distanza nessun paese civile ha seguito l’esempio dell’Italia. Gli istituti psichiatrici sono stati riformati, ma non chiusi. In tutto il mondo l’impiego di psicofarmaci, talora eccessivo, consente di dimettere molti pazienti che un tempo rimanevano reclusi e costretti a camicie di forza e letti di contenzione. I servizi territoriali integrano gli ospedali psichiatrici, che hanno meno degenti ma continuano a svolgere l’insostituibile funzione di terapia e ricerca scientifica.
la pazzia liberata? la sua!