di Luca Fumagalli

Quando nel 1992 l’inglese Robert Harris pubblicò Fatherland, il romanzo ottenne un successo così vasto che l’autore venne presto annoverato tra gli scrittori viventi di più grande appeal commerciale. Due anni più tardi, dal libro venne tratto pure un film per la televisione, con Rutger Hauer nei panni del protagonista.

Nella sua opera Harris miscela intelligentemente la distopia con l’ucronia e il thriller, creando un’amalgama che funziona, che spinge a proseguire forsennatamente nella lettura per venire a capo dell’inquietante mistero che attraversa la trama. Il ritmo è sempre alto, e l’intera vicenda si esaurisce nel giro di una manciata di giorni, dal 14 al 20 maggio 1964.

L’eroe di Fatherland è Xavier March, un investigatore che lavora a Berlino, capitale di quella Germania nazista che ha vinto la Seconda guerra mondiale. L’Europa è sotto il controllo di Hitler, ora settantacinquenne, e l’America si avvia a diventare una sua preziosa alleata grazie al presidente Joseph Kennedy. Berlino è stata ricostruita sui progetti di Speer, il famoso architetto del Führer, e per le strade sfrecciano veloci Volkswagen. L’unica guerra ancora in corso è quella terribile che si combatte lungo il confine degli Urali: mandarvi qualcuno equivale praticamente a condannarlo a morte.

Un giorno March si trova a indagare su un caso di omicidio in cui sono implicati alti funzionari nazisti. Mano a mano che l’indagine va avanti, l’investigatore scopre verità scomode che qualcuno sembra intenzionato a seppellire a tutti i costi. Pare che tutta la faccenda abbia un qualche legame con la scomparsa degli ebrei, del cui destino nessuno sa nulla.  

Il grande Reich tedesco raccontato in Fatherland è un enorme macchinario di potere e propaganda. La matrice orwelliana è rivelata a partire dalla descrizione degli ambienti in cui si svolge l’azione. I fatiscenti edifici della capitale, mostruosa megalopoli di cemento e asfalto, la città più grande del mondo con i suoi dieci milioni di abitanti, costituiscono il lato nascosto di una Berlino riprogettata per celebrare la gloria di Hitler e del genio germanico. Tra monumenti ed edifici commemorativi, si nasconde quel sottobosco di inefficienze, di ascensori malfunzionanti e di aborti edilizi che ricordano da vicino il quartiere di Winston Smith in 1984.

I vicoli maleodoranti sono simbolo di un Partito che si illude di poter controllare ogni cosa. Per quanto Hitler sia adorato e celebrato come un dio – con il cristianesimo ufficialmente marginalizzato – la gerarchia nazista non è onnipotente, e anche se il sistema educativo è pensato per instillare, sin dalla gioventù, un amore incondizionato per l’ordine costituito, le sacche di ribellione sono inevitabili e non fanno altro che crescere. La ferrea disciplina e gli istituti scolastici non bastano ad annebbiare le coscienze dei molti che, come lo stesso March, trovano sempre più insopportabili le strette maglie del regime.

La censura, il controllo capillare dei media e lo spauracchio dei campi di lavoro non bastano a frenare gli atti “ostili alla comunità”. Mentre ai vertici si parla di reati contro la razza, di arte degenerata e dell’omosessualità da estirpare, sempre più giovani mettono in discussione i genitori e lo Stato, ascoltano stazioni radio americane, protestano contro la guerra e fanno circolare copie di libri vietati. La maggior parte degli universitari si fa crescere i capelli, le ragazze iniziano a indossare jeans ed è tornato a vivere il movimento studentesco della resistenza, la Rosa Bianca, che era stato attivo per breve tempo durante gli anni Quaranta, fino a che i suoi capi vennero giustiziati. Braccati dalla Gestapo, quelli della Rosa Bianca sono contrari alla coscrizione obbligatoria e pubblicano clandestinamente materiale sedizioso. Non mancano neppure i terroristi, siano essi anarchici o appartenenti alle varie nazionalità riottose annesse al Reich.

Gli anni Sessanta immaginati da Harris sono parenti prossimi di quelli storici, come a indicare una sorta di speranzosa inevitabilità del passare del tempo: indipendentemente dai luoghi e delle epoche, pare affermare lo scrittore inglese, il cuore dell’uomo è il medesimo, perennemente alla ricerca di spazi progressivi di libertà. In aggiunta, come dimostra il finale di Fatherland, la storia, i crimini storici, non possono restare nascosti, dimenticati, almeno non per sempre (analogamente a quanto accade ne Il complotto contro l’America, libro di Philip Roth del 2004, sorta di versione americana del romanzo di Harris). L’epilogo, che mostra il protagonista con una pistola in mano, senza che il lettore sappia con certezza come o contro chi la userà, è margine per quel lieto fine che rimedierà, prima o poi, alle storture del presente.

Xavier March, con il suo disprezzo per la divisa, incarna lo spirito anticonformista di chi non accetta di far parte della massa apatica. Niente medaglie, dunque, e nessuna iscrizione al Partito. Al contrario del figlio di dieci anni – che arriva ad accusarlo presso le autorità di scarso entusiasmo per il nazismo – e del nuovo compagno della ex moglie, l’investigatore berlinese è un animo inquieto, perennemente alla ricerca di un qualcosa che sempre sfugge. Dopo il fallimento del matrimonio, sebbene dotato di sicuro fascino, vive solamente per il lavoro. L’impiego alla centrale è una valvola di sfogo, il riempitivo per un’esistenza vuota, priva di sonno e ormai allo sfascio. March è consapevole di essere fra «gli intoccabili della società: gli insoddisfatti, i parassiti, gli assenteisti, i criptocriminali».

In passato soldato di valore e uomo dal grande acume, a March non mancano certo né l’energia né le capacità per fare carriera; ma è come se nulla avesse più senso, soprattutto dopo che l’indagine per l’omicidio di Buhler lo ha spronato a porsi domande pericolose. Berlino smette di essere la metropoli delle speranze frustrate per diventare il campo entro il quale si gioca la partita di March per la verità. Il desiderio di sapere è «l’istinto che lo faceva alzare dal letto ogni mattina», la risposta agli interrogativi evasi da una vita.

L’apatia dell’uomo si trasforma di punto in bianco in azione, un’esaltazione accresciuta dall’incontro con l’intrigante giornalista americana “Charlie” Maguire. La relazione amorosa tra i due, più che uno scontato cliché del thriller, è la manifestazione concreta della rinnovata fiducia in una soluzione possibile, che è a portata di mano. E quando, verso la fine del romanzo, March arriva a scoprire, grazie a una serie di indizi incrociati, la terribile verità sui campi di concentramento e sull’assurda macellazione di migliaia di ebrei, vuole vedere Auschwitz con i propri occhi, perfino a costo di venire ucciso. La scoperta dell’orrore è un viaggio all’interno del proprio io, faccia a faccia con i demoni che vi dimorano. Similmente a quanto accade ai ragazzi de Il Signore delle Mosche, a March è finalmente rivelata la vera natura dell’uomo: «Sarebbe mai riuscito a sentirsi pulito?».

Anche se le prove raccolte dall’investigatore non cambieranno la storia – ma chi può dirlo con certezza? – almeno la sua avventura ha avuto il merito di trasformarlo per qualche giorno in un piccolo grande eroe del quotidiano, di far germoliare in lui un gusto per l’esistenza di cui per troppo tempo si era privato. Muore (forse) proprio perché è stato uno dei pochi cittadini del Reich che ha avuto il coraggio di vivere veramente.  


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