San Francesco aveva iniziato la sua vita di penitenza e di sacrifici. Rinunciando al mondo, aveva penetrato le grandi lezioni della croce, poi, uscendo dalla profonda grotta che gli serviva da dimora, aveva lasciato traboccare dal suo cuore il cantico d’amore che doveva attirare verso di lui le anime generose. Francesco realizzava così la parola del Crocifisso di san Damiano: «Va’ e ripara la mia casa che va in rovina»; riparò il tempio delle anime, ma volle riparare anche il tempio materiale in cui riposa l’Ospite divino. Con le sue cure, la chiesetta di san Damiano fu restaurata; lui stesso ne aveva portato le pietre sulle sue spalle e, chiamando in aiuto gli operai di buona volontà, li aveva incoraggiati dicendo: «Venite, fratelli miei, dateci una mano per terminare questo edificio, perché un giorno, anche qui, vi sarà un monastero di povere figlie che glorificheranno il Padre celeste in tutta la santa Chiesa».
La vocazione di Chiara.
Erano appena trascorsi quattro anni e la profezia del santo si realizzava. Mentre Francesco predicava ad Assisi nella chiesa di S. Giorgio, una giovane di nobile famiglia aveva voluto portarsi assieme alla madre e alla sorella ad ascoltare una delle sue istruzioni. Chiara ascolta le parole con animo ardente, contempla quel viso trasfigurato e, da quel momento, sceglie Francesco come guida della sua anima. Confida il suo disegno a una zia e, con essa, si porta a Santa Maria degli Angeli. Chi potrà dire ciò che passò nell’anima del Serafico Padre, in quel primo incontro con colei che doveva essere la sua ausiliaria nell’opera che il cielo gli affidava? Francesco svelò a Chiara le bellezze del celeste Sposo, le eccellenze della verginità, poi la trattenne su ciò che aveva di più caro nel cuore: la potenza e gli incanti della povertà, la necessità della penitenza. Chiara ascolta, meravigliata e rapita. Sente il richiamo divino nel suo cuore. Ben presto la sua decisione è presa: spezzerà tutti i legami della terra e si consacrerà a Dio.
La consacrazione.
Nella notte della Domenica delle Palme dell’anno 1212, Chiara lascia furtivamente la casa paterna in compagnia di alcune intime amiche, e prende la strada di Santa Maria degli Angeli. Francesco e i suoi fratelli avanzano verso di lei con le torce in mano, e la introducono nel santuario di Maria. E là, nel mezzo della notte, si svolge la scena del suo fidanzamento spirituale. Francesco le chiede che cosa desideri. «Dio, il Dio del presepio e del Calvario. Non voglio altro tesoro né altra eredità». E mentre Francesco le taglia i capelli, essa depone tutto ciò che ha di prezioso, i suoi ornamenti, e i suoi gioielli e riceve il rozzo abito, la corda, un velo spesso, e si consacra per sempre a Dio.
La piccola pianta di san Francesco.
Ci piace ricordare questa scena così bella e meravigliosa. Ma ciò che ormai riassumerà la sua vita, ciò che dobbiamo ritenere della santa, è quello che ella stessa scriverà con semplicità nel suo testamento: sono la «pianticella di san Francesco». Chiara, infatti, ha ricevuto pienamente lo spirito di san Francesco; ha pienamente compreso il suo cuore; è stata talmente ripiena del suo spirito da viverne; ne ha fatto il nutrimento della sua intelligenza, l’alimento della sua carità, e come il principio stesso delle sue opere. Ha vissuto lo spirito serafico con la stessa perfezione con la quale Francesco aveva vissuto lo spirito evangelico. Ha seguito san Francesco in tutto, nella povertà, nell’umiltà, nella penitenza, nella preghiera, nell’ardore generoso e
riconoscente.
La povertà.
La povertà è stata la virtù preferita da san Francesco, è stata la sua Dama e il sogno della sua vita, e morendo ha potuto rendere testimonianza d’esserle stato sempre fedele. Lo stesso amore lo troviamo in santa Chiara. Numerose sono le anime che, come lei, si sono date a Dio. Ma esse sapevano a che cosa si impegnavano. Chiara non sapeva che una cosa: che avrebbe abbracciato la povertà assoluta; le sembrava di gettarsi nell’ignoto, ma in realtà si gettava nelle braccia e nel cuore di Dio a cui si affidava, in uno slancio incomparabile di generosità. E mentre Francesco soffrirà di vedersi sovente incompreso dai suoi fratelli, le suore del convento di san Damiano saranno sempre la sua consolazione. Per Chiara, la povertà non era altro che la pratica perfetta e perpetua dell’abbandono alla Provvidenza del Padre, e la libertà di amarlo esclusivamente. Così, quando il Papa, temendo per l’avvenire del piccolo monastero, offrirà alla santa di assolverla dal suo voto: «No, santissimo Padre, replicherà vivamente, assolvetemi dai miei peccati, ma non ho alcun desiderio d’essere dispensata dal seguire per quanto mi è possibile da vicino le orme di Gesù Cristo».
L’umiltà.
La povertà genera l’umiltà. L’autore dell’Imitazione non cita che un solo santo nel suo libro: san Francesco, e lo chiama «l’umile Francesco» perché l’umiltà fu la sua grande virtù. Virtù che risplendette anche nell’anima di Chiara. La sua vita, così bella, è tutta compresa in quelle parole: l’umiltà, la docilità e la riconoscenza. D’illustre famiglia, vuole restar nascosta fino alla sua morte; madre del suo Ordine, diventa la serva delle sue suore, non le comanda che con dolcezza, le cura con delicatezze infinite, si eclissa davanti ad esse. Un giorno la sua umiltà sarà messa a dura prova: il Papa, venuto a S. Damiano, chiederà a Chiara di benedire ella stessa i pani che aveva fatto preparare sulle tavole. Ella cerca di sottrarsi a quell’ordine, ma il Papa comanda in virtù dell’obbedienza e Chiara è costretta ad obbedire. E Dio benedice subito l’obbedienza con un miracolo: una croce d’oro appare su ciascuno dei pani benedetti dalla santa.
La penitenza.
Con la povertà e l’umiltà germoglia nel cuore l’amore alla sofferenza e alla penitenza. Tuttora giovane, Chiara sentì il suo cuore intenerirsi mentre ascoltava Francesco che parlava della Passione del Salvatore. Era il Cristo crocifisso che ella aveva desiderato sposare a S. Damiano quando, per lui, si era spogliata di tutto. Così la sua vita fu una croce continua; sul suo corpo portava sempre un cilicio; digiunava quasi continuamente e dormiva sulla nuda terra con una pietra per capezzale. Ma la sofferenza che s’imponeva, lungi dal renderla triste, la lasciava sempre con volto gioioso.
La preghiera.
Dove poneva dunque questa fermezza? Nella preghiera e nell’orazione. La sua orazione era quasi continua: ogni giorno da mezzogiorno alle tre riviveva il mistero, della Passione; una parte della notte la passava intrattenendosi con Dio, soprattutto vicino al tabernacolo, presso Gesù Ostia che ella amava tanto. Fu là che trovò la sua fortezza e il suo amore, un amore che cresceva ininterrottamente e che la fece morire in un’estasi di gioia inesprimibile. Così, testimone di una tale morte dopo una vita così edificante, invece di far cantare l’ufficio dei defunti alle esequie a cui presiedeva, il Papa fece cantare la Messa delle Vergini, in onore di colei che era già entrata in possesso del premio eterno.
Vita. – Santa Chiara nacque ad Assisi, nel 1194. Apparteneva alla nobile famiglia degli Offreduccio. Perdette ancora giovane il padre e quando la sua famiglia la volle maritare, rispose che si sarebbe data a Dio e, il 18 marzo 1212, partì per S. Damiano, dove Francesco le diede l’abito religioso. Sua sorella e poi sua madre dovevano raggiungerla nel chiostro e, con esse, una moltitudine di giovanette, desiderose di vivere l’ideale francescano che non era altro se non quello evangelico. Francesco diede loro innanzi tutto una Formula vitae, poi ottennero di seguire la Regola dei Frati Minori. In Italia e in seguito nei paesi vicini e fino a Praga vennero fondati altri monasteri. Nel 1240, mentre la santa abbadessa era malata, i Saraceni assediarono il monastero di San Damiano. Chiara prese il santo ciborio tra le mani e avanzò incontro al nemico che prese la fuga. Nel 1252 si ammalò per non rialzarsi più. La sua ultima malattia fu consolata dalla visita del Papa, che confermò la Regola e il «privilegio della povertà» e l’u agosto si addormentò nella pace del Signore. Nel 1850, il suo corpo fu ritrovato intatto, come nel giorno della sua morte.
Un’anima di luce.
O Chiara, dal nome così bello, il riflesso dello Sposo di cui la Chiesa si orna in questo mondo non ti basta; a te la luce giunge direttamente. La chiarezza del Signore gioca gioiosamente nel cristallo della tua anima così pura, che accresce l’allegrezza del cielo, e infonde gioia in questa valle d’esilio. Col tuo splendore che è così dolce, rischiara le nostre tenebre! Fa’ che noi possiamo con te, mediante la purezza di cuore, la rettitudine della mente, la semplicità dello sguardo, fissare su di noi il raggio divino che vacilla nell’anima esitante e si oscura con i nostri disordini, che allontana o spezza la duplicità di una vita condivisa tra Dio e la terra. La tua vita non fu condivisa così. L’elevatissima povertà, che ti fu maestra e guida, preservava il tuo spirito da quel fascino della frivolezza che a noi mortali (Sap. 4, 12) offusca lo splendore dei veri beni. Il distacco da tutto ciò che passa sosteneva il tuo occhio fisso verso le realtà eterne; apriva la tua anima agli ardori serafini che dovevano giungere a far di te l’emula di Francesco, tuo padre. Così, come quella dei Serafini che non hanno sguardi se non per Dio, la tua azione sulla terra era immensa; e S. Damiano, durante la tua vita, fu una delle solide basi sulle quali il vecchio mondo poté puntellare le sue rovine. Degnati di continuare ad estendere su di noi i tuoi soccorsi. Moltiplica le tue figlie, e mantienile fedeli nel seguire quegli esempi che faranno di esse, come della loro madre, il potente sostengo della Chiesa. Che la famiglia francescana si riscaldi sempre ai tuoi raggi. Brilla infine su tutti. Chiara, per mostrarci ciò che vale questa vita che passa e l’altra che non deve finire.
(Dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1956, pp. 963-967)
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