Da unavox.it riprendiamo un articolo di Mons. Klaus Gamber del 1987. Il clerical-femminismo che dopo il Sinodo Amazzonico sempre più si sparge nel già devastato giardino della Chiesa con una vicaria episcopale in Svizzera ed una biblista che si candida alla Primaziale di Lione, lo rende molto utile ed attuale.

Diego Valentín Díaz, Cristo come sacerdote gesuita, XVII sec., Valladolid
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Dopo la creazione di pastoresse protestanti si è riaccesa la discussione sul sacerdozio della donna. 
Per lo più essa prende le mosse dal rilievo che, per quanto concerne la condizione femminile, ci troveremmo oggi in una situazione completamente nuova. 
E per questo motivo anche l’atteggiamento tradizionale della Chiesa sull’ordinazione delle donne sarebbe messo in questione.
Nei tempi passati la donna si sarebbe trovata in una condizione di subordinazione rispetto all’uomo e quindi di inferiorità, mentre oggi nonostante le evidenti differenze biologiche, si sarebbe giunti al riconoscimento della parità tra i due sessi. 
Questo atteggiamento proprio del passato di considerare la donna come inferiore costituirebbe ancor oggi la vera ragione della sua esclusione dall’ordine sacro. Come invece non sia assolutamente esatto affermare che nella Chiesa cattolica la donna sarebbe considerata inferiore lo dimostra tra l’altro la grande venerazione in tutti i secoli tributata a una donna, cioè alla Vergine Maria, “Santissima Madre di Dio”, come ella viene chiamata nella Chiesa orientale. 
La ragione che giustifica l’esclusione della donna dal presbiterato quindi non può collocarsi in un preteso disprezzo per la donna.
Neppure Maria, la più santa di tutti gli uomini, “più venerabile dei Cherubini e incomparabilmente più eccellente dei Serafini” (liturgia bizantina), per volontà del suo Figlio divino fu destinata al sacerdozio. Non lo furono neppure, a maggior ragione, le donne che avevano accompagnato Gesù e lo avevano servito, alcune delle quali, come Maria Maddalena, insieme a sua Madre, gli erano rimaste fedeli fin sotto la Croce (Matteo 15, 40) ed erano state le prime testimoni e annunciatrici della sua resurrezione (Matteo 28, 1-10). 

A queste donne non fu affidato il ministero apostolico e sacerdotale nonostante il fatto che, come gli esempi ricordati dimostrano, le donne spesso meglio degli uomini siano in condizione di incontrare il divino e di corrispondervi. 
Il motivo di questa decisione di Gesù non è neppure da spiegare esclusivamente in base alla circostanza che presso gli Ebrei non vi erano sacerdotesse. Sappiamo, infatti, come in altri casi Cristo non tenne in alcun conto la tradizione giudaica: così per esempio quando conversò con la Samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv. 4,27), permise alla peccatrice di accostarglisi nella casa di Simone il fariseo (Luca 7, 37-50), accolse con benevola indulgenza la donna colta in flagrante adulterio (Gv. 8, 11). 
In tal modo egli mostrò, principio che spesso non viene osservato come si dovrebbe, che il peccato commesso da un uomo e quello commesso da una donna vanno giudicati con lo stesso metro. Come si spiega allora che ciò nonostante Gesù non destinò nessuna donna al ministero apostolico e sacerdotale?
Prima di rispondere, nelle righe che seguono, a questo quesito, bisogna sottolineare che soltanto l’esempio di Gesù e non una discriminazione nei confronti della donna, quale, in effetti, esiste non solo presso gli Ebrei i Musulmani, ma a volte anche da noi, ha rappresentato per la Chiesa la ragione decisiva per escluderla dall’ordine sacro. 


Sesso come connotazione essenziale 

Le femministe trascurano che il sesso rappresenta una connotazione essenziale dell’uomo che Iddio creò a sua immagine “maschio e femmina” (Gen. 1, 27). Trascurano inoltre che la distinzione dei sessi ha portato una differenziazione dei compiti e dei comportamenti di uomo e donna. Con ciò non bisogna peraltro dimenticare come la divisione dei ruoli formatasi storicamente spesso è andata al di là di quanto non richiedessero le attitudini specifiche dei due sessi. 
Al giorno d’oggi si tiene troppo poco in conto la ricchezza della femminilità e si vogliono “ridurre le differenze tra i sessi a meri fenomeni sociologici, a ruoli mutabili e addirittura intercambiabili. Tale “teoria dei ruoli” si collega con la pretesa di equiparare e confondere i compiti di uomo e donna. (M. Hauke, Die Problematik um das Frauenpriestertum, 1982, 45).
I sostenitori di queste tesi vedono di conseguenza l’esclusione dell’ordinazione delle donne da parte della Chiesa cattolica come un rigido arroccarsi in posizioni culturali superate, e paventano che così facendo, vale a dire allontanandosi da sé tante donne impegnate, la Chiesa perda qualcosa di valido. 
Il problema dell’ordinazione delle donne ha continuato ad essere discusso fin dagli inizi del movimento femminista nel secolo XIX in Inghilterra. Passato un po’ in seconda linea negli anni tra le due guerre, dopo l’ultimo Concilio esso si è riproposto con un nuovo vigore anche all’interno della Chiesa cattolica. 
Poiché i sostenitori del sacerdozio femminile si rendono conto di non poter conseguire il fine che si propongono tutto in una volta, ritengono opportuno procedere per gradi. Questo percorso graduale passa per le chierichette, – “si divertono tanto e sono tanto carine”-, e le assistenti pastorali con funzioni “clericali”, la cui esistenza è già prevista dal nuovo diritto canonico, fino ad arrivare al diacono donna.
Se questa figura fino ad oggi ancora non esiste nella Chiesa cattolica, le sue funzioni principali (distribuzione dell’Eucaristia e predicazione) sono fin d’ora esercitate, senza ordinazione, da donne. 
Non va qui taciuto che nella chiesa primitiva ha vi furono effettivamente diaconi donne (diaconesse): esse venivano persino ordinate al pari dei diaconi. Però la loro funzione non aveva in nessun caso nulla a che fare con il vero e proprio servizio dell’altare: consisteva principalmente nell’assistenza al battesimo delle donne, che come è noto nei primi tempi veniva amministrato per immersione, nella sorveglianza delle donne durante le funzioni liturgiche e in primo luogo nel servizio sociale della Chiesa. 
 

“Incapacità di culto” della donna 
Nell’ambito della questione relativa all’ammissione di ragazze a servire Messa, ebbi a parlare, nella rivista Weltbild (n. 17/83), della “incapacità di culto” (Kultunfähigkeit) della donna, il che ha provocato l’aperta ribellione di molte donne. Dal contesto sarebbe però stato facile rendersi conto che con ciò si intendeva dire solamente che nelle religioni cristiane e nel giudaismo la donna, per determinate ragioni che in quella sede non avevo la possibilità di approfondire, non poteva esercitare la funzione di sacerdote sacrificatore, e pertanto era “incapace di culto”. Alla base di ciò possono individuarsi le seguenti ragioni: 
1. Nelle dette culture i sacrifici comportavano il più delle volte l’abbattimento di animali. Ora, soprattutto trattandosi di animali di grossa taglia, la donna risulta naturalmente meno adatta a tale operazione a causa della sua costituzione fisica.
2 Anche dal punto di vista della natura essenziale della donna, l’uccisione di animali non è un’azione che le si addica, in quanto il suo compito è quello di dare alla luce la vita e di allevare questa nuova vita. Invece l’uomo, a rischio della propria vita, deve difendere in battaglia contro gli aggressori le persone a lui affidate: allora, in certi casi, egli deve uccidere il nemico. Per analoghi motivi pure il ruolo di cacciatore una volta era esclusivo dell’uomo.
3. La ragione decisiva della “incapacità di culto” era però un’altra. Presso molti popoli, tra cui gli ebrei, in determinati giorni, vale a dire durante le mestruazioni e per alcune settimane dopo la nascita di un figlio, la donna era ritualmente “impura” (Cfr. Lev. 12, 4-8). Peraltro l’impurità rituale non riguardava esclusivamente la donna, anche se essa ne era colpita per parecchi giorni all’anno e si trattava di un effetto per lei ineliminabile in quanto legato alla sua natura. Anche l’uomo poteva divenire “impuro”, per esempio in seguito al contatto con un cadavere (Cfr. Lev. 22, 4-9), ma ciò era cosa che poteva essere evitata. Stabiliva la legge giudaica: “qualunque uomo della vostra discendenza che si trovi in stato di impurità (rituale) e si accosta alle cose sante … dovrà morire davanti al Signore” (Lev. 22,3).
Queste dunque le ragioni per le quali nella cultura pagana e soprattutto presso gli Ebrei non vi erano sacerdotesse sacrificatrici. Presso i Romani, anche per sacrifici domestici incruenti, il rito era compito esclusivo del pater familias e mai della moglie, la quale invece per tutto il resto godeva nella casa di un illimitato potere di direzione. 
Si potrebbe obiettare che, nonostante tutto ciò, in talune culture è attestata all’esistenza di sacerdotesse. Anche se in merito non abbiamo molti dati concreti, sembra valesse la limitazione che, non potendo ricoprire il ruolo di sacerdote sacrificatore, le donne in realtà non avessero esercitato funzioni di culto dirette. Le antiche “sacerdotesse” erano spesso veggenti, si pensi alla Pizia, che era sacerdotessa di Apollo a Delfi, in quanto il dono della profezia è assolutamente appropriato alla natura della donna la quale, sotto molti aspetti, è più sensibile dell’uomo. Paolo non esclude affatto che vi siano donne dotate del dono della profezia (Cfr. 1Cor. 11, 5): come per esempio Santa Ildegarda di Bingen, la veggente Caterina da Siena e la mistica Teresa d’Avila. Tutte hanno goduto di alta considerazione. 
La maggior parte delle sacerdotesse erano però “donne del tempio” ovvero “vergini del tempio”, al servizio di un dio o di una dea. Anche nel Vecchio Testamento si parla di donne “che facevano la guardia all’ingresso della tenda (del convegno)” (Es. 38, 8 e 1Sam. 2, 22).
Analogamente sappiamo di donne che nell’antica Babilonia prestavano servizio presso il tempio di Sippar, dio del sole. Esse, al pari delle Vestali che custodivano il fuoco sacro del foro romano, vivevano in assoluta castità e in un rigido isolamento in una specie di chiostro annesso al tempio. Erano inviolabili e pertanto si trovavano in una situazione diametralmente opposta a quella delle “prostitute sacre” che esistevano in diversi culti pagani (così a Babilonia presso il tempio della dea Ishtar; cfr. König, Christus und die Religionen II, 472s.). In età ellenistica troviamo “sacerdotesse” nei culti di Cibele, Artemide e Demetra, come pure nei misteri di Iside e di Dioniso. Le loro funzioni specifiche, e ha quale categoria di serve del tempio appartenessero, sono incerte (Cfr. Hauke, op. cit., 397s.).


L’esempio di Cristo 
Mentre per le ragioni sopra ricordate nel paganesimo, in primo luogo presso gli Ebrei, la donna era “incapace di culto” (nel senso di “incapace di assumere la funzione di sacerdote sacrificatore”), nel cristianesimo, dopo che Gesù ha abrogato le prescrizioni giudaiche sulla purità rituale sostituendole con precetti morali (Cfr. Mt. 15,11; Rom. 14,14), le ragioni dell’esclusione della donna dal ministero sacerdotale che comporta l’offerta del sacrificio debbono essere diverse. Esse non sono tanto di natura biologica quanto piuttosto, come ora dimostreremo, di natura teologica.
La prima ragione è stata già accennata: è basata sull’esempio di Gesù che nell’ampia cerchia dei suoi discepoli ha scelto dodici uomini, i suoi apostoli, per celebrare con loro l’Ultima Cena la sera della sua Passione. Ed egli fece ciò anche se come Uomo-Dio ben sapeva che essi, tutti a eccezione dell’apostolo Giovanni, appena poche ore più tardi lo avrebbero abbandonato, mentre alcune donne di quelle che lo seguivano lo avrebbero seguito fino sul Golgota.
Inoltre dopo la cena Gesù affidò ai soli apostoli il compito di fare questo in sua memoria (Lc. 22, 19), cioè di offrire nel suo nome al Padre Celeste il pane ed il vino, dopo avere reso grazie, e sotto tali specie dare “a molti” il Corpo e il Sangue di Cristo “per la remissione dei peccati” (Mt. 26, 28). E agli apostoli soltanto Gesù dopo la sua resurrezione ha dato il suo Spirito, quando alitò sopra di loro e pronunciò le parole: “Ricevete lo Spirito Santo!” (Gv. 20, 22), in tal modo li consacrò sacerdoti, come Iddio aveva “soffiato” il suo spirito in Adamo e questi diventò un essere vivente (Cfr. Gen. 2, 7).
Un’altra ragione, che è forse la più importante, per cui nella Chiesa soltanto gli uomini e non le donne possono diventare sacerdoti, si fonda sul fatto che, quando offre il sacrificio eucaristico sull’altare, il sacerdote agisce in persona Christi, il Celeste Sommo Sacerdote (Cfr. Ebr. 2, 17). “Cristo è qui che prepara la cena”, dice Giovanni Crisostomo (De Jud. 6), “infatti, non è per opera di un uomo che quanto si trova sull’altare diviene il Corpo e il Sangue di Cristo. Quando si accosta all’altare e ivi presenta la sua supplica di sacerdote è solamente interprete e rappresentante del Salvatore, ma la grazia e la potenza che tutto opera è quella del Signore”.
Ora dato che Gesù qui in terra come uomo era appunto un uomo, una donna non può rappresentarlo all’altare, anche se ne fosse pienamente degna. Al contrario l’uomo è idoneo a farlo non certo per la sua attitudine caratteriale o per il fatto di esserne degno, ma unicamente perché questa è la volontà di Gesù in forza della consacrazione sacerdotale.
Paolo è colui che, già ai suoi tempi, ha affermato l’autentica parità di uomo e donna scrivendo in Gal. 3, 28: “Non c’è (più) giudeo, né greco né schiavo né libero, né uomo né donna, poiché voi tutti siete una cosa sola in Cristo” (Cfr. anche 1Cor. 7, 3-5). Ciò nonostante egli ha espresso il giudizio: “Le donne tacciano nelle assemblee” (1Cor. 14,34), riferendosi espressamente alla “legge”, anzi parlando di “comandi del Signore” (14,37). Peraltro con tutta probabilità vi si deve intendere, come si ricava da contesto, soltanto il divieto di insegnare nell’assemblea e non un assoluto diritto di parlare (Cfr. Hauke, op. cit., 358ss.)
Dato che il protestantesimo non riconosce né il Sacrificio della Santa Messa né di conseguenza l’ordine del presbiterato, non sussiste ivi, dal punto di vista teologico, l’impedimento da noi illustrato all’ammissione delle donne al ministero ecclesiastico. Tuttavia il fatto che Cristo non abbia scelto e inviato donne a predicare esclude anche che si possa dare a donne il ministero della predicazione, e quindi che sia possibile crearle pastori protestanti. Tuttavia questo si fa da alcuni anni, nonostante una certa resistenza interna. 
Che la creazione di pastori donne da parte evangelica abbia determinato una sorta di effetto di risucchio in determinati circoli all’interno della Chiesa cattolica è un dato che non va trascurato. In questa direzione del resto conduce l’odierna confusione di ruoli dei due sessi e l’eguaglianza sociologica della donna nella vita pubblica, dove ora essa può praticamente accedere a tutti gli uffici pubblici e a tutte le professioni, compresa la carica di presidente del consiglio dei ministri. Così le pastoresse evangeliche assumono sempre più carattere di modello. In tal modo quello che era propriamente un problema teologico è finito per diventare un problema di emancipazione. 
Completamente indenni da tutto ciò sono rimaste fino ad oggi le Chiese ortodosse orientali. Qui sarebbe assolutamente impensabile che donne predicassero o addirittura distribuissero l’eucaristia. L’opinione degli ortodossi è stata espressa dal vescovo Atenagora di Tiatira e Gran Bretagna, il quale nella richiesta dell’ordinazione femminile prevede una moda contemporanea che sovverte l’ordinamento del Vangelo nella pratica della Chiesa. 
E il prof. K. Skurat afferma sulla rivista Stimme der Orthodoxie (n. 9/83,40): “Del resto non bisogna dimenticare che nella Chiesa i grandi non sono i membri della gerarchia (vescovi), ma i Santi, e alla santità tutti sono egualmente chiamati”. 


(da UVK 3/1987, 174ss.; titolo originale “Ein Priestertum der Frau?”)