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Articolo originariamente pubblicato su itresentieri.it col titolo “Il martirio. Un’originalità umana che fa capire quanto la morte non sia il destino dell’uomo”.

Il martirio è presente in molte religioni e anche in alcune ideologie, perfino le più errate e pericolose. Di per sé il martirio non dimostra nulla se non una coerenza portata all’estremo. Vi è però da dire che non tutti i martirii sono uguali, come abbiamo già avuto modo di scrivere (clicca qui). Un conto è morire per non rinunciare a credere in qualcosa, altro è morire -o rischiare di morire- per non rinunciare a testimoniare ciò che si è visto. Quest’ultimo martirio dimostra, eccome; ed è presente solo nel Cristianesimo.

Ma torniamo al concetto di martirio in sé. Testimoniare fino all’estremo è un unicum umano, cioè un’originalità dell’uomo. Nessun vivente sulla faccia della terra lo può fare consapevolmente. Diciamo “consapevolmente” perché si sa -per esempio- che alcune api operaie si sacrificano per salvare l’ape regina senza la quale l’alveare non potrebbe continuare ad esistere.

Il martirio consapevole (che è solo dell’uomo) è un grande, meraviglioso, paradosso. Da una parte si è consapevoli della negatività della morte, con tutti i timori e repulsioni che essa suscita, dall’altra la si accetta per qualcosa che si reputa talmente grande da coinvolgere e dare sostanza al proprio vivere. L’ape operaia si sacrifica, ma non è consapevole di cosa rinuncia. L’uomo, invece, lo sa perfettamente e vi rinuncia ugualmente.

Senza giri di parole, forse anche correndo il rischio di cadere un po’ nella retorica, va detto che tutto questo si spiega solo con la forza dello spirito, ovvero con il fatto che l’uomo, solo l’uomo, è consapevole (anche se non sempre gli sono chiare le argomentazioni per dimostrarlo) di avere un’anima immortale.

Il noto scrittore Franz Kafka (1883-1924) nel suo Preparativi di nozze in campagna scrive: “I martiri non sottovalutano il corpo, lo fanno innalzare sulla croce. In ciò sono d’accordo con i loro nemici.” 

Queste parole sintetizzano bene la verità e il mistero del martirio. Prima di tutto affermano che il martire non è un “masochista”. Egli ama la vita, o perlomeno è consapevole di quanto essa sia importante e sacra. Piuttosto con il suo gesto “innalza” il corpo. E qui Kafka (forse suo malgrado) è costretto ad ammettere che il martirio per eccellenza è una totale offerta, quella totale offerta che è avvenuta in un luogo, in un momento e in una posizione: quella della Croce. Ma dove Kafka ci offre una verità ancora più vera (permetteteci questo gioco di parole) è nell’affermazione che tutto sommato il martirio dimostra il perfetto “accordo” tra il martire stesso e i suoi nemici.

E qui si ritorna al punto di cui sopra. Il martire e i suoi aguzzini si ritrovano in un paradossale accordo, quello di “maneggiare” la morte; cioè asservire la morte, renderla strumentale per qualcosa che va oltre di essa; per qualcosa che la riduce a “via”, ad “itinerario”, a “sentiero” per raggiungere qualcos’altro.

In questo caso morire e ucciderediventano paradossalmente “complici”, ma non in un relativismo morale, no affatto… bensì in una parificazione esistenziale.

Quella parificazione esistenziale che dimostra quanto l’uomo sia consapevole che la morte non è né può essere il suo destino.