di Luca Fumagalli

Kazuo Ishiguro, a dispetto del nome nipponico, è un autore inglesissimo. Non solo e non tanto perché ha vissuto in Inghilterra la maggior parte della vita, quanto perché la sua fama è legata indissolubilmente al romanzo Quel che resta del giorno, un distillato di storia, ambientazione e spirito britannico. La recente assegnazione del premio Nobel testimonia un altro aspetto caratteristico della letteratura di Ishiguro, cioè la sua capacità di evadere i confini nazionali per parlare una lingua universale, quella della vita e della morte, dei sentimenti e delle passioni. I protagonisti dei suoi lavori hanno il respiro dell’umano: costretti ai margini dell’esistenza, vagano nel vuoto alla ricerca di risposte.
Sono così anche a Kathy, Tommy e Ruth, i personaggi principali di Non lasciarmi (2005). Al centro del romanzo – da cui è stato tratto l’omonimo film del 2010 – è posta la relazione affettiva tra i tre, unica arma contro un mondo feroce, distopico, dove la scienza ha compiuto grandi passi in avanti giungendo alla clonazione degli esseri umani.
Il poco che il lettore sa è frutto della diretta testimonianza di Kathy H. (priva di un vero cognome, come tutti gli altri cloni), che racconta la storia in prima persona, con un lungo flashback. Chi legge cresce con lei, ne segue le vicende dell’infanzia fino ai trentuno anni, quando sta per finire il suo incarico di assistente. Le parti che compongono il romanzo, d’altronde, corrispondono proprio ai tre momenti decisivi nella crescita di ogni essere umano: l’infanzia, l’adolescenza e la piena maturità.
Lo sviluppo lineare della narrazione è spesso turbato da digressioni e approfondimenti, da fughe in avanti e ripensamenti. All’inizio la prosa è confusa, i vari ricordi sono connessi solo tenuamente, evocando nello stile le nebbie del miglior Proust. Anche se Kathy, rivolgendosi direttamente al lettore, stabilisce sin da subito con lui un rapporto di empatia e descrive gli accadimenti con un buon grado di obiettività, la vicenda centrale emerge lentamente, così come i protagonisti spiccano sulla massa dei personaggi solo dopo un certo numero di pagine.
Non lasciarmi si apre sull’infanzia di Kathy e dei suoi due amici. I tre vivono in un collegio prestigioso, Hailsham, immerso nella campagna inglese. Non hanno genitori, ma non sono neppure orfani, e crescono insieme ai compagni, accuditi da un gruppo di tutori che si occupano della loro educazione. Apparentemente nulla di strano, se non che gli insegnanti hanno talvolta reazioni eccessive quando gli alunni pongono semplici domande sul loro futuro. Persino Madame, tra le responsabili del collegio, si comporta con i bambini in modo sospetto, è infastidita dalla loro presenza e, quando può, li evita.

In ogni caso Hailsham è un posto tranquillo; Kathy, Tommy e Ruth vi passano giornate spensierate, e le mura che isolano la struttura, facendola assomigliare a una prigione, non impensieriscono più di tanto i fanciulli, che percepiscono la natura come qualcosa di alieno e inquietante. Alcune allusioni testuali – la ricorrenza di immagini acquatiche e gli echi biblici – contribuiscono a scalfire nel lettore la patina di incrollabile ottimismo, ma i protagonisti sono felici e hanno tutto ciò che desiderano. Ruth è la leader del gruppo, e anche se Tommy si fa spesso prendere da crisi di rabbia che attirano su di lui lo scherno dei compagni, in generale non accade mai nulla di preoccupante.
Il comportamento di Tommy è dettato dal fatto che ad Hailsham la creatività è reputata una qualità fondamentale, ma lui non dimostra alcuna attitudine per l’arte. I docenti organizzano durante l’anno fiere ed eventi per promuovere le opere degli studenti, questi ultimi autorizzati a barattarle tra loro (inquietante la sottesa analogia con i ragazzi, i cui organi saranno un giorno scambiati e utilizzati per trapianti). Periodicamente Madame seleziona i lavori migliori da esporre nella sua personale Galleria; per tutti è un grande onore poter far parte di una collezione reputata preziosa ma di cui, in verità, si sa poco. Qualcuno dubita persino della sua esistenza.
Raggiunti i sedici anni, i ragazzi non possono fare a meno di porre nuove domande ai tutori a proposito del loro destino. Miss Lucy, la più lucida dei sorveglianti, in seguito allontanata dalla scuola, è l’unica che ha il coraggio di parlare chiaro: «Siete stati portati in questo mondo con uno scopo preciso, e il vostro futuro, il futuro di ognuno di voi, è già stato deciso». La vita del donatore, inesorabile, già programmata sin dal concepimento, non lascia via di scampo. Il fatto poi che le lezioni d’educazione sessuale siano associate alle discussioni sull’espianto di organi, rende tutto grigio, saturo di morte. Gli studenti sembrano accettare la cosa stoicamente – gli inganni e le mezze verità hanno almeno il vantaggio di lasciare quiete la coscienze – e un riferimento fugace a My Fair Lady accenna alla scabrosa rigidità sociale della distopia di Ishiguro, ben peggiore di quella dell’Inghilterra primonovecentesca.
Con la fine dell’adolescenza inizia la stagione degli amori. Ruth e Tommy si fidanzano e a Kathy, che vuole bene a entrambi, spetta il compito di custodire la coppia – non così ben assortita – e intervenire quando vi è aria di rottura.
Intanto i ragazzi vengono traferiti ai Cottages, i resti di una vecchia fattoria. A metà strada tra Hailsham e il mondo reale, i Cottages costituiscono il passo successivo nell’educazione dei cloni: non ci sono più guardiani, ad eccezione di un vecchio custode, e gli studenti devono badare a loro stessi, dandosi da fare e cooperando nelle mansioni quotidiane. Possono leggere o guardare liberamente la televisione. Il periodo di permanenza complessivo è di due anni, durante i quali si dovranno frequentare dei corsi esterni sui compiti e i doveri degli assistenti.
Il rapporto tra Ruth e Kathy prosegue tra alti e bassi, più che altro a causa della fastidiosa tendenza della prima a imitare i comportamenti dell’amica e dei più grandi. La crisi, come prevedibile, è dietro l’angolo e inizia a consumarsi durante una gita di gruppo nel Norfolk, quando Ruth è impegnata nella ricerca del proprio “possibile” (la persona comune che ha fatto da modello a un clone, simile nell’aspetto a quest’ultimo). Le teorie legate ai “possibili” che circolano ai Cottages, però, sono diverse e fumose, non più credibili di quella fantasia che vuole che se due cloni riescono a dimostrare a Madame di essere veramente innamorati, possono ottenere un rinvio delle donazioni.

Mentre Tommy trova l’ispirazione per disegnare curiosi animaletti di sua invenzione, convinto che siano l’unico modo che Madame abbia per valutare la genuinità dei suoi sentimenti d’amore, Ruth, che coltiva grandi sogni per il futuro e che ancora ingenuamente crede di poter vivere una vita propria, magari facendo carriera in un ufficio, spera di poter trovare nel suo “possibile” una sorta di conferma, di percepire qualcosa di ciò che è lei veramente, di instaurare un legame con un mondo che la attrae ma che, al contempo, le è alieno. La delusione è cocente e la reazione scontata: «Lo sappiamo tutti. I nostri modelli sono i rifiuti del genere umano. Reietti, prostitute, alcolizzati, vagabondi. Carcerati, forse, basta che non siano psicopatici. È da lì che veniamo».
Quando la relazione tra Ruth e Tommy finisce, e quando Kathy si rende conto di non avere più un vero rapporto con l’amica, i tre si separano. È Kathy a fare il primo passo e chiede di poter iniziare in anticipo l’addestramento per diventare assistente.
La terza e ultima parte del romanzo esordisce con un balzo temporale in avanti di anni. Seppur ogni tanto si senta sola, alla narratrice il lavoro di assistente non dispiace. Non è certamente un compito facile quello di affiancare i donatori di organi fino alla morte, il naturale esaurimento del loro ciclo, ma Kathy è gentile e sa essere d’aiuto e conforto. Per questo motivo il suo incarico sta durando più di quanto inizialmente previsto.
Per caso viene a sapere che la prima donazione di Ruth non è andata molto bene e così si offre di diventare la sua assistente, speranzosa pure di poter ravvivare la loro vecchia amicizia. Del resto negli ultimi tempi molte cose sono cambiate, compreso Halsham, che ha chiuso i battenti.
Se, almeno inizialmente, la situazione per Kathy è tutt’altro che semplice, le cose migliorano in occasione di una gita al centro di Kingsfield, dove risiede Tommy, anche lui donatore. I tre si ritrovano di nuovo insieme. Riemergono gli antichi legami e si viene a scoprire che gli ex fidanzati sono diventati presto donatori perché, per ragioni diverse, odiavano fare gli assistenti.
Alla seconda donazione, stremata, Ruth muore. Prima di spirare confessa a Kathy la sua gelosia e di aver fatto di tutto per tenerla separata da Tommy. Per scusarsi, fornisce loro un foglietto di carta con l’indirizzo di Madame e invita entrambi a lottare per un futuro migliore: forse la storia del vero amore è autentica e Madame potrebbe fare qualcosa per allungare le loro esistenze.
I mesi passano. Kathy è diventata assistente di Tommy e tra i due è iniziata una tenera relazione. Il giovane deve essere sottoposto a breve alla quarta donazione e il rischio di non sopravvivere è altissimo: solo a questo punto Kathy si mette d’impegno per rintracciare Madame.

Come tipico del genere distopico, i capitoli finali del libro costituiscono una rivelazione che getta nuova luce sull’intera trama. Madame accoglie Kathy e Tommy in casa sua. Con lei vi è anche Miss Emily, una delle insegnanti di Heilsham. Questa, ormai anziana e in sedie a rotelle, narra ai due ragazzi l’amara verità: le teorie a proposito del vero amore e del rinvio sono tutte sciocchezze. Loro sono stati semplici pedine di un gioco più grande. Heilsham, da sempre considerata una perla d’eccellenza, era un progetto peculiare, finalizzato a dimostrare che i cloni sono esseri umani come tutti gli altri, dotati di un’anima (cosa non ancora universalmente accettata; infatti gli altri cloni del paese sono allevati in condizioni deplorevoli, reputati oggetti indistinti utili soltanto per rifornire la scienza medica). Per questo motivo a Heilsham l’arte aveva così grande importanza, e la Galleria raccoglieva le loro opere per provare pubblicamente che anch’essi possedevano ingegno e sensibilità.
A seguito di alcuni incidenti, le autorità hanno deciso di chiudere il collegio: ormai in Inghilterra non esiste più niente di simile e la gente ha preferito tornare a trattare i cloni come carne da macello e godere degli organi che questi offrono senza farsi troppe domande.
Il lirismo tragico di questa parte del romanzo è ciò che più avvicina Non lasciarmi alle molte narrazioni distopiche a sfondo scientifico, connesse in varia misura al mito, già di Huxley, della manipolazione, della biopolitica e dell’utopia catastrofica. Vengono alla mente titoli di ampio respiro come il capolavoro di C. S. Lewis Quell’orribile forza (1945), Giustizia facciale di L. P. Hartley (1960) e La possibilità di un’isola di Houellebecq (2005). Ma più che scrivere di tecnologia, la distopia, come nel libro di Ishiguro, si occupa dell’uso che di essa viene fatto dagli uomini, sovente nei panni dei persecutori. Le “magnifiche sorti e progressive” lodate nella Nuova Atlantide di Bacone si tramutano in un Moloch tecnocratico che divora ogni residuo d’umanità.
Il grido che Tommy lancia nella notte è l’eco del trionfo della distopia. L’abbraccio di Kathy, che cerca di calmarlo, non può lenire la disperazione seguita alla scoperta della verità; quella vita così brulicante, fatta di inquietudini, di affetti e di aspirazioni, è solo una bolla di sapone, un inganno perpetrato da sfruttatori malvagi e disinteressati. A mancare è una speranza concreta di significato e di felicità. Forse è un bene che Ruth non abbia mai scoperto nulla di tutto questo. Per lei sarebbe stata una tragedia insopportabile.
Poco dopo Tommy muore a seguito dell’ultima donazione e a Kathy non resta che viaggiare nel Norfolk, quel luogo in cui da piccoli credevano venissero portati gli oggetti smarriti. I rifiuti e la plastica che sventola intrappolata in un reticolato le ricordano il doloroso destino dei cloni. Per loro non c’è spazio nel più vasto mondo: «Aspettai un poco, poi tornai verso l’auto e mi allontanai, ovunque fossi diretta».
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