
di Massimo Micaletti
La Pontifica Accademia Pro Vita ci ha abituati a sortite poco fortunate – per usare un eufemismo – sui temi della Bioetica e la “Nota A PROPOSITO DELL’ANNUNCIO DI NUOVE LINEE GUIDA SULL’ABORTO FARMACOLOGICO IN ITALIA” non fa purtroppo eccezione.
Nella Nota, infatti, la PAV fa appello a quelle “parti buone” della 194 che l’aborto mediante RU486 disattenderebbe, stavolta declinandole in una inedita accezione di fondamento di “una civiltà condivisa”. Questo concetto è, a mio sommesso avviso, la chiave per interpretare il documento e portare alla luce un equivoco che in certo mondo pro life – cattolico e non – è ormai fondamento consolidato di errori dalle conseguenze devastanti.
L’equivoco, se così lo si vuol chiamare, è nato dai tentativi, pur mossi da lodevoli intenzioni, di usare quelle parti della 194 che tutelano la maternità come scelta della donna (e non come protezione del concepito) quali grimaldelli per imporre un maggior rispetto della vita nascente nell’applicazione della 194, rispetto che è del tutto contro lo spirito vero della Legge per come è stato a più riprese definito dalla Giurisprudenza e dagli studiosi: l’aborto di Stato o è a piacimento o non è, altro che salute e maternità e “parti buone“. Ciò detto, da questi tentativi si è giunti alla puntuale prevista conclusione che le “parti buone” della 194 possano essere usate non solo e non tanto per difendere la vita ma per fondare una civiltà condivisa, ossia come ennesima strampalata ipotesi di conciliare una cultura che difende il debole e la vita come dato oggettivo e responsabilità, anche trascendente, e una cultura che invece promuove pretese egoistiche e vede la vita come un’opzione mutevole e irresponsabile a seconda del punto di vista ne può disporre. E’ da tempo, purtroppo, che nel mondo cattolico laici e religiosi si ostinano a lanciare cime dalla barca di Pietro verso un vascello diverso e ontologicamente ostile, al di là delle intenzioni e dei proclami di chi di volta in volta vi si affaccia: ed è tempo che non si contano gli esiti disastrosi in termini non solo di retta Dottrina ma anche – materialmente – di felicità terrena delle persone: divorzio, aborto, tecnoriproduzione, necroterapia ne sono solo alcuni esempi.
Da tempo, queste velleitarie ipotesi di conciliazione vengono pagate dai più deboli e indifesi eppure si insiste su questa china sciagurata: il silenzio sulla legge sul testamento biologico, prima ancora su quella sulle unioni civili, la mobilitazione zero su ormai troppi temi della Bioetica e della famiglia sono tutti momenti di un ostinato avvicinarsi ad ogni costo, anche quando il costo è la vita del malato e dell’innocente. L’urgenza di queste istanze richiede invece un confronto franco, diretto, aperto nella dialettica naturale che da sempre si consuma in questo mondo tra la Verità e l’errore, il Bene e il Male, la Forza e la violenza, la vera libertà e l’indiscriminata prevaricazione.
La civiltà condivisa, nella quale l’aborto è cattivo solo se non si difende la scelta della donna di tenere il bambino altrimenti va bene, è un’utopia anche un po’ furbetta e meschina, un concetto vuoto e retorico e in quanto tale pericoloso, su questo terreno: si abbandona la Buona Battaglia e si lasciano concepiti e malati e disabili al loro destino o, meglio – anzi peggio – li si difende fin quando vale la pena, finché questo non guasti per la condivisione, l’incontro, l’abbraccio, il sorriso, e il comune soddisfatto sprofondo.